L’ultima in ordine di tempo è la Ferretti group, passata alla società cinese Shandong Heavy Industry Group – Weichai.
Solo il tempo di festeggiare il Capodanno (occidentale) del 2012 e il
Dragone ha messo il sigillo su un gioiello dell’industria italiana,
maggior produttore mondiale di yacht di lusso. Ferretti era incappata
nei guai per l’eccesso di debiti accumulati in successivi passaggi di
mano di fondi di private equity, e i cinesi hanno vinto la partita grazie all’accollo dell’indebitamento con un esborso complessivo di 374 milioni
di euro – di cui 178 milioni in investimenti e 196 milioni per il
finanziamento del debito del gruppo – per il 75% della società
italiana. Il compratore è una società statale, dotata quindi di fondi
pressoché illimitati, ma assolutamente estranea al mondo degli yacht.
Non è un problema, l’importante è accaparrarsi le tecnologie e il “saper
fare” artigianale degli italiani, farli propri e svilupparli
successivamente in madre patria, dove i milionari sono molti e gli yacht
di lusso un giocattolo sempre più ambito.
Compratori attenti, i cinesi. Venditori distratti del loro patrimonio
manifatturiero gli italiani. La nostra manifattura è la seconda in
Europa per importanza, dietro solo a quella tedesca e a prezzi di
realizzo causa crisi e (apparente) disinteresse degli imprenditori
italiano. I dati elaborati dalla società di consulenza Kpmg non lasciano dubbi. Nel 2011 le imprese straniere hanno fatto man bassa delle aziende italiane. Sono in tutto 108 acquisizioni tra grandi e piccole, per un controvalore totale di 18 miliardi di euro.
Per fare un paragone, stiamo parlando della metà della manovra
finanziaria lorda con cui il governo Monti ha messo in sicurezza i conti
statali a fine 2011. Tanti, tanti soldi per un periodo di crisi,
contando che sono scomparsi i cosiddetti “megadeal” tipici dei periodi
di espansione economica, grandi acquisizioni con numeri talvolta
superiori al Prodotto interno lordo di interi stati africani o
centroamericani. Nel 2010 le operazioni “estero su Italia” come si
chiamano nel gergo della finanza, erano state 83, con
una crescita quindi del 30 per cento e addirittura del 76 per cento se
si considerano i controvalori investiti, che nel 2010 sono stati 10
miliardi. Vale la pena di notare che le imprese italiane si accontentano
di affari minori. Le operazioni “Italia su Italia” e “Italia su estