La crisi dell’Unione Europea come “casa comune” deve essere davvero grave se un giornale come il Corriere della Sera va a intervistare un intellettuale tedesco – non particolarmente “rivoluzionario”, ma abbastanza indipendente – per fargli dire (rivolto al pubblico italiano) che l’euro così com’è non funziona, avvantaggia la Germania e pochi altri, provoca disuguaglianze crescenti tra paesi (e classi sociali), quindi anche malessere sociale e crisi politica generalizzata.
In questa “conversazione” Claus Offe – sociologo, allievo di Habermas – dice con molta tranquillità quello che diversi economisti, sia marxisti che liberali, ripetono da parecchi anni, a far data almeno dall’esplosione della crisi del 2007-2008 cui l’Unione Europea ordoliberista (è una visione economica “molto tedesca”, come spiega anche Offe) ha risposto implementando politiche di “austerità”.
Si tratta di fatti sotto gli occhi di tutti, non di opinioni da teorici. E i fatti, ahi noi, hanno la testa dura, restano lì anche se vogliamo cercare di ignorarli (il pensiero va a tanta compagneria che di fronte a chi glieli indica blatera di “nazionalismo”, “sovranismo” e cazzate varie prese di peso da Repubblica o dall’ufficio stampa del Pd).
Siccome i fatti sono cose reali capita che vengano notati anche dai peggiori nemici dei lavoratori, che ovviamente li usano a loro vantaggio. Molte delle polemiche pubbliche sull’euro e i trattati “squilibrati” sono state sollevate dalla destra, dai leghisti e persino da qualche fascista. Tanto basta a liquidare i fatti come forme di espressione di un’ideologia?
Evidentemente no. E basta un intellettuale “sinceramente democratico” ma senza spesse fette di prosciutto sugli occhi a indicarli chiamandoli col loro nome. Solo un breve elenco è sufficiente:
L’Unione monetaria è divisiva: alcuni Paesi vincono, altri perdono e il divario si allarga.Ma il punto decisivo è quello che Offe chiama “il mulino satanico”, ossia le regole sancite dai trattati e soprattutto la moneta unica: continuare ad obbedire a queste regole “automatiche” impoverisce paesi e classi già povere, ma allo stesso tempo nessuno può uscire unilateralmente da questa macina.
L’euro lega le mani dei Paesi del Sud, che sono costretti ad adattarsi alle sfide della competitività attraverso svalutazioni «interne», ossia comprimendo i salari e le spese sociali.
I Paesi perdenti non possono più stabilire un loro specifico obiettivo di inflazione, ora fissato dalla Bce. Allo stesso tempo, i bassissimi tassi di interesse, anch’essi determinati dalla Bce, avvantaggiano i Paesi vincitori rendendo meno costoso il loro debito pubblico.
La Germania dal 2007 ad oggi ha risparmiato 294 miliardi di euro di interessi sul debito, una cifra che vale quanto un intero anno di spese federali.
Un altro vantaggio per i Paesi vincitori è che il cambio fisso dell’euro funziona come sussidio alle loro esportazioni.
Insistere su criteri validi «a prescindere» a volte riflette l’interesse di chi ne è favorito.
Lo abbiamo scritto in altro modo, ma la sostanza è la stessa: uscire dall’euro e dalla Ue sarebbe certamente traumatico, restarci dentro è mortale.
E’ una contraddizione reale, in linguaggio marxiano, ossia un processo che distrugge le condizioni che l’hanno generata producendone di nuove. Si può certamente far finta di non vederla, ma se ne viene macinati lo stesso. Meglio, dunque, studiarla e vedere da quale parte se ne può uscire, se si può, prima di morirne.
Offe naturalmente parla della necessità di riformare l’euro e i trattati relativi, ma è consapevole – al contrario di tanta compagneria impaurita dai fatti e dalla necessità di pensarli freddamente – che ogni giorno che passa diventa meno probabile.
La riforma dell’unione monetaria e l’attivazione di investimenti transazionali su larga scala, finanziati dai Paesi vincitori, rimane l’unica via di uscita collettivamente razionale. Ma il tempo per avviare un simile percorso si sta rapidamente esaurendo.
La via d’uscita razionale sbatte infatti contro l’interesse materiale (“la Germania non mostra alcuna inclinazione a condividere i frutti che le regole dell’euro hanno generato per la propria economia con quei Paesi che invece da queste stesse regole sono stati indirettamente penalizzati”) e le probabilità che la ragione prevalga sono nulle. E’ come chiedere al vampiro di cambiare natura e bersi un’aranciata al posto del sangue.
