di Francesca La Bella
A più di un anno dall’inizio della crisi, i Ministri degli esteri dei
Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) si sono ritrovati
allo stesso tavolo per discutere del futuro della loro alleanza.
L’incontro di New York, svoltosi a margine dell’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite e guidato dalla mediazione del Segretario di Stato USA
Mike Pompeo, ha visto la partecipazione, al fianco dei sei Paesi CCG,
dei rappresentanti di Egitto e Giordania. Un tentativo di dare
nuova linfa ad una organizzazione che sembrava aver segnato la propria
fine con il rifiuto del Qatar di sottostare alle richieste di Arabia
Saudita ed alleati, grazie alla guida di alcuni Paesi forti dell’area ed alla supervisione statunitense.
Viene, però, da chiedersi “perché ora?”. Le relazioni tra i Paesi della penisola arabica non
sembrano essere radicalmente mutate, né il ribelle Qatar sembra pronto a
fare un passo indietro adeguandosi alla linea dettata da Riyadh.
Le dichiarazioni dei due principali contendenti sembrano, infatti,
andare in direzione contraria ad un tentativo di riconciliazione. Poche
ore dopo il meeting, il Ministro degli Esteri del Qatar, Sheikh Mohammed
bin Abdulrahman Al Thani, ha sottolineato come permanga una situazione
di stallo e come il perdurare del blocco nei confronti di Doha da parte
dell’Arabia Saudita mini ogni possibilità di ripresa dell’alleanza
regionale. Al Thani ha, inoltre, dichiarato che, attualmente, il
Consiglio di Cooperazione del Golfo è paralizzato ed incapace di
riprendere il proprio lavoro. Pochi giorni prima il Ministro degli
Esteri dell’Arabia Saudita, Adel al-Jubeir, aveva, invece, sottolineato
come Riyad e le altre nazioni promotrici del blocco fossero disposte a
mantenersi intransigenti anche per decenni fino alla definitiva
soddisfazione delle richieste da parte di Doha. All’orizzonte
non sembra, dunque, prefigurarsi una pacifica soluzione della questione
che lasci entrambe le parti soddisfatte dalla mediazione ed, allo stesso
modo, gli altri Paesi CCG non sembrano pronti a caricarsi sulle spalle
l’onere di una difficile riconciliazione.
La diversità di fase potrebbe, dunque, essere determinata più dall’esterno che dall’interno. Gli
Stati Uniti potrebbero, infatti, essere particolarmente interessati ad
un congelamento della crisi in vista della creazione della Middle East
Strategic Alliance (MESA). Una sorta di “NATO araba” in funzione di
contenimento dell’influenza iraniana che comprenderebbe Arabia
Saudita, Bahrain, Qatar, Oman, Emirati Arabi Uniti e Kuwait oltre a
Egitto, Giordania e Marocco. Un progetto di ampio respiro che ambisce a
contrastare l’iniziativa politica di Teheran nel Golfo Persico e
nell’intero Medioriente, rafforzando l’effetto destabilizzante delle
sanzioni economiche. Dal punto di vista statunitense, il blocco nei
confronti del Qatar, per quanto probabilmente considerato più che
legittimo, rischia di favorire l’Iran ed indebolisce la capacità di
Washington di definire la propria politica nell’area. Una creazione come
la MESA potrebbe, inoltre, permettere all’amministrazione Trump di
ridefinire le proprie relazioni con alcuni Paesi mediorientali. Imponendo
la propria mediazione, gli USA sperano, infatti, di riprendere le
redini di un rapporto che negli anni è mutato portando alcune potenze
d’area a cercare di, e in alcuni casi a riuscire a, emanciparsi dalla
guida statunitense. E’ questo sicuramente il caso dell’Egitto, ma anche
l’Arabia Saudita sembra aver intrapreso un percorso per provare a
seguire una propria politica d’area totalmente indipendente e tesa
all’esclusiva difesa degli interessi nazionali.
Indice di questo contrasto è, ad
esempio, l’acceso dibattito in merito al prezzo del petrolio. A fronte
del rifiuto saudita e degli altri membri OPEC di aumentare la produzione
di petrolio per indurre un abbassamento del prezzo di mercato che ha
ormai superato gli 80 dollari al barile, Trump ha preso parola
all’Assemblea Generale tuonando contro l’irresponsabile rifiuto e ha
tenuto a sottolineare che gli Stati Uniti “difendono molti dei
Paesi OPEC senza chiedere nulla in cambio, ma che questi ricambiano
prendendosi i vantaggi di un alto prezzo del petrolio”. Un atto
di accusa chiaramente diretto a colpire il tradizione alleato saudita
che acquista ancor maggiore significato alla luce dell’incontro CCG di
poco successivo. Un do ut des a cui Riyad non è detto che voglia
aderire.
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