L’approccio ordoliberista europeo sta tirando le cuoia e proprio i suoi principali teorici e beneficiari (la Germania di Merkel, Schaeuble e Altmaier) stanno tracciando il percorso di “riforma” dell’assetto della Ue, mettendo mano inevitabilmente a “trattati” fin qui indicati come regole intangibili, da rispettare anche a costo della morte (la Grecia ne sa molto, ormai).
C’è della disperazione palese in alcune delle analisi più attente, come quella che qui vi proponiamo, redatta dalla direttrice generale di Confindustria, Marcella Panucci, insieme ad Antonio Matonti, e pubblicata ieri su IlSole24Ore.
Un profano si chiederebbe “ma di cosa si disperano? Fanno quello che vogliono da quasi 40 anni, i lavoratori sono diventati plastilina muta a loro disposizione, i salari dei giovani non consentono neppure la sopravvivenza (lo si capirà quando moriranno padri e nonni, che li supportano con le pensioni)...”.
Il successo della “lotta di classe dall’alto” è stato clamoroso, in effetti, ed è avanzato a passo di carica dall’abbattimento del Muro in poi. I “trattati europei” hanno regolamentato soprattutto la cornice e i termini di questa vittoria, imponendo lo smantellamento del “modello europeo” del dopoguerra, fatto di salari decenti, diritti del lavoro, conflittualità sociale moderatamente ammessa, welfare, servizi pubblici, economia mista (con una quota rilevante e strategica del “pubblico”).
Troppo successo fa male. Abbassa la soglia dell’attenzione, addormenta la voglia di innovazione, convince della possibilità di conservare per sempre quello strapotere senza doversi dannare troppo l’anima. Ha contribuito pure la breve era della (seconda) “globalizzazione”, con l’allegra delocalizzazione di buona parte della produzione industriale più matura, ma anche di pezzi importanti di quella avanzata e hi-tech. Per quanto venissero compressi qui i salari, infatti, nel mondo c’era sempre qualcuno che costava meno di un lavoratore europeo...
Questo modo di fare i soldi – presto affiancato e scavalcato dalla finanza speculativa, dallo shadow banking e mille altre diavolerie più matematiche che economiche – è ora arrivato al capolinea.
Quello che era il “terzo mondo” di 30 o 40 anni fa, o almeno grandi parti di esso, è ora fatto di giganti industriali che crescono a ritmi impensabili per la vecchia Europa imbolsita da una “rendita di posizione” che poteva essere solo temporanea. E le proiezioni da qui a qualche anno – restando così le cose – descrivono un destino impietoso: “nel 2050 la quota di Pil mondiale riconducibile ai 27 Paesi dell’Unione europea sarà inferiore al 10%: più bassa di quella della sola India. In questo quadro le economie di sette Paesi emergenti (Cina, India, Indonesia, Brasile, Russia, Messico, Nigeria) avranno superato quelle dei Paesi del G7”.
Chi ha pensato di poter competere sul prezzo della forza-lavoro, per aumentare le esportazioni di beni a tecnologia “matura” (godendo di un vantaggio tecnologico iniziale molto ampio), sta insomma per essere spazzato via da concorrenti che hanno imparato a fare le stesse cose a prezzo più basso – o addirittura merci tecnologicamente più avanzate – nel mentre lasciano aumentare i salari, costruendo anche quel “mercato interno” che l’Unione Europea ha invece progettualmente depresso.
La reazione – tardiva, lenta, impacciata dalla distruzione (anch’essa voluta e cercata) di ogni capacità intellettuale critica, o almeno capace di anticipare di qualche anno i tempi – sta muovendo i primi passi solo ora. Ed ha il problema di “cambiare tutto perché tutto rimanga uguale”; ovvero in mano alle grandi imprese multinazionali e ai paesi più forti dell’area (di qui il “trattato di Aquisgrana”, tra Francia e Germania, che ripropone l’Impero Carolingio ai tempi nostri, come motore della “nuova Unione Europea”).
Chi sta messa peggio è naturalmente la “classe imprenditoriale” italica, quella che più ha creduto di potersi avvantaggiare della riduzione costante del costo del lavoro, senza investire quasi nulla in innovazione (l’aumento della “produttività”, bisogna sempre ricordare, risulta da interventi sul processo produttivo – macchinari, ecc. – non dall’aumento forsennato dell’orario, dei ritmi, dei turni di lavoro). O utilizzando le commesse pubbliche, gli appalti pilotati, le concessioni sulle reti infrastrutturali, l’evasione fiscale, lo spezzatino delle imprese pubbliche privatizzate...