Una contraddizione reale che non ammette riforma ha un esito quasi obbligato: la vittoria di una classe sull’altra o la rovina di entrambe. Tradotto sul piano storico concreto, o si riesce a realizzare la rottura dell’Unione Europea costruendo una nuova e diversa comunità di stati (fondata su criteri sociali e rapporti di reciproco vantaggio, ossia quella che abbiamo chiamato area euromediterranea) oppure lo squilibrio crescente innescherà il prevalere dei nazionalismi regressivi, aggressivi, apertamente belligeranti.
Se si vuol ragionare seriamente, anche Offe e il Corriere della Sera possono qualche volta essere utili...
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Riformare l’euro: le responsabilità dei paesi vincitori
Conversazione tra Maurizio Ferrera e Claus Offe
MAURIZIO FERRERA — Di recente hai scritto molto sull’Europa e sei anche uno dei pochi influenti intellettuali tedeschi che criticano apertamente le politiche europee della Germania. Vedi un nesso tra le disfunzionalità dell’Unione monetaria e la crisi sociale e politica, specialmente nell’Europa meridionale?
CLAUS OFFE — Certamente. L’Unione monetaria è divisiva: alcuni Paesi vincono, altri perdono e il divario si allarga. L’euro lega le mani dei Paesi del Sud, che sono costretti ad adattarsi alle sfide della competitività attraverso svalutazioni «interne», ossia comprimendo i salari e le spese sociali. Ma ciò rischia di essere dannoso per la crescita, l’occupazione e la riduzione del debito pubblico attraverso il cosiddetto dividendo fiscale. Le condizioni di vita delle famiglie sono marcatamente peggiorate, dando origine a un malcontento e a una protesta sempre più rabbiosa, anche se spesso mal indirizzata. I Paesi perdenti non possono più stabilire un loro specifico obiettivo di inflazione, ora fissato dalla Bce. Allo stesso tempo, i bassissimi tassi di interesse, anch’essi determinati dalla Bce, avvantaggiano i Paesi vincitori rendendo meno costoso il loro debito pubblico.
MAURIZIO FERRERA — Questo però è vero anche per i Paesi del Sud. In realtà la Germania si lamenta dei bassi livelli dei tassi d’interesse.
CLAUS OFFE — Ma omette di riconoscere che dal 2007 ad oggi ha risparmiato 294 miliardi di euro di interessi sul debito, una cifra che vale quanto un intero anno di spese federali. Un altro vantaggio per i Paesi vincitori è che il cambio fisso dell’euro funziona come sussidio alle loro esportazioni. Non stupisce che la Germania non mostri alcuna inclinazione a condividere i frutti che le regole dell’euro hanno generato per la propria economia con quei Paesi che invece da queste stesse regole sono stati indirettamente penalizzati.
MAURIZIO FERRERA — Già nel tuo libro del 2012 avevi parlato di una «Europa in trappola». Da allora gli effetti della crisi hanno provocato una profonda e allarmante questione sociale, dalla quale è molto difficile uscire.
CLAUS OFFE — Viene in mente la metafora del «mulino satanico», coniata dallo storico Karl Polanyi: ossia quell’«abisso di degradazione umana» che si verificò agli albori del capitalismo europeo. Ciò che rende il mulino di oggi particolarmente «satanico» è che nessuno può razionalmente decidere di abbandonare l’euro. A dispetto della propaganda demagogica, un’uscita unilaterale provocherebbe enormi danni. A meno che non si trovi un modo per riformare le regole e introdurre forme di compensazione per i perdenti, rimarremo tutti intrappolati nel «mulino». E più a lungo dura la trappola, più diventa politicamente difficile intraprendere un serio percorso di riforma. La riforma dell’unione monetaria e l’attivazione di investimenti transazionali su larga scala finanziati dai Paesi vincitori rimane l’unica via di uscita collettivamente razionale. Ma il tempo per avviare un simile percorso si sta rapidamente esaurendo.
MAURIZIO FERRERA — Come Stato membro più grande e come maggiore potenza economica dell’Europa, ci si aspetterebbe che la Germania svolgesse le funzioni di un «egemone benevolo», capace di riconciliare i propri interessi nazionali con quelli degli altri Paesi e, più in generale, con la sostenibilità economica e politica di lungo periodo dell’Unione europea in quanto tale.
