La vicenda della nota di aggiornamento del Def, che sfocerà nella legge di stabilità vera e propria, ha rivelato diverse difficoltà della politica istituzionale. Sia quella al governo che quella all’opposizione.
Cominciamo da quest’ultima che si rivela, nei suoi differenti volti,
sia folcloristica che ostaggio dei poteri finanziari. Certo, quando si
parla di folkore impossibile non menzionare Michele Emiliano presidente
della regione Puglia, vero Zelig della politica nazionale, che loda, da
esponente PD, i lineamenti della finanziaria gialloverde. O Stefano
Fassina, passato dal sottosegretariato alle finanze nel governo Letta a
posizioni “sovraniste di sinistra” se non di appoggio, perlomeno, di
simpatia verso il governo gialloverde. Il vero folklore sta, comunque,
in chi, rispetto alle previsioni di deficit del governo gialloverde,
spara al rialzo. Da Palazzo Chigi esce una previsione di deficit di
2,4%? Che male c’è, allora, a sparare 3%, o oltre, accusando di
timidezza nel deficit spending gli attuali occupanti degli scranni del
governo? Oppure a immaginare finanziarie come si trattasse di Disneyland
dove, nella strada principale con le luci e i festoni, c’è tutto dal
sociale, al Welfare e magari anche la lotta alla tristezza?
Qui forse non sono chiare due
cose. La prima è che, con le previsioni economiche al ribasso e le
clausole di salvaguardia dell’Iva da saldare, non è che questo governo,
con una previsione di deficit al 2,4% abbia davvero grandi margini di
spesa e di investimento. Su questo, probabilmente, certe lodi
sul “coraggio” mostrato dai gialloverdi andranno riviste. Per
focalizzarsi sull’entità e sul rilievo, difficilmente risolvibili dai
gialloverdi, della crisi fiscale dello stato (che tassa sia troppo,
ovviamente le cassi subalterne, e troppo poco, i ricchi, ma non trova
mai equilibrio sociale e di bilancio). La seconda è che se, per
assurdo, domattina il governo accettasse le proposte Disneyland, di chi
esterna finanziarie immaginarie, lo spread salirebbe a 800 in pochi
giorni e il paese sarebbe distrutto dalla guerra finanziaria a sciame.
Quella che porta soggetti che non si conoscono, e non si coordinano tra
loro, a convergere per il ribasso dei titoli di stato pubblici,
spolpando le risorse del paese che, finanziariamente, ha fatto la mossa
sbagliata. Già perchè, piaccia o non piaccia, la globalizzazione
finanziaria esiste, è a caccia di rendimenti ed è in cerca di paesi da
saccheggiare secondo la logica dell’economia della predazione. E si
tratta di un nemico di classe i cui contorni, viste le abbondanti
vacanze della mente che si prendono le sinistre, purtroppo non sono
collettivamente chiari.
Perché, e qui bisogna essere
chiari, invece di immaginare finanziarie Disney, chi fa proposte di
rialzo, anche repentino del deficit, del tutto condivisibili nella
forma, deve preparare sé stesso, ed il paese, a una vera e propria
guerra. Quella che si combatte senza proiettili ma che può
essere, i greci ne sanno qualcosa, non meno distruttiva: stiamo parlando
del conflitto finanziario con i mercati globali e le istituzioni della
governance europea. In questo senso la quasi totale assenza di qualità e
di visione, di molti critici di sinistra rispetto agli investimenti
previsti dal governo, parlano da sole. Non c’è ancora, a
sinistra, una chiara idea di come affrancarsi dall’egemonia dei mercati
finanziari. Fare solo deficit non basta. E tantomeno evocarlo.
Per astratto, politicamente, si può anche chiedere il 5% di deficit
annuo, all’inizio degli anni ’90 l’Italia era comunque nel gruppo delle
migliori economie del mondo con il 10%, ma devono essere chiare la
visione economica, la politica tecnologica, la visione di società e
modalità di emancipazione dalla finanza globale. Le sinistre sono, oggi,
lontane da tutto questo. La loro minorità politica le fa parlare un
linguaggio della politica di trenta anni fa. Ed è qualcosa che non si
colma con i post su Facebook. Altro discorso, invece, per il
centrosinistra (o ciò che ne rimane). Ostaggio sostanzialmente della
visione di società (e del potere) di Bankitalia, e della governance
europea, rischia, nonostante lo si neghi ogni momento, di
essere solo un fattore di tifo dello “spread che fa saltare il governo”.