Fanno quasi tenerezza – è retorica, sia chiaro... – mentre chiedono di rinnovare completamente il quadro normativo esistente a partire da due nuovi pilastri: a) lo smantellamento della normativa antitrust europea, per consentire la formazione di “giganti continentali” in grado, va da sé, di “competere” con quelli statunitensi, cinesi, ecc; b) gli aiuti di Stato, fin qui teoricamente vietati (ma non a banche o imprese tedesche), per evitare le scalate da parte di imprese extra-europee.
Il quadro è quello classico di una “economia mista per la competizione globale”, con il ruolo che un tempo era dello Stato nazionale affidato ad una Unione Europea che deve diventare “un attore geopolitico nello scacchiere globale”. Un polo imperialista attivo, si dice nel nostro linguaggio.
Un polo entro cui la logica del “mercato”, o la prevalenza del privato socialmente irresponsabile e unicamente orientato all’arricchimento illimitato, deve in qualche modo fare un passo indietro, perché bisogna “creare le condizioni affinché le imprese europee possano, anche attraverso processi di consolidamento, competere con le realtà industriali dei Paesi terzi, assicurando al contempo la difesa degli interessi strategici, europei e nazionali, di matrice economica e non solo”.
Tre decenni di retorica e di pratiche societarie vengono archiviati in poche battute. Lo Stato deve aiutare le imprese a competere nel mondo, e le imprese – naturalmente – si debbono impegnare nella difesa degli interessi “nazionali”. Ossia continentali. Si passa dal nazionalismo “identitario” (etno-linguistico, stile “prima gli italiani”) al “nazionalismo comunitario”, ma le strutture logiche ed ideologiche restano immutate. “Prima gli europei”, voilà...
A questo scopo l’attuale Commissione, e tutta la struttura dei trattati, appare chiaramente inadeguata. La Nuova Europa sognata da Confindustria è decisamente “leghista” o “macroniana”, ovvero di estrema destra nella gestione politico-sociale, ma capace di distinguere tra “imprese strategiche” e quelle che non lo sono.
“L’auspicato ripensamento dei princìpi e delle regole antitrust rientra dunque a pieno titolo tra le leve che il decisore pubblico dovrà attivare per far sì che l’industria europea continui a essere competitiva sullo scacchiere internazionale”.
Fa un po’ impressione, diciamolo, vedere la retorica antitrust finire nel bidone della spazzatura in un colpo solo. E capiamo perché Cantone, per esempio, abbia deciso di mollare quell’authority che lo aveva fatto diventare, ad un certo punto, una sorta di papa laico...
Bene. Cambia anche il quadro teorico e concettuale, il linguaggio e le figure teoriche con cui la soggettività anticapitalista si troverà ben presto a doversi misurare. Non abbiamo dubbi sul fatto che gli opinion maker ci metteranno un attimo a passare al nuovo copione.
Basta con le contrapposizioni stereotipate tra privato e pubblico, basta con la retorica dei “mercati aperti” e della “libera concorrenza”. Avanti con la narrazione dei “manifesti destini dell’Europa” che ci chiedono si allinearci senza fiatare sul fronte della competizione globale, difendendo a spada tratta il patrio suolo continentale dalle orde slave (questa è vecchia, ma sempre buona...) o asiatiche che ci vogliono strappare le “imprese strategiche” a suon di dollari, yuan o rubli.
Sembra uno scenario e un linguaggio prebellico? Lo è. Il passaggio dalla competizione mondiale alla guerra tra “attori geopolitici globali” è giusto un attimo. Imprevedibile, ma un attimo...
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Concorrenza, nuove regole per una UE più competitiva
Marcella Panucci e Antonio Matonti
Un paio di anni fa PricewaterhouseCoopers pubblicò uno studio secondo il quale nel 2050 la quota di Pil mondiale riconducibile ai 27 Paesi dell’Unione europea sarebbe stata inferiore al 10%: più bassa di quella della sola India. In questo quadro le economie di sette Paesi emergenti (Cina, India, Indonesia, Brasile, Russia, Messico, Nigeria) avrebbero superato quelle dei Paesi del G7.
