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12/04/2025

La “ricetta” di Trump è indigesta per l’America

I grandi della dialettica sono felici quando incontrano un paradosso. Sanno che lì si sta manifestando una contraddizione reale, ossia nella concretezza materiale, che non si pensava esistesse.

Succede in queste ore convulse seguite alla “ritirata” di Trump sui dazi al Mondo (fissati comunque al 10%, anche se c’è stato un rinvio di tre mesi per permettere a chi vorrà trattare di “baciargli il culo”), che ha lasciato soltanto alla Cina l’onere di un +145% sulle esportazioni verso gli Usa.

In teoria, secondo la logica lineare, avrebbero dovuto gioire le borse occidentali e soffrire quelle cinesi (Hong Kong, Shangai, Shenzen).

È invece accaduto l’opposto. Dopo una sola giornata di gloria passata a festeggiare lo scampato pericolo – i dazi protezionistici scassano il commercio internazionale e quindi riducono i profitti di milioni di imprese – le piazze occidentali, quelle statunitensi in primis, ha ripreso a scendere vertiginosamente annullando il “rimbalzo” del giorno precedente: Dow Jones -2,54%, Nasdaq -4, Tokyo -3.

Quella di Hong Kong invece ha ripreso a salire (+1,16%), così come quella di Shangai (+0,45). A quel punto quelle europee – che aprono quasi alla stessa ora in cui chiudono quelle asiatiche – hanno capito l’antifona e ripreso a sperare moderatamente in un prossimo futuro meno drammatico rispetto alle previsioni di due giorni fa.

Qual è la contraddizione? Nel fatto che quel 145% di tariffe d’ingresso negli Usa per le sole merci cinesi è un danno principalmente per gli statunitensi, specie quelli a basso reddito che non si possono permettere i più costosi equivalenti “made in America” o peggio ancora in Europa.

Come se non bastasse, Pechino ha ripreso a lasciar scendere la quotazione dello yuan, riducendo così almeno in parte l’ostacolo posto alle sue merci (se si abbassa il prezzo all’origine il dazio pesa meno), ha bloccato l’esportazione di almeno sette “terre rare” fondamentali per l’elettronica, ha aperto trattative con quasi tutti i paesi del Pianeta per migliorare le rispettive relazioni commerciali, ha bloccato la vendita del ramo statunitense di TikTok ad una società Usa, ecc.

In più, nonostante una propaganda così “sparata” da risultare quasi ridicola, il fatto di aver dovuto innestare la retromarcia – sia pure parzialmente e temporaneamente – ha fatto capire “ai mercati” che la strategia trumpiana non è così efficace o lungimirante. Anche perché la lunga serie di “decisioni shockanti” emanate dalla Casa Bianca in meno di tre mesi tutto può fare meno che garantire “prevedibilità” al business. E senza poter prevedere, almeno da qui a qualche mese, nessun business può dirsi “sicuro”.

Ma se la regia è incerta, il film riuscirà certamente malfatto. Lo si era intuito dalla contemporanea fuga sia dal dollaro che dai titoli del Tesoro Usa. Due tradizionali “beni rifugio” nei momenti di tempesta (un po’ come i Bund tedeschi per l’Europa...) che invece stavolta sono stati visti come porti da cui fuggire.

Lo scopo dichiarato dell’amministrazione Trump è quello di “re-industrializzare” gli Stati Uniti, svuotati da oltre un trentennio di delocalizzazioni. Ma gli strumenti usati – e i dazi in primo luogo – non garantiscono affatto il successo.

Molte delle multinazionali statunitensi stanno soffrendo quasi catastroficamente la prospettiva di vedere i propri prodotti fabbricati in Cina (o in Vietnam, o altrove nell’Est asiatico) diventare invendibili negli States. Vale per Apple, che fabbrica gli iPhone a Shenzen, ma anche per la Tesla che ha visto crollare sia le vendite che le quotazioni azionarie.

La “re-internalizzazione” della produzione richiede tempi lunghissimi (le fabbriche vanno prima costruite, vanno assunti ingegneri, tecnici, operai in un paese dove determinate competenze sono scomparse da tempo, ecc.), mercati stabili (i tempi di rientro degli eventuali investimenti si misurano in anni o decenni), condizioni fiscali e finanziarie “senza sorprese”. E un gruppo di miliardari, a cominciare dal Presidente, che appaiono più intenti a praticare il gioco dell’insider trading contando sulle “sorprese” che loro stessi provocano, non è una garanzia per nessuno che sia fuori da quel giro.

Anche se tutto venisse fatto “a modo”, comunque la “re-industrializzazione” potrebbe non funzionare. Una strategia fatta di ricatti, strappi, minacce, retromarce, trattative con la pistola sul tavolo, condizioni diverse per amici e nemici, incertezza totale sul medio termine, è il modo migliore di fallire tutti gli obiettivi.

“I mercati” vivono fiutando l’odore del sangue (dei soldi). E al momento l’America “Maga” non sembra il posto più adatto per investire.

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