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01/10/2018

Medio Oriente - Torna il Consiglio di Cooperazione del Golfo?

di Francesca La Bella

A più di un anno dall’inizio della crisi, i Ministri degli esteri dei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) si sono ritrovati allo stesso tavolo per discutere del futuro della loro alleanza. L’incontro di New York, svoltosi a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e guidato dalla mediazione del Segretario di Stato USA Mike Pompeo, ha visto la partecipazione, al fianco dei sei Paesi CCG, dei rappresentanti di Egitto e Giordania. Un tentativo di dare nuova linfa ad una organizzazione che sembrava aver segnato la propria fine con il rifiuto del Qatar di sottostare alle richieste di Arabia Saudita ed alleati, grazie alla guida di alcuni Paesi forti dell’area ed alla supervisione statunitense.

Viene, però, da chiedersi “perché ora?”. Le relazioni tra i Paesi della penisola arabica non sembrano essere radicalmente mutate, né il ribelle Qatar sembra pronto a fare un passo indietro adeguandosi alla linea dettata da Riyadh. Le dichiarazioni dei due principali contendenti sembrano, infatti, andare in direzione contraria ad un tentativo di riconciliazione. Poche ore dopo il meeting, il Ministro degli Esteri del Qatar, Sheikh Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, ha sottolineato come permanga una situazione di stallo e come il perdurare del blocco nei confronti di Doha da parte dell’Arabia Saudita mini ogni possibilità di ripresa dell’alleanza regionale. Al Thani ha, inoltre, dichiarato che, attualmente, il Consiglio di Cooperazione del Golfo è paralizzato ed incapace di riprendere il proprio lavoro. Pochi giorni prima il Ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita, Adel al-Jubeir, aveva, invece, sottolineato come Riyad e le altre nazioni promotrici del blocco fossero disposte a mantenersi intransigenti anche per decenni fino alla definitiva soddisfazione delle richieste da parte di Doha. All’orizzonte non sembra, dunque, prefigurarsi una pacifica soluzione della questione che lasci entrambe le parti soddisfatte dalla mediazione ed, allo stesso modo, gli altri Paesi CCG non sembrano pronti a caricarsi sulle spalle l’onere di una difficile riconciliazione.

La diversità di fase potrebbe, dunque, essere determinata più dall’esterno che dall’interno. Gli Stati Uniti potrebbero, infatti, essere particolarmente interessati ad un congelamento della crisi in vista della creazione della Middle East Strategic Alliance (MESA). Una sorta di “NATO araba” in funzione di contenimento dell’influenza iraniana che comprenderebbe Arabia Saudita, Bahrain, Qatar, Oman, Emirati Arabi Uniti e Kuwait oltre a Egitto, Giordania e Marocco. Un progetto di ampio respiro che ambisce a contrastare l’iniziativa politica di Teheran nel Golfo Persico e nell’intero Medioriente, rafforzando l’effetto destabilizzante delle sanzioni economiche. Dal punto di vista statunitense, il blocco nei confronti del Qatar, per quanto probabilmente considerato più che legittimo, rischia di favorire l’Iran ed indebolisce la capacità di Washington di definire la propria politica nell’area. Una creazione come la MESA potrebbe, inoltre, permettere all’amministrazione Trump di ridefinire le proprie relazioni con alcuni Paesi mediorientali. Imponendo la propria mediazione, gli USA sperano, infatti, di riprendere le redini di un rapporto che negli anni è mutato portando alcune potenze d’area a cercare di, e in alcuni casi a riuscire a, emanciparsi dalla guida statunitense. E’ questo sicuramente il caso dell’Egitto, ma anche l’Arabia Saudita sembra aver intrapreso un percorso per provare a seguire una propria politica d’area totalmente indipendente e tesa all’esclusiva difesa degli interessi nazionali.

Indice di questo contrasto è, ad esempio, l’acceso dibattito in merito al prezzo del petrolio. A fronte del rifiuto saudita e degli altri membri OPEC di aumentare la produzione di petrolio per indurre un abbassamento del prezzo di mercato che ha ormai superato gli 80 dollari al barile, Trump ha preso parola all’Assemblea Generale tuonando contro l’irresponsabile rifiuto e ha tenuto a sottolineare che gli Stati Uniti “difendono molti dei Paesi OPEC senza chiedere nulla in cambio, ma che questi ricambiano prendendosi i vantaggi di un alto prezzo del petrolio”. Un atto di accusa chiaramente diretto a colpire il tradizione alleato saudita che acquista ancor maggiore significato alla luce dell’incontro CCG di poco successivo. Un do ut des a cui Riyad non è detto che voglia aderire.

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