Questo scenario, le cui conclusioni ci sembrano tuttora valide, deve far riflettere sul posizionamento nel lungo termine delle economie europee, sui loro modelli di sviluppo e sulla possibilità di assicurare ai cittadini lo stesso livello di benessere e di welfare di cui hanno beneficiato negli ultimi decenni. E chiama in causa il ruolo che l’Unione europea deve giocare sullo scacchiere globale e le iniziative di politica economica da mettere in campo, temi su cui la scorsa settimana hanno preso posizione sulle pagine di questo giornale il presidente di BusinessEurope (la Federazione delle Confindustrie europee), Pierre Gattaz, e di Confindustria, Vincenzo Boccia.
Il cambio di prospettiva
Uno degli effetti della globalizzazione è che la competizione economica si gioca ormai su scala mondiale. Dal punto di vista delle imprese, questa “condizione” ne porta con sé altre due: 1) l’Europa è una prospettiva ineludibile per gli Stati membri, perché soltanto un’Europa unita potrà competere con i grandi player del futuro; 2) al contempo, occorre ripensare alcuni dei paradigmi su cui si è basato fino a oggi l’edificio comunitario.
Questo per l’Europa significa, sul piano politico, diventare ciò che oggi non è: un attore geopolitico nello scacchiere globale. Sul piano economico, invece, fare propria la consapevolezza che la partita della competizione su scala mondiale non può essere giocata senza disporre di veri e propri “giganti” industriali europei, non solo sul piano dimensionale.
Il nodo delle regole
I due temi sono collegati, ma in questo articolo intendiamo concentrarci sul secondo. Le politiche pubbliche possono promuovere determinati processi o, al contrario, disincentivarli; la domanda da porsi allora è: le attuali regole e prassi delle Autorità europee sono in grado di favorire la nascita o lo sviluppo di imprese in grado di competere con le concorrenti americane, cinesi o indiane?
La risposta al momento è «no» e tra le cause da approfondire vi è uno dei cardini della costruzione comunitaria, vale a dire il principio di concorrenza, architrave del Trattato di Roma del 1957. All’epoca, occorreva assicurare le condizioni per un mercato comune, evitando, tra le altre cose, che la concorrenza fosse ostacolata da rendite monopolistiche. I princìpi e le regole antitrust, e la vigilanza affidata alla Commissione, erano e sono stati a lungo funzionali a questi obiettivi con risultati significativi, che non bisogna mettere in discussione. Ma se oggi lo scenario di riferimento è cambiato – e lo è – quei princìpi e quelle regole dovrebbero essere aggiornati.
Cosa significa in concreto? Anzitutto, acquisire la consapevolezza di due precondizioni e cioè che: 1) il “mercato rilevante” non è più quello europeo, ma mondiale e, quindi, che le operazioni di concentrazione tra imprese vanno valutate anche rispetto a questo nuovo contesto; 2) esiste una strutturale asimmetria su questo nuovo “campo di gioco”, poiché alcuni degli attori godono di condizioni che rendono impari la competizione, a partire dai sussidi che alcuni Paesi utilizzano in maniera massiccia, falsando la concorrenza e rendendo di conseguenza più vulnerabili le imprese europee.
Da qui, due conseguenze concrete: 1) alcune regole, prime tra tutte quelle in tema di concentrazioni e aiuti di Stato, vanno riviste in profondità e modellate sul nuovo scenario; 2) se la competizione è impari, occorre individuare degli strumenti di difesa che, però, vanno pensati e allocati su scala sovranazionale, anche per evitare di difendersi dai “nemici sbagliati” (quelli interni al perimetro europeo, in una prospettiva che non può che considerare domestico quel mercato).
Consolidarsi per competere
Questo non significa arretrare rispetto ai capisaldi del mercato unico, cosa che sarebbe esiziale per un Paese come l’Italia votato all’export e bisognoso di investimenti (anche) esteri, ma creare le condizioni affinché le imprese europee possano, anche attraverso processi di consolidamento, competere con le realtà industriali dei Paesi terzi, assicurando al contempo la difesa degli interessi strategici, europei e nazionali, di matrice economica e non solo.
Come Confindustria siamo stati tra i primi, già un anno fa nel documento presentato alle Assise di Verona, a evidenziare la necessità di un ammodernamento delle regole antitrust. Abbiamo poi lavorato in BusinessEurope per far convergere le associazioni industriali europee su questa linea di pensiero e non è un caso che, di recente, la Confindustria tedesca, Bdi, abbia espresso posizioni simili alle nostre in un interessante paper relativo ai rapporti con la Cina. Anche sul piano istituzionale sono arrivate le prime adesioni, come dimostrano le dichiarazioni del presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani sulla necessità di cambiare le regole della concorrenza per permettere ad aggregazioni europee di competere coi giganti mondiali, in primis cinesi.