Di comune, centrosinistra e sinistre di ogni genere, oggi però una cosa la hanno: l’assenza di una lettura incisiva del quadro continentale
che faccia scattare quell’innovazione politica in grado di far uscire il
paese da questa situazione.
La legge di bilancio, leggendo
la nota di aggiornamento del Def, si sta componendo sia come una
faticosa mediazione che come una grande scommessa. La
faticosa mediazione, comprensiva di visibili scontri all’interno del
governo, è tra la componente istituzionale (con economia e tesoro
nominati da Mattarella, supportati da Bankitalia e dalla governance
europea), quella populista del nord, la Lega, e quella populista del sud
(il Movimento 5 stelle). La connotazione geografica, nord e
sud, non è qui a caso. La Lega, che si estende comunque in ogni regione,
porta un programma politico elaborato, nel tempo, al Nord (con le
esigenze contrastanti di una composizione demografica che vuole solo
andare in pensione e di un tessuto economico che non vuol pagare tasse),
il Movimento 5 stelle quelle di un modello di welfare, il reddito di
cittadinanza, che si adatta meglio al sud (e a tutti i sud di questo
paese).
La composizione di un difficile,
faticoso, conflittuale equilibrio tra queste componenti ha portato
all’elaborazione di una previsione di deficit al 2,4% (che, alla fine,
non pare questa abbuffata). Questa previsione è una grande scommessa.
Sia finanziaria che politica. Qualcosa di molto diverso dal film Big Short,
che porta come titolo la grande scommessa, perchè nel film si giocava
in borsa scommettendo sul fallimento del settore immobiliare, che poi
fece sinistrare il mondo. Oggi, invece, si scommette su un equilibrio
finanziario che duri almeno qualche mese per poi incassare il dividendo
politico alle europee di primavera. Auguri, separati o uniti i
gialloverdi ne avrebbero bisogno se andasse loro tutto bene, ma questa è
un’altra storia.
Diversi analisti di mercato
sostengono infatti che l’Italia è ora in aperta sfida verso le regole
del bilancio dell’UE. Ma, allo stesso tempo dubitano che con la
Commissione europea queste criticità si trasformino in uno scontro di
vita o di morte. Questo scenario sembra essere condiviso dai
mercati finanziari – che a un certo punto hanno comunque spinto lo
spread italiano a 10 anni a 250 fino a toccare anche 300. Sempre quindi
una dimensione critica, dal punto di vista del rifinanziamento del
debito pubblico, ma non da fine del mondo. Insomma la scommessa, i
prossimi mesi diranno quanto azzeccata, da parte del governo è, oltre a indirizzare la spesa su reddito di cittadinanza e
investimenti come strumento di robusta crescita, quella di pagare,
fino ad un certo, punto, pegno sui mercati. Ma non fino al punto di
crollare finanziariamente ed essere costretti a pagare il conto, salato,
di una scommessa perduta. La prima puntata della grande
scommessa è questa, non a caso, a New York, Conte ha incontrato i vertici
di BlackRock (uno dei più importanti fondi del mondo con esposizioni in
Italia): per sondare le reazioni dei mercati che contano
all’allargamento italiano del deficit. La seconda puntata, che completa
questa scommessa, è quella di arrivare alle elezioni europee.
Con il dividendo, in termini di consensi, delle politiche presenti nella
legge di stabilità e con una vittoria, a questo punto non solo
italiana, del fronte populista. In questo senso l’impegno di Salvini per
una maggioranza sovranista al parlamento europeo è esplicito. E questa
seconda puntata della scommessa contiene, se possibile, più salti
mortali della prima. Per ora, abbracciando Orban, è riuscito a far
attaccare l’Italia dall’Austria sulla questione del deficit. Domani si
vedrà. Anche se non sarà un domani qualunque. Certo, tra giudizio delle
agenzie di rating che incombe, debolezza dell’euro (che favorisce si le
esportazioni ma anche l’investimento nel dollaro) e aumento dei tassi Usa il
complesso della scommessa è davvero grosso. Sempre che la Brexit sia
ordinata.
