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03/04/2020

Una alternativa alla gabbia della Ue. Se non ora, quando?

Abbiamo scritto più volte che i fatti hanno la testa dura e che la realtà muove le cose più di mille ragionamenti.

L’impatto dell’emergenza pandemica del coronavirus sugli assetti europei (oltre che su quelli mondiali) sta riscrivendo furiosamente geografie politiche e regole economiche. Non tanto e non solo nell’affrontare adesso l’emergenza quanto nel disegnarne gli scenari futuri.

Tra questi ce n’è almeno uno sul quale le spinte oggettive e quelle soggettive devono rapidamente arrivare alla sintesi possibile, anzi, necessaria.

In questi anni abbiamo portato dentro il dibattito pubblico una tesi a nostro avviso credibile, anche se era apparsa difficilmente praticabile nell’immediato: la rottura con l’Unione Europea e la costruzione di una area alternativa euromediterranea.

Una tesi che partiva dalla più volte constata irriformabilità degli apparati istituzionali e di comando costruiti in questi ventotto anni sull’Europa e dalla necessità di un sganciamento da quella che abbiamo definito una gabbia per i popoli europei.

I fatti di queste settimane stanno dimostrando che questa tesi aveva ed ha una sua profonda ragione d’essere.

Non solo. Essa rappresenta la cornice generale per rimettere in campo una prospettiva di profondo cambiamento sul piano politico, economico, sociale, internazionale. Con una differenza rispetto anche a solo qualche mese fa: questa percezione oggi è immensamente più forte nel senso comune, sia nei settori popolari sia in alcuni ambiti di classe dirigente.

La polarizzazione di interessi tra il “core” dell’Unione Europea di oggi – la Germania e i paesi nordici – ed i paesi euromediterranei, è stata resa ancora più contundente di quanto lo fosse stata al tempo della sanguinosa austerity imposta alla Grecia, o dell’invenzione dell’acronimo “Pigs” per definire, in modo apertamente spregiativo, questi paesi (Portogallo, Italia, Grecia, Spagna, ma anche qualcun altro).

La divaricazione ormai è evidente su tutto: dai vincoli di bilancio ai coronabond, dagli strumenti di stabilità (Mes) agli aiuti di Stato alle imprese. Per alcuni paesi le deroghe a questi vincoli sono temporanee e i costi da restituire, per altri si tratta di strappi tesi a ridefinire completamente il senso della convergenza tra vari paesi, sulla base delle nuove priorità imposte dall’emergenza pandemica e dalla pesantissima recessione economica.

Il premier Conte insiste sugli eurobond, di fatto come finanziamenti a fondo perduto, e la proposta viene sostenuta anche da paesi come Francia, Spagna e Portogallo, mentre Germania e Olanda hanno posto il veto.

È una spaccatura nitida, storica, strategica. Fondata su interessi materiali, non su ideologie “comunitarie” o “sovraniste”. Per i secondi è uno scenario inimmaginabile, per i primi una necessità impellente.

Ma anche sul piano delle priorità economiche, oggi – sia in basso sia in alto – nel senso comune si va affermando un diverso approccio: sulla centralità della sanità pubblica prima privatizzata e smantellata, sul ruolo dello Stato nell’economia, sui danni della deindustrializzazione e della subalternità alle filiere produttive internazionali.

Insomma gli argomenti opposti rispetto a quanto considerato “desiderabile” nel linguaggio ordoliberista e liberale degli ultimi trenta anni.

In secondo luogo, questa situazione dimostra due cose importanti: tutti i paesi hanno consapevolezza che da soli non possono farcela, ma molti si rendono ormai conto che i “compagni di strada” possono essere diversi da quelli avuti fino ad oggi. Soprattutto quando sono soliti abbandonarti nel momento del bisogno – o cogliere l’occasione per spremerti meglio – come la Germania o gli Stati Uniti.

È uno scenario che può mettere in campo nuove alleanze internazionali e che scuote i vecchi dogmi euroatlantici, strappando loro il velo che li faceva considerare un destino ineluttabile, immodificabile, addirittura “progressivo”. È la realtà della crisi a costringere persino alcune élite occidentali a pensare ad altre soluzioni...

È indubbio che il protagonismo della Cina giochi un ruolo decisivo. Prima con il progetto della Nuova Via della Seta, adesso con la capacità di essere riferimento mondiale su come si affronta l’emergenza pandemica, sia sul piano sanitario sia quello economico.

La Cina ha raggiunto e poi oscurato la primazìa statunitense sulle sorti dei propri partner storici. Non solo. L’arrivo di tempestivi aiuti dalla Russia, da Cuba, addirittura dall’Albania, ha messo tutti di fronte a bandiere e messaggi del tutto impossibili da immaginare fino ad un mese fa.

Ma ha messo anche a disposizione interlocuzioni economiche prima condizionate o contrastate dalla subalternità alle vecchie alleanze (sanzioni Usa e Ue, dazi, accordi obbligati ma svantaggiosi con il mondo euroatlantico etc.).

Dunque se l’ipotesi di un’area euromediterranea alternativa, sulla base di complicità col sistema dominante o per l’atavica subalternità politica della “sinistra”, prima è stata rimossa dal dibattito e dall’agenda politica, oggi se ne palesano tutte le condizioni per essere al centro del campo. Contribuisce a disegnare un orizzonte per il cambiamento possibile e va creando le condizioni per quello necessario – che a nostro avviso rimane il socialismo, anche nel XXI Secolo.

Solo “le condizioni”, ovviamente. L’arrivarci dipende da tutti noi.

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