Un approccio datato
La Commissione, invece, pare tuttora attestata su posizioni che negano rilevanza a questo dibattito. Il Regolamento sul controllo delle concentrazioni, adottato nel 1989 – non a caso più di trent’anni dopo il Trattato, per favorire il consolidamento dell’industria europea nei decenni successivi al secondo conflitto mondiale – e la cui ultima revisione risale al 2004, rimane ancorato al criterio delle soglie di fatturato. Le recenti ipotesi di modifica (a partire dal Libro bianco del 2014, passando per la consultazione pubblica di fine 2016) vanno sì nella direzione di ampliare i margini di discrezionalità della Commissione, ma sul presupposto di un ulteriore irrigidimento delle proprie prerogative e non certo per tener conto del mutato contesto globale.
Vicende di casa nostra, come la cessione “forzata” di Ast da parte dei finlandesi di Outokumpu (per inciso, alla stessa ThyssenKrupp da cui l’azienda era stata rilevata) o, più di recente, la querelle riapertasi sull’operazione Fincantieri-Stx France, sono la conferma di quanto sia lontano dai radar dei decisori europei il contemperamento, secondo canoni nuovi, tra tutela della concorrenza e promozione di una dimensione industriale europea competitiva nel contesto internazionale.
Il modello italiano
Quanto agli strumenti di difesa, l’ordinamento italiano è già oggi un buon riferimento. Grazie al lavoro fatto, dapprima con le regole in materia di golden power e, poi, con le modifiche più recenti che ne hanno ampliato il perimetro ai cosiddetti attivi strategici, il nostro Paese ha colto il punto di fondo e cioè che quando la competizione sullo scacchiere internazionale è impari o viziata dall’assenza di reciprocità, occorre identificare dei presidi. Serve adesso uno sforzo supplementare, a livello nazionale e, soprattutto, europeo.
Sul fronte nazionale, completando il quadro regolamentare, in primis rispetto agli attivi ad alta intensità tecnologica. Si tratta di un’operazione complessa, che presuppone la definizione di una strategia industriale e che dovrà tenere insieme la tutela dell’interesse nazionale con quella della proprietà privata e della libertà di iniziativa economica.
Proprio perché così delicata, questa operazione dovrebbe avere una cornice di riferimento comune, europea. Anche perché una disciplina solo nazionale avrebbe un’efficacia limitata, esponendoci al rischio di acquisizioni realizzate attraverso imprese appartenenti ad altri ordinamenti europei non dotati di meccanismi di screening o dotati di meccanismi meno efficaci. Peraltro, questo non esclude che i singoli Stati membri possano mantenere prerogative decisionali, seppur temperate da opportuni strumenti di raccordo.
Il punto fermo di una disciplina armonizzata sui golden power dovrebbe però rimanere l’eccezionalità degli strumenti di difesa, sul presupposto della strategicità dell’impresa. Distinguere imprese strategiche da quelle che non lo sono sarà una delle principali sfide.
Il ruolo del decisore pubblico
Per le imprese non strategiche, rimane centrale il ruolo delle politiche pubbliche, europee e nazionali, che devono favorirne la crescita dimensionale e il rafforzamento patrimoniale, anche attraverso i processi di aggregazione e consolidamento. In questo quadro, occorrerà dedicare altresì una approfondita riflessione alle regole europee in tema di aiuti di stato, tenendo insieme, sempre secondo canoni nuovi, l’esigenza di evitare distorsioni concorrenziali con quella di fronteggiare la competizione dei grandi attori globali, che investono somme imponenti (anche pubbliche) nei settori in cui si giocheranno le sfide industriali del futuro.
L’auspicato ripensamento dei princìpi e delle regole antitrust rientra dunque a pieno titolo tra le leve che il decisore pubblico dovrà attivare per far sì che l’industria europea continui a essere competitiva sullo scacchiere internazionale. E ciò nella prospettiva di lungo termine che vede, per l’Europa, il rischio di perdere terreno con la conseguente messa in discussione del modello di sviluppo democratico e aperto che ha garantito a noi cittadini europei settanta anni di pace, prosperità e protezione.
Fonte
E' inquietante ma questo inizio (ormai ci siamo dentro da quasi un quarto) di secolo assume sempre più i toni foschi del proprio precedessore.
Ci dirigiamo a passi lunghi e ben distesi verso una nuova guerra mondiale senza alcun sentore di critica pubblicamente avvertibile.
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