Questo lo scenario, entro il
quale si giocheranno questioni importanti per il nostro paese, per il
quale l’espressione “reddito di cittadinanza” è stata spesso evocata.
Sia per drenare risorse che per vincere la partita del consenso politico
della forza populista del sud (e dei tanti sud di questo paese). Un punto importante, che dovrà essere ben
memorizzato da chi ha idee serie di opposizione è che il reddito di
cittadinanza, così come viene configurato dalle anticipazioni dei media,
si presenta come una vera e propria prigione tecnologica. Di un tipo
tale da mettere in discussione, per non dire in ridicolo, l’espressione
“cittadinanza” per questo genere di reddito. Ora qui vale la pena non
toccare l’ordine di grandezza del reddito di cittadinanza, la platea
degli aventi diritto o la questione del finanziamento e della
ristrutturazione dei centri per l’impiego (che non è da poco) ma la
modalità, eventuale, di erogazione del reddito di cittadinanza.
Da quello che emerge il reddito
di cittadinanza sarebbe erogabile solo con un bancomat nel quale sono
permesse alcune voci di spesa ed altre no. Senza entrare troppo in
argomenti per palati fini, in un’epoca in cui l’antintellettualismo è
premessa necessaria per parlare, siamo alla rottura del valore
universale della moneta. Per cui la moneta non è più un valore
universale, spendibile come si vuole, ma torna ad essere, come nelle
società tribali, una special purpose money con scopi definiti
che inchiodano la persona ai vincoli, e agli scopi, definiti dal
gruppo. In questo caso le possibilità di spesa della persona, e forse
anche del suo nucleo familiare, sono predeterminate dalle necessità di
disciplinamento del programma di finanziamento. Tutto secondo
una card elettronica i cui dati, tanto per capirsi, se non blindati si
candidano ad essere una cuccagna economica per chi li gestirà (arrivando
a guadagnare sui dati dei poveri).
Il marketing a 5 stelle ha anche fatto
filtrare la notizia che a gestire l’operazione card sarà un “cervello in
fuga” altrimenti destinato agli Usa. E’ proprio il paese nel quale
questo genere di operazioni hanno un nome, un volto ed una logica.
Quello, come si trova in alcuni testi, delle workhouse digitali.
Tradotto in italiano significa: tramite piattaforme tecnologiche
disciplinare e indirizzare duramente il comportamento della persona
avente diritto alle prestazioni sociali. Allo stesso modo con
il quale, nelle Workhouse dell’800, si disciplinava pesantemente il
comportamento, ora per ora, dell’avente diritto aiuto dallo stato. E, si
badi bene, una volta perfezionato il modello tecnologico della card è
possibile davvero negare elementari diritti a una persona, oltre che
tracciarla all’inverosimile, semplicemente modulando il tipo di accesso
alla spesa. Chi si candida ad essere di sinistra deve starci in questi
temi, invece di invocare numeri improbabili di deficit, entrando in una
dimensione tecnologica che, si sa, è ancora aliena alla politica di
sinistra (la stessa che fa politica con i messaggini dallo smartphone,
ci mancherebbe. Ma una cosa è consumare, l’altra produrre).
Sono scene già viste, per chi ha
voglia di capire come funziona il mondo, nell’Inghilterra della prima
globalizzazione durante i primi decenni dell’800. Sia sul piano
della compravendita del debito pubblico che su quello del
disciplinamento feroce dei poveri. Per ora cogliamo questi due
lineamenti e vedremo quanto si svilupperanno: un Def che è una grande
scommessa e una politica sociale che si rivela una prigione tecnologica
proprio sulla questione del reddito. Vedremo poi i successivi sviluppi.
Comunque andrà, e come accade alla
vigilia di importanti mutazioni tecnologiche e sociali pronte a
sconvolgere le mutazioni precedenti, qualcosa di serio sta cambiando.
Saper cogliere questo qualcosa è far politica. Il resto è commedia
umana. Una commedia che, da quanto si vede, è destinata a durare.
Redazione, 4 ottobre 2018
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