Possiamo prendere le parole quotidianamente sparate dal presidente di Confindustria o dall’ultimo fantaccino di redazione di qualsiasi giornalone mainstream, non fa molta differenza. Si tratta sempre di frasette fatte, affermazioni “autoevidenti”, senza mai uno straccio di argomentazione e men che mai dimostrazione.
“Solo le imprese creano lavoro” è forse la più frequente. Così come “la produttività del lavoro italiano è troppo bassa”, o anche “il privato è più efficiente del pubblico”. Per non dire dell’eterno “le tasse sono troppe e troppo alte”, che giustificherebbero così l’immensa evasione fiscale che solo le imprese o comunque i possidenti possono permettersi (impossibile non pagare le tasse con la sola busta paga...).
Esiste naturalmente una letteratura economica, e di storia economica, che dimostra il contrario, per ognuna di queste affermazioni e anche tutte insieme. Ma chi ha più tempo, pazienza e cultura – oggi – per leggere libri? Basta un titolo di giornale o una dichiarazione di Bonomi o Sallusti in televisione, no?
Per fortuna arrivano, di tanto in tanto, quasi per distrazione dell’occhiuto caporedattore, anche articoli seri che inquadrano realisticamente il problema della smandrappata struttura industriale italiana, riconducendone la responsabilità a chi l’ha voluta in questo modo: gli imprenditori italiani.
Potete leggere qui di seguito l’onesta ricostruzione fatta da Mauro Del Corno e pubblicata su Il Fatto Quotidiano (non solo procure e manette, per una volta), che mette in fila numeri e fatti, smontando così senza fatica la vera e propria ideologia neoliberista all’italiana.
Che potremmo anche definire un castello di cazzate costruito per nascondere la semplice verità: siamo “comandati” da gentucola avida e incompetente nel proprio lavoro (“fare impresa”), abile solo nell’escogitare, imporre, sfruttare piccolissimi “vantaggi competitivi” che, a lungo andare, stanno facendo del nostro Paese una new entry nel “Secondo mondo”, ma sulla strada che porta nel Terzo.
Non vogliamo però qui sciorinare la consueta giaculatoria contro i “prenditori” di casa nostra. La crisi che si è aperta richiede qualcosa di molto più alto della sola denuncia, così come la conflittualità sociale – minima, puntuale, episodica, ma esistente – può individuare qualche soluzione solo se riesce a sollevarsi al di sopra della sola logica rivendicativa, che pure è la molla necessaria (si parte sempre dai “bisogni”, ma è ora di sapere dove si vuole andare).
Ormai è chiaro che almeno tre pilastri della narrazione neoliberista non stanno più in piedi. Non sono gli unici, ma sono quelli indispensabili per cominciare a disegnare una visione concretamente alternativa a livello si sistema.
Non una ”utopia”, che entusiasma la mente ma resta per definizione irraggiungibile. Cambiare il mondo significa infatti partire da questo mondo, da quello che c’è, per rovesciarne logica, architettura, finalità, princìpi regolatori, interessi sociali dominanti.
Per questo prendiamo in esame per ora questi tre pilastri e rimandiamo ad altra occasione (o altro media) una riflessione organica.
Primo. Non è vero che “solo le imprese creano lavoro”. Da anni lo stanno distruggendo e si apprestano a fare molto di peggio.
Secondo. Non è vero che saranno le imprese a guidare la transizione ecologica e le tecnologie green. Basta leggere il “decreto semplificazione”, fortemente voluto da Confindustria, che tra l’altro prevede l’abolizione di fatto della valutazione di impatto ambientale, per capire che la difesa dell’ambiente è l’ultima delle loro preoccupazioni.
Terzo. Non è vero, o non lo è più da tempo, che lo sviluppo dell’impresa privata si traduce in un miglioramento delle condizioni di vita di tutti. Potremmo dirla anche in un altro modo: il modo di produzione capitalistico ha esaurito la sua forza progressiva.
