I tagli di 20 anni si sono visti nella difficoltà del persone sanitario che ha difeso la salute di tutti.
Mai come nel caso dello slogan scelto per lo sciopero della sanità proclamato da USB lo scorso 28 gennaio Operatori esauriti, sanità al collasso, si è colto il segno di quella che si preannuncia come la pandemia nella pandemia e che è destinata ad avere conseguenze sulla sanità pubblica ben più a lungo della fine dello stato di emergenza fissata per il prossimo 31 marzo.
I dati degli studi fin qui pubblicati sanciscono un quadro desolante: in due anni di pandemia medici, infermieri e operatori sanitari hanno accumulato talmente tanto stress lavoro correlato (paura, ansia, stanchezza, insonnia) da costringere tutte le ASL a correre ai ripari con l’attivazione di servizi di assistenza psicologica.
Un malessere talmente vasto che tocca punte del 70% tra il personale infermieristico, il più colpito insieme agli specializzandi. Dalla paura iniziale di portare l’infezione a casa con il conseguente allontanamento dai propri familiari, al passaggio da eroi osannati dai balconi ad incapaci di rispondere efficacemente ad un virus che ha causato oltre 150 mila morti. La difficoltà a gestire la morte in isolamento dei pazienti e il dramma dei loro familiari.
E poi riposi e ferie negate, turni massacranti, migliaia di infortuni, tamponi continui, giornate intere trascorse con i DPI addosso.
Persino peggiore, se possibile, la situazione dei neoassunti che si sono ritrovati da un giorno all’altro e senza formazione nei reparti Covid pagando un prezzo altissimo in termini di salute psicofisica.
2500 gli infermieri che si sono dimessi, ma la cifra oltre ad essere sottostimata è del tutto provvisoria.
Il numero chiuso delle università e una pessima programmazione delle scuole di specializzazione di medicina, stanno invece permettendo l’esternalizzazione dei pronto soccorso, molti dei quali ormai privi di medici strutturati, a personale interinale per cifre giornaliere pari alla metà di uno stipendio mensile.
Ma l’impatto del Covid è stato devastante anche sulle liste di attesa e sull’accesso alle prestazioni sanitarie. L’attività delle sale operatorie è diminuita dell’80% e sono circa 400mila gli interventi chirurgici rinviati, sono calate del 20% le prestazioni ambulatoriali e specialistiche e di 1,7 milioni i ricoveri – con riduzioni significative in chirurgia oncologica e cardiochirurgia.
Le conseguenze dirette sono un aumento dei tumori nei prossimi anni e una diminuzione delle speranza di vita già stimata in oltre un punto percentuale.
Per medici, infermieri e operatori sanitari le condizioni di lavoro non miglioreranno di pari passo alle misure di allentamento che il governo intende mettere in atto nei prossimi mesi ma proseguiranno con lo stesso affanno nel tentativo di smaltire le liste di attesa.
E se, dal punto di vista ospedaliero, la situazione è critica, le cose non vanno meglio per quanto riguarda la medicina territoriale se più di un report segnala difficoltà con l’assistenza domiciliare e il sensibile peggioramento nell’erogazione del servizio dal periodo pre covid.
Le cause di questo sfacelo sono tutte imputabili al progressivo smantellamento della sanità pubblica, nella massiccia riduzione di infermieri e operatori sanitari in nome della sostenibilità economica e nel costante definanziamento al quale è stato sottoposto il fondo sanitario nazionale.
È sempre più urgente un cambio di rotta: assunzioni massicce, stabilizzazioni di tutto il personale precario, investimenti strutturali per garantire il diritto alla salute e la certezza dell’accesso alle cure.
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