di Roberto Prinzi
Il parlamento iracheno ha votato come nuovo presidente del Paese il curdo Barham Salih del partito dell’Unione patriottica del Kurdistan (Puk). Salih ha sconfitto nettamente al secondo turno (219 voti a favore contro 22) il rivale 72enne Fouad Hussein sostenuto dall’ex presidente del Kurdistan iracheno Massoud Barzani,
architetto del fallito referendum sull’indipendenza della regione
autonoma curda nel 2017. Proprio il partito di Barzani aveva ritirato il
suo candidato Hussein dopo che alla prima votazione Salih aveva
ottenuto una netta maggioranza (ma non i due terzi come richiesti per
essere eletto direttamente). Salih succede a Fuad Masum, anche quest’ultimo del Puk.
Salih viene descritto dalla stampa internazionale come un “moderato”,
un aggettivo spesso abusato dai media e politici in Occidente per
definire partner mediorientali (capi o combattenti che siano) che
possono soddisfare al meglio i loro interessi piuttosto che per
descrivere pratiche e politiche effettivamente equilibrate. Tuttavia, la
prima mossa politica di Saleh sembra dare loro ragione: il neo
capo dello stato, il cui ruolo per costituzione è per lo più
cerimoniale, ha infatti immediatamente dato l’incarico allo sciita Adel
Abdul Mahdi (76 anni) di formare un governo sbloccando così forse
l’impasse politico che durava dalle elezioni di maggio.
Eppure Salih, un ingegnere 58enne che ha studiato in Inghilterra e
che ha ricoperto ruoli istituzionali sia nei governi iracheni che in
quelli del Kurdistan iracheno, aveva per legge 15 giorni di tempo per
nominare il primo ministro. Lui l’ha fatto dopo soltanto due ore
e la sua scelta è andata verso un candidato sostenuto dalle principali
forze politiche del Paese. In Iraq, un po’ come sul modello libanese, da quando è stato deposto nel 2003 Saddam Hussein con l’invasione americana, le
principali cariche politiche nazionali vengono suddivise in base alle 3
principali confessioni religiose: l’incarico più importante, quella del
primo ministro, è normalmente affidato ad uno sciita; il presidente del
parlamento è un sunnita arabo e la presidenza è affidata ad un curdo.
Scelto il capo dello stato, spetta ora al neo premier Abdul
Mahdi il compito più difficile: in 30 giorni deve mettere su una squadra
di governo e presentarla in parlamento per ottenere la sua approvazione.
Facile a dirsi, molto più difficile a fare visto la divisione politica
interna e soprattutto le sfide complesse che deve affrontare l’Iraq: la
ricostruzione di gran parte del Paese devastato dai 4 anni di guerra
contro l’autoproclamato Stato Islamico; le tensioni etniche e settarie
mai sopite; la difficile questione meridionale con la situazione
incandescente di Bassora; bilanciare le relazioni diplomatiche nazionali
tra l’Iran e gli Usa.
Qualificato economista che ha a lungo studiato in esilio in
Francia, Abdul Mahdi rappresenta, almeno sulla carta, un punto di
rottura con il passato: è infatti il primo premier iracheno post-Saddam a
non provenire dalle file del partito islamico Da’wa. Una novità che, tuttavia, non dovrebbe rappresentare un ostacolo per la formazione di un esecutivo. A
nominarlo sono stati infatti i due blocchi rivali, quello rappresentato
dal religioso sciita Moqtada al-Sadr e l’uscente primo ministro Haider
al-Abadi, e l’altro sostenuto dalle milizie del leader Hadi al-Amiri e
l’ex premier Nuri al-Maliki.
Questi due schieramenti, che da mesi litigano su chi ha la
maggioranza governativa, hanno messo da parte questa volta le ostilità
nello scegliere Abdul Mahdi. Una “tregua” che è evidente anche nelle
loro dichiarazioni. Ahmed al-Asadi, portavoce del blocco Binaa guidato
da Amiri e Maliki, lo spiega chiaramente: “La nomina di Abdul Mahdi
nasce per consenso da un accordo tra il blocco Binaa e quello Islah nel
tentativo di superare la questione relativa a chi rappresenta il blocco
di maggioranza”. Distensivo è stato anche il commento del blocco opposto guidato da Sadr.
Proprio il religioso ha twittato che “l’Iraq è più grande del maggior
blocco”, sottolineando poi il compromesso raggiunto tra gli opposti
schieramenti. “La nomina di Abdul Mahdi – sottolinea l’analista Ahmed
Yunis – è la migliore scelta e accontenta tutte le componenti sciite che
stavano arrivando ad un punto di scontro senza ritorno”. “Tutti
i blocchi sciiti hanno compreso che le loro divisioni avrebbero potuto
generare un conflitto interno sciita che avrebbe indebolito la loro
posizione in Iraq – aggiunge Yunis – ma ora con Abdul Mahdi non ci sono
né vincitori, né perdenti. Tutti sono felici”.
Se la scelta del premier calma gli animi, a creare tensioni nel mondo
curdo è però l’elezione di Salih alla presidenza, frutto di un pugno di
ferro tra i due principali partiti del Kurdistan iracheno: il Puk (che
ha nominato Salih) e il suo rivale tradizione, il Kdp di Barzani. A differenza di quanto accaduto in passato, infatti, i due partiti curdi non sono riusciti a concordare su un candidato comune.
Non solo: a peggiorare il quadro c’è anche il fatto che due giorni fa
nella regione autonoma curda ci sono state le elezioni (vinte dal Kdp e
dall’astensionismo) in cui sono stati denunciati numerosi casi di
brogli.
Nel suo giuramento Salih ha provato a unire l’Iraq:
“Prometto di rispettare l’unità e la sicurezza del Paese”. Una
dichiarazione che spiega da sola il perché il suo nome poteva essere di
maggior gradimento al mondo politico iracheno: a distanza di un anno dal
fallito referendum sull’indipendenza del Kurdistan iracheno fortemente
voluto dall’allora presidente curdo Barzani, il neo capo di
stato ha voluto allontanare qualunque spettro di divisione del Paese,
strizzando così l’occhio a Baghdad piuttosto che a Irbil.
L’elezione di Saleh porta con sé sicuramente una novità: per la prima
volta nella storia moderna irachena i blocchi parlamentari hanno
raggiunto un’intesa su uno dei tre posti chiave del mondo politico
locale attraverso il voto, senza accordi dietro le quinte. Renad
Mansour, membro del think tank britannico Chatham House, riassume così
la questione: “I parlamentari hanno votato per il candidato che hanno
ritenuto più qualificato e più adatto a mantenere unito l’Iraq”. Una
ovvietà, si potrebbe commentare. Ma non nell’Iraq devastato da 15 anni
di guerra e violenze, dilaniato da attentati terroristici e su cui
agiscono con forza le pressioni delle influenze straniere.
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