Per quanto riguarda l’Italia, in particolare, la certificazione arriva direttamente dall’Istat – dati di ieri – che descrive come “l’ascensore sociale” abbia smesso di star fermo. Solo che ora porta soltanto in basso, verso il peggioramento della condizione sociale.
Nella crisi specificamente italiana, nello sfarinarsi continuo della struttura produttiva, la prima – e sacrosanta – idea che viene alla mente è la nazionalizzazione delle imprese strategiche e comunque di tutte quelle che rischiano la chiusura nonostante i loro prodotti “abbiano ancora un mercato”.
C’è un problema di tenuta dell’occupazione, ovviamente; ma c’è anche la necessità di mantenere/sviluppare una struttura produttiva tale da garantire la riproduzione di ricchezza che va distribuita in modo radicalmente diverso. La “ricchezza” non è infatti una torta di dimensioni date da spartire secondo equità una volta per tutte, ma un meccanismo riproduttivo che deve garantire il benessere comune e di tutti (sono due cose molto diverse, notoriamente).
L’obiezione conservatrice – ma anche di alcuni “rivoluzionari astratti” – alla prospettiva della nazionalizzione delle imprese di un certo livello è che questo Stato – quello italiano del 2020 – è ben poco adeguato per questa funzione.
È vero. Non c’è più nemmeno in circolazione quella schiera spesso impresentabile dei “boiardi dell’Iri”, né tantomeno l’Iri. C’è insomma il problema serio di “rifare anche lo Stato”, visto che quello esistente è inservibile...
Del resto, è proprio così che l’hanno voluto trasformare le classi dirigenti: un “Stato minimo”, (quasi) fuori dalla produzione, attivo solo nel creare “condizioni attrattive per gli investimenti”, con il welfare in via demolizione, istruzione e università (pubbliche) alla canna del gas, e tanta polizia per mantenere basso il livello del conflitto sociale.
Però è un passaggio che non si può saltare con la pura “immaginazione desiderante” (definizione anni ‘70, ma rende l’idea ancora adesso), perché un sistema economico ed industriale (nazionale e interrelato con il resto dell’area e con il mondo) richiede necessariamente pianificazione e programmazione (e relative “competenze”), oltre a strutture amministrative, capacità ingegneristiche complesse, all’altezza delle tecnologie del presente e del prossimo futuro.
Nulla, insomma, che possa essere disegnato con le sole “spinte dal basso”, che veicolano giustamente esigenze e bisogni, ma richiedono risposte “non banali”. Ossia scientifiche. La grande industria, le infrastrutture energetiche, le comunicazioni, ecc, sfuggono alla percezione “naturalistica” dei singoli, che pure pretendono (giustamente) che aprendo il rubinetto esca l’acqua, che i termosifoni riscaldino la casa, ecc.
Affrontare una crisi sistemica come questa richiede uno sforzo enorme intanto sul piano intellettuale, rompendo con le tristi e inconcludenti abitudini della cosiddetta “sinistra radicale” degli ultimi 30 anni.
Ma anche con la coazione a ripetere che si è imposta, giocoforza, nelle non grandissime forze “anticapitaliste” esistenti. Pensare all’autunno – o comunque al prossimo futuro – “con la testa voltata all’indietro”, è una sciocchezza che non possiamo permetterci.
Non si tratta nemmeno di “sommare sigle”, politiche e/o sindacali, che nel loro insieme non darebbero un risultato degno di nota o all’altezza dei problemi.
Si tratta di intercettare il malessere del “blocco sociale popolare” costruendo il percorso e le strutture, ma soprattutto elaborando la “visione” e i progetti di trasformazione che permettono di realizzare la soddisfazione di quei bisogni.
C’è un mondo in crisi da cambiare. Non è più tempo dei giochi da cortile.
