di Sandro Moiso
Scorre in questi giorni, su Netflix, una serie sudcoreana intitolata Non siamo più vivi (nell’edizione originale All of Us Are Dead) che può costituire, fatte tutte le dovute differenze tra società e scuola sudcoreana e la nostra, un’utile ed interessante analogia con le attuali lotte degli studenti delle scuole superiori.
Nella serie, la cui prima stagione è strutturata in dodici episodi, la scuola uccide, come nella attuale realtà degli istituti di istruzione superiore italiani, e di questa violenza non sono soltanto responsabili gli zombi, che nella serie costituiscono la manifestazione epifenomenica della violenza insita nella stessa istituzione, ma ancor di più un mondo adulto fatto di ipocrisia, competizione, obbedienza, supponenza, ordine, militarismo e disciplina oltre che gerarchizzato in una rigida struttura classista.
I giovani protagonisti, quasi tutti appartenenti, per vari e differenti motivi, alla schiera dei reietti della scuola dovranno lottare contemporaneamente contro tutto ciò: contro gli zombi (che oltre tutto riflettono le conseguenze di vite che non è più possibile considerare tali), contro i propri fantasmi e contro il bullismo che si rivela, se osservato in filigrana, essere nient’altro che la proiezione fantasmatica, nel mondo psichico degli adolescenti che lo esercitano, di una sorta di rivalsa nei confronti delle violenze e viltà subite o osservate nel modo “maturo” degli adulti, dei docenti e dei dirigenti della scuola.
Per sopravvivere e crescere dovranno passare attraverso diverse e difficili prove e imparare, nel corso di una durissima e spietata lotta da cui dipende la loro vita o la loro morte, a diventare qualcos’altro da ciò che la società e la famiglia avevano programmato per loro. Finendo col constatare che proprio nel fallimento degli obiettivi e dei risultati ritenuti indispensabili dal mondo “maturo” sta il segreto della sopravvivenza e della crescita, sia individuale che collettiva.
È un messaggio forte quello che la serie trasmette, particolarmente adatto ad interpretare metaforicamente anche l’attuale situazione della scuola italiana.
Una scuola classista, disinteressata e slegata dai bisogni reali dei giovani; basata sulla promozione di una costante competitività tra i singoli e sull’esclusione di chi in tale gara senza scopo si sente a disagio. E in cui l’interesse imprenditoriale prevale su quelli inerenti alla formazione, anche a costo della morte di chi, almeno virtualmente, dovrebbe essere formato.
Una scuola in cui si straparla di bullismo, ma che non ne abolisce le cause nel momento in cui troppo spesso i dirigenti, in un liceo di Cosenza come in tante altre scuole, coprono violenze e metodi intimidatori dei docenti per difendere “il buon nome della scuola”, oppure in cui si denuncia l’eccessiva esposizione sul web degli allievi senza considerare come la stessa dad obblighi i medesimi a relazionarsi sempre più spesso, con gli altri e soprattutto con chi dovrebbe formarli ed istruirli, proprio attraverso la rete.
È per questo motivo che il tema dell’immaturità e della maturità degli allievi non può essere affrontato soltanto attraverso il tema dell’ormai pagliaccesco ed inutile esame di maturità. Esame pretenziosamente definito “di Stato” che, però, non è più tale nel momento in cui non garantisce più un titolo sicuro. Né per l’ammissione alle facoltà universitarie (essendo oggi necessario per molte di esse un ulteriore esame di ammissione), né tanto meno a un titolo professionale valido in quanto tale (vista anche l’abolizione degli albi di molti di questi) sul mercato del lavoro.
Maturità che non può passare soltanto per il vaglio di una commissione giudicante nominata ad hoc e nemmeno soltanto per le “virtù” e conoscenze raggiunte per il tramite di un percorso scolastico sclerotizzato da decenni (e che fu parzialmente rinnovato in passato soltanto grazie alle lotte degli studenti, poi rinchiuse in un solido recinto dai “democratici” Decreti Delegati già nel 1974).
Maturità che ancor meno può essere valutata attraverso il raggiungimento da parte degli allievi degli obiettivi prefissati da una società basata sullo sfruttamento del lavoro, manuale o intellettuale che esso sia.
