L’economia non è una scienza esatta, nonostante l’abuso di strumenti matematici. Anzi, è definita spesso “la scienza triste”, perché “prevede il passato” ma è cieca verso il futuro.
Ogni volta che un economista fa “previsioni” in realtà sta scommettendo su un esito che può essere più o meno probabile, ma molto dipende dai parametri usati, che a loro volta discendono dalle convinzioni teoriche dell’economista o dell’istituzione per cui lavora.
E a quanto pare gli economisti dell’Unione Europea hanno clamorosamente “toppato” tutte le stime sugli effetti delle politiche di austerità sulla crescita dei paesi con debito pubblico elevato. A dirlo non sono pericolosi e trinariciuti studiosi “non ortodossi”, ma addirittura la Banca Centrale Europea, ancora guidata da Mario Draghi.
A segnalare la notizia – che se fosse pubblicata sui giornali mainstream dovrebbe portare al licenziamento in tronco di tutti i redattori economici, vicedirettori compresi – è il quotidiano Milano Finanza, che ha come target imprese e investitori professionali, dunque deve fornire notizie vere più che ideologia buona per tutte le stagioni.
L’articolo di Francesco Ninfole è tecnicamente impietoso fin dal titolo: Bce: previsioni errate sull’austerità, e il catenaccio articola con precisione l’oggetto dell’errore: Le strette ai bilanci pubblici hanno avuto sul Pil un effetto maggiore di quanto stimato dalla Commissione Ue.
Non crediate che questa sia materia soltanto tecnica, per addetti ai lavori. In base a queste previsioni ad capocchiam sono stati smantellati istituti di welfare in quasi tutti i paesi europei, e ancora lo si sta facendo (la Francia è sul punto di varare la sua versione, peraltro identica o quasi a quelle italiana, greca, ecc. differendo solo nelle proporzioni, forse). Insomma, l’impoverimento generale delle popolazioni di quasi tutta Europa – e la crescita esponenziale dei nazionalismi – ha avuto una forte accelerazione proprio grazie alle misure decise in base a quelle previsioni, e che nelle intenzioni avrebbero dovuto contrastare gli effetti della crisi finanziaria esplosa globalmente nel 2007-2008.
Tecnicamente la questione era stata già posta da Olivier Blanchard (ex capo economista del Fmi, non sospettabile di cripto-bolscevismo), secondo cui “i moltiplicatori reali” in Europa erano stati “largamente maggiori di 1”. I moltiplicatori sono i “valori che indicano il rallentamento dell’economia legato alle manovra sui bilanci pubblici”, ossia alle varie “leggi di stabilità” nazionali che si pongono l’obiettivo della riduzione del deficit e del debito pubblico.
Secondo la teoria keynesiana, notoriamente, se uno Stato investe in deficit produce un effetto generale sulla crescita economica del paese che sarà superiore a quanto investito; dunque quegli investimenti si ripagheranno da soli, tramite le tasse, il cui gettito è ovviamente maggiore – a parità di aliquote fiscali – se il prodotto interno lordo cresce (secondo una proporzione che viene chiamata “moltiplicatore”).
Ne consegue che se uno Stato taglia la spesa pubblica ci si deve attendere una riduzione della crescita economica, dunque una riduzione delle entrate fiscali e di conseguenza problemi seri di rifinanziamento del debito, pagamento delle spese correnti (stipendi, interessi, beni e servizi, macchinari, ecc).
I neoliberisti al servizio dell’Unione Europea, nel consigliare le politiche di austerità, hanno completamente rimosso gli ovvi riflessi negativi delle politiche di “taglio” che andavano suggerendo. Nonostante lo standard normalmente usato sia un “moltiplicatore dello 0,5%” (ogni euro di taglio alla spesa si traduce in una minore crescita attesa pari a 50 centesimi), gli “esperti” della Commissione Ue hanno usato per le loro previsioni iniziali moltiplicatori pari a 0,25, o addirittura a 0,1; in qualche caso perfino zero assoluto.
Tradotto in soldoni: prevedevano che gli effetti sulla crescita sarebbero stati nulli o quasi. Quindi si poteva tranquillamente sforbiciare senza provocare alcun disastro sistemico nelle economie nazionali costrette a fare quanto suggerito.
Come in tutte le tragedia c’è sempre qualcuno che risulta involontariamente comico. In questo caso la parte è stata recitata da Alberto Alesina, sopravvalutatissimo economista tra l’Italia e gli Stati Uniti, editorialista seriale (sempre lo stesso articolo, o almeno la stessa ricetta) del Corriere della Sera, spesso interpellato come esperto in trasmissioni televisive. In un suo studio, redatto insieme a Silvia Ardagna, aveva addirittura previsto che “una stretta fiscale avrebbe aumentato la fiducia e quindi la crescita”. Basta chiedere un parere su come è andata davvero a un qualsiasi passante greco, italiano, spagnolo e persino tedesco, e il problema della credibilità scientifica degli Alesina è archiviato per sempre.
Lo studio della Bce, tutto sommato, cerca di essere “moderato” nella critica agli economisti della Ue. E se ne comprende facilmente anche il motivo (la Bce non si è mai dissociata dalle “ricette” prescritte dalla Ue, tanto da venir di diritto inserita tra i membri della Troika, insieme al Fmi). Questo si traduce in un calcolare gli effetti negativi dell’austerità con un moltiplicatore dello 0,66% (ogni euro di taglio ha comportato una minore crescita in questa proporzione); leggermente minore di quello fissato a suo tempo da Blanchard e altri, ma decisamente più alto di quelli utilizzati per le stime Ue (lasciando perdere, per carità di patria, il raffronto con le “previsioni di Alesina”).
Ci si attenderebbe che queste stime fossero finalmente messe nel posto che spetta loro (c’è solo l’imbarazzo della scelta e il pudore nello scriverlo), ma così non è.
Più grave ancora è però il motivo per cui quelle “previsioni” sono state elaborate e accettate dalla Ue. Scrive lo stesso Ninfole: “Durante la crisi le misure di austerità hanno riguardato soprattutto la Grecia: è stata anche una conseguenza della volontà politica di non imporre perdite ai principali creditori del Paese, ossia alle banche tedesche e francesi”. Altro che “rimettere in riga un paese e un popolo di “cicale” che spendevano troppo in “alcol e donne” (espressione gentile dell’ex capo dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem), bisognava salvare le banche dell’asse franco-tedesco, che avevano sciaguratamente investito troppo o prestato troppo ad Atene...
Si potrebbe pensare che, comunque, non essendo la Grecia in condizioni di ripagare un debito di quelle dimensioni, le banche di Berlino e Parigi abbiano subito comunque delle perdite. Non è così: “Il debito di Atene non è stato ristrutturato, se non in misura limitata e tardiva”, ma “il tempo è servito agli istituti tedeschi e francesi per uscire dal Paese”.
Insomma, la scienza economica al servizio della Ue ha svolto egregiamente il suo compito: tutelare la grande finanza multinazionale e mandare il conto al popolo greco (e in parte minore a quelli italiano, spagnolo, ecc). Nient’altro che questo.
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