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Stato imprenditore, dal nanismo industriale alle privatizzazioni flop: perché in Italia i grandi gruppi ad alto valore aggiunto tecnologico sono (quasi) tutti in mano pubblica
Cinque delle prime dieci società italiane per valore di borsa sono partecipate pubbliche. E solo il pubblico sembra disporre delle risorse – e della volontà di usarle – per sostenere un salto di scala. Negli ultimi 30 anni, il Paese si è tagliato fuori da chimica fine, farmaceutica, computer, apparati avanzati di tlc, micromeccanica, concentrandosi invece sui campi meno avanzati, abbandonati dai partner Ue. Così non resta che competere sul prezzo e si comprimono gli stipendi
Mauro Del Corno – * Il Fatto Quotidiano
Confindustria insorge contro la prospettiva dello Stato azionista. Aiuti sì ma controllo in azienda no. Eppure la storia del Paese dimostra che, senza il pubblico, l’industria italiana è incapace di pensare in grande e di superare certi limiti.
Basta guardare alcune cifre per rendersene conto. Cinque delle prime dieci società italiane per valore di borsa sono partecipate dallo Stato. In linea di massima sono anche le aziende con i fatturati più alti, il maggior numero di dipendenti e i più corposi investimenti in ricerca.
Se dalla decina si escludono banche ed assicurazioni, le partecipate pubbliche sono cinque su sette.
In Spagna nella stessa condizione c’è solo un’azienda: Aena che gestisce aeroporti. In Francia, dove pure lo Stato è molto attivo, solo tre, inclusa una mini partecipazione dello 0,4% nel colosso del lusso LVMH.
Le prime 10 società italiane valgono tutte assieme 260 miliardi di euro. Le top ten spagnole 400 miliardi, quelle francesi 900 miliardi. È vero che la relazione tra imprese italiane e mercato azionario è sempre stata tiepida, ma questo è sia sintomo sia causa della vocazione al nanismo di molta nostra industria. Tolte Fca e Ferrari, a Piazza Affari i grandi gruppi con produzione ad alto valore aggiunto tecnologico sono tutti in ampia parte posseduti e gestiti dallo Stato. Da Eni a Leonardo (ex Finmeccanica), passando per Fincantieri, Saipem, Stm o Snam.
Fca, che pure di sostegno pubblico in varia forma nella sua storia ne ha ricevuto molto, si appresta a diventare mezza francese, dopo aver già spostato la sua sede fiscale in Gran Bretagna e quella legale in Olanda. E in Francia sta migrando anche Luxottica, dopo la fusione con Essilor. Pirelli è stata venduta ai cinesi. Molte dinastie imprenditoriali italiane hanno insomma scelto di “uscire dall’inferno della produzione per entrare nel paradiso della rendita”, per riprendere le parole dell’economista e storico dell’economia Marcello De Cecco.
Sono numeri e fatti su cui bisognerebbe riflettere quando, a prescindere, si addita come un pericolo l’ingresso dello Stato nelle grandi aziende in quanto portatore di cattiva gestione e sprechi. In Italia sembra semmai vero l’opposto e solo il pubblico sembra disporre di risorse, e soprattutto avere e avere avuto la capacità di usarle, per sostenere un salto di scala. L’industria privata italiana si è invece dimostrata poco desiderosa e capace di dar vita a gruppi con dimensioni internazionali, o anche solo di conservarli. Neppure quando vengono regalati o quasi.
Non si rammenta una grande privatizzazione culminata in un successo. Telecom è stata prima spolpata e poi ridotta ad un operatore poco più che nazionale, su Autostrade ed Ilva non è il caso di tornare. Affidata ai privati Alitalia ha proseguito esattamente sulla stessa rotta infelice.
In tempi meno recenti le generosissime ricchezze distribuite ai privati quando si decise di nazionalizzare la rete elettrica (altro che esproprio...) non furono reinvestite ma volarono in larga parte all’estero. Alfa Romeo, regalata alla Fiat mentre Ford era disposta a pagare, è oggi un marchio dai volumi minuscoli, che vende un decimo di Audi. Fiat fu anche protagonista della scalata, e successiva messa in vendita a pezzi, di Montedison, una delle poche aziende di stazza globale nel settore chimico e farmaceutico. Sparita.
Così, negli ultimi 30 anni, il paese si è tagliato fuori da chimica fine, farmaceutica, computer, apparati avanzati di tlc, micromeccanica, software ed altri settori ad altro valore aggiunto tecnologico, concentrandosi invece sui campi meno avanzati, abbandonati dagli altri paesi europei.
Se qualcosa sopravvive è nelle partecipate pubbliche tanto che sempre De Cecco ebbe a scrivere, già una ventina di anni fa: “È certamente impossibile postulare una superiorità del sistema italiano delle grandi imprese sul suo omologo pubblico”.
Non che nel paese manchino o siano mai mancate capacità e tradizioni imprenditoriali. Secoli di storia e commerci non si cancellano, come dimostra la battaglia, quasi stoica, delle piccole e medie imprese sui mercati internazionali. Ma anche qui l’assenza di pesi massimi si fa sentire.
Il mito dell’Italia esportatrice va un po’ ridimensionato. L’export vale tanto in valore assoluto, circa 400 miliardi di euro l’anno, ma poco rispetto alle dimensioni della nostra economia: intorno al 30% del Pil, uno dei valori più bassi d’ Europa.
L’elevata tassazione è più una foglia di fico. Non è così diversa da quella di molti altri paesi europei. Anzi, come fotografato dal centro studi Mediobanca, per le grandi imprese spesso è più bassa.
Si ripete da anni come il male che affligge e corrode l’economia italiana sia la bassa produttività. Ossia la differenza tra il valore di quanto viene prodotto e quanto viene speso per produrlo. Ma questo non accade perché gli italiani lavorano meno dei francesi o dei tedeschi, anzi il monte ore passato in fabbrica o in ufficio è maggiore. Né, tanto meno, perché guadagnano di più.
Accade perché lavorano spesso con strumentazioni meno avanzate e/o in settori in cui il valore dei prodotti realizzati è relativamente modesto. Del resto, ormai da decenni, gli investimenti in ricerca e sviluppo dell’industria privata italiana languono intorno allo 0,5% del nostro Prodotto interno lordo. In Francia o Germania sono ben più del doppio. Altra conseguenza della vocazione al nanismo.
Come spiega lo storico dell’Economia Giuseppe Berta “nella storia italiana lo Stato ha avuto la funzione di creare l’architettura di sostegno alla grande impresa e di svolgere una funzione di traino tecnologico. Nel momento in cui lo Stato ha iniziato a disimpegnarsi, questo sostegno è venuto meno e le conseguenze sono evidenti. Non esiste più il vertice della piramide industriale, mentre sono aumentante le aziende di dimensioni medie, e si è abbassata l’intensità tecnologica delle produzioni”.
È vero che in passato il contesto normativo italiano non era particolarmente favorevole all’incremento dimensionale delle aziende, fa notare Berta, ma è altrettanto vero che le aziende che hanno raggiunto una dimensione significativa hanno quasi sempre fatto leva su una qualche forma di sostegno pubblico.
Ma se il contenuto tecnologico dei prodotti non è elevato, come si compete?
Sul prezzo. E non potendo più contare sulla svalutazione della moneta, i risparmi si traducono in buona misura sulla compressione degli stipendi.
Vizio antico, peraltro. Nel 1950 Leon Dayton, capo della missione statunitense in Italia per il piano Marshall, che di questi tempi va di moda rievocare, sollevò un caso diplomatico esprimendo forti critiche verso le imprese italiane che “facevano profitti a spese di lavoratori sottopagati”.
Lo stesso boom economico deve molto a due fattori, da un lato l’immigrazione interna che forniva eserciti di manodopera a bassissimo costo, dall’altro il fisiologico “aggancio” alle più avanzate economie limitrofe.
Lo storico Guido Crainz nel suo “Il Paese mancato” identifica uno dei fattori essenziali del boom italiano nell’“utilizzo selvaggio di mano d’opera a basso costo che abbandona la campagna”. Fuori da una certa retorica il percorso dell’impresa privata italiana dal dopoguerra ad oggi è fitto di ombre oltre che di qualche luce.
Pubblico non è necessariamente meglio, ma è davvero difficile affermare che sia peggio.
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