I giovani, da questo punto di vista e ancor di più durante la lotta, potrebbero rivendicare la loro alterità ai fini della società che è alla base del loro disagio, del loro scontento e degli stessi comportamenti violenti che troppo spesso ricadono su di loro.
Non a caso, nel corso della serie sopracitata, per tutto il tempo resta appeso ad una finestra della scuola il cadavere di una giovane studentessa, evidentemente suicidatasi per sfuggire all’orrore che la circondava. Ma vien da chiedersi: soltanto per sfuggire agli zombi? Oppure, soprattutto, a tutto il resto?
Riferimento palese a Giappone e Corea del Sud, dove l’elevatissima concorrenzialità tra gli studenti causa un elevato numero di suicidi tra coloro che pensano di non farcela. Una competizione portata all’estremo che, anche qui in Italia, attraverso il sistema dei crediti scolastici ha iniziato ad essere introdotto in forma più evidente, anche se non ancora con pieno successo.
È di questi mesi la paura diffusasi, soprattutto tra molti giovani, attraverso il messaggio portato dall’ultimo discendente dei sempre truffaldini Kennedy alla manifestazione no green pass di Milano di qualche mese fa, dell’introduzione del sistema cinese dei crediti sociali nel nostro paese. Immotivata e fuorviante preoccupazione visto che il capitalismo occidentale e nostrano ci ha già pensato e introdotto, con misura molto ben miscelate, nella società italiana ed europea da tempo. Molto tempo. In un regime in cui la deprimente manifestazione canora di Sanremo funziona molto meglio delle adunate oceaniche di mussoliniana memoria, accompagnata com’è stata dall’Inno di Mameli in apertura e da una marcia militaresca (titolo: Armi e brio) in chiusura.
Il tema della maturità/immaturità così come si presenta in termini meramente scolastici rischia di trasformarsi in un terreno estremamente viscido e fangoso per tutti quei giovani che vogliono, così come stanno già facendo, misurarsi con un sistema di istruzione che, comunque, nella disciplina e nella competizione individuale fonda le sue basi.
Rompere con questa impostazione per andare ben oltre le miserabili concessioni che parte dell’autorità scolastica è pronta già a fare, come sembra dal recente giudizio negativo espresso a proposito della necessità di una seconda prova scritta all’esame di quest’anno, risulta pertanto indispensabile.
Accettare di trattare col ministro su queste semplici e ”scolastiche “ basi significherebbe tralasciare l’altra ben più importante questione dell’alternanza scuola-lavoro e ancor più quella della reale scuola che gli allievi vorrebbero. Non è infatti nella cultura classista, cattolicheggiante e perbenista trasmessa dall’istituzione scuola che gli allievi e i giovani possono trovare risposta alle domande che li assillano.
Chiedere l’abolizione dell’esame di maturità, rifiutare il titolo attestante la maturazione individuale sulle basi dell’ideologia trasmessa dalla società attraverso la scuola, rivendicare una propria immaturità nei confronti di un mondo talmente maturo da essere ormai prossimo alla putrefazione, rappresenterebbe invece la vera sfida e la potenziale via d’uscita da un possibile impantanarsi delle lotte su un terreno falsamente riformistico e privo di prospettive concrete.
Ritrovarsi come giovani in lotta, rimettere in discussione conoscenze e saperi ossequiati per dovere più che per reale convinzione ed aprire la mente ad una conoscenza non indirizzata soltanto alla carriera e al profitto, potrebbe costituire una reale alternativa. Esaltante ed avventurosa insieme, senza temere di esser definiti immaturi da chi ha sempre trattato come tali i rivoluzionari, gli eretici e i ribelli.
La scuola, attualmente non è degli studenti, inutile illudersi e riempirsi la bocca di discorsi tratti dai peggiori dizionari del politicamente corretto. La scuola va riconquistata in quanto luogo di contraddizioni, di scontro e di lotta. Esattamente come cercano di fare i giovani eroi di Non siamo più vivi, poiché la lotta è, prima di tutto, una battaglia per rimanere vivi e per formare una reale comunità umana, rifiutando di essere destinati a diventare soltanto degli automi a disposizione del capitale e dei suoi funzionari.
(Qui la prima parte)
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