CLAUS OFFE — Durante la crisi la Germania ha largamente abdicato alle proprie responsabilità in Europa e per l’Europa. Ha cercato di imporre il proprio modello economico e sociale, in base a quella che definirei la «teoria dei vasi di fiori». Le regole che hanno funzionato così bene a casa «nostra» — così la predica tedesca — sarebbero vantaggiose anche per «voi», se solo foste in grado di rispettarle, come peraltro vi chiede la Ue. Basta usare gli stessi semi e lo stesso fertilizzante e nasceranno gli stessi fiori anche in vasi diversi. La tesi è sbagliata perché ignora o nega l’interdipendenza sistemica: la Germania è la Germania perché ha potuto trarre vantaggi, senza condividerli, dal sistema Ue e dalle interdipendenze fra Paesi — l’opposto dei vasi di fiori separati.
MAURIZIO FERRERA — Il mantra delle élite tedesche e nordeuropee durante la crisi è stato pacta sunt servanda. Un principio più che ragionevole. Ma il diritto romano prevedeva anche la clausola rebus sic stantibus: agli obblighi di un patto si può derogare in caso di mutamenti significativi delle circostanze...
CLAUS OFFE — Le regole istituzionali non sono mai «date»; sono sempre frutto di decisioni umane. Seguire la routine consente di evitare decisioni scomode o difficili. Ma gli attori sociali possono anche decidere di infrangere le regole, e talvolta ci sono buone ragioni per farlo, per esempio quando non si applica la clausola da te ricordata. A un certo punto le regole possono avvantaggiare una sola delle parti a cui si applicano; oppure la persistenza di regole uniformi finisce per creare disparità di condizioni. Certo, in assenza di buone ragioni è corretto rispettare i patti. Ma l’applicazione di una regola può fallire, o può comportare la violazione di altre regole. Tutto dipende da come valutiamo la qualità delle ragioni che ciascuna parte adduce. Per evitare rotture, in certi casi è opportuno piegare o sospendere temporaneamente le regole. Ma insistere su criteri validi «a prescindere» a volte riflette l’interesse di chi ne è favorito piuttosto che un atteggiamento genuinamente ispirato al principio secondo cui le regole vanno rispettate.
MAURIZIO FERRERA— Un’altra massima speso ripetuta è che non possiamo separare «controllo» e «responsabilità»: chi decide autonomamente una azione deve essere ritenuto responsabile delle sue conseguenze. Mi chiedo fino a che punto, in un sistema complesso come l’Unione economica e monetaria, sia davvero possibile determinare tutte le conseguenze delle azioni di ciascun governo e attribuire responsabilità univoche... Ovviamente, non sto negando che esistano le responsabilità nazionali, ci mancherebbe. Ma non credi che la retorica dei «santi» e dei «peccatori» sposata dalle élite tedesche sia cresciuta oltre i limiti dell’accettabilità politica, etica e persino epistemica (oltre un certo punto, non siamo più in grado di distinguere cause e effetti)?
CLAUS OFFE — Non potrei essere più d’accordo. I vincitori tendono ad attribuire il proprio successo a talento e impegno, mentre i perdenti preferiscono incolpare le circostanze avverse. I vincitori accusano i perdenti di non aver obbedito ai precetti della prudenza e della coerenza morale, mentre i perdenti considerano i vincitori come baciati dalla fortuna o li accusano di aver tratto vantaggi a spese altrui. Queste due narrazioni vanno valutate nel merito specifico, ma bisogna evitare che le narrative dei vincitori prevalgano: il rischio è alto in una sfera pubblica multilingue e quindi frammentata come quella dell’Ue. Per usare un noto aneddoto di Bertolt Brecht, «dove niente sta al posto giusto, c’è disordine». Dal che sembra discendere logicamente che «dove al posto giusto non c’è niente, lì c’è ordine» (l’ordine, il valore assoluto degli ordoliberali!). L’ossessione dottrinaria per l’applicazione delle regole può essere devastante. Lasciami finire con una battuta, tratta da un commento del Financial Times (6 maggio 2018). Nel 1989 un esempio emblematico di probità fiscale e austerità, ovvero il dittatore rumeno Nicolae Ceausescu, si vantava per il fatto che il suo Paese aveva un avanzo di bilancio pari a 9 miliardi di dollari. Entro la fine di quell’anno il suo regime era improvvisamente collassato e lui stesso non era più tra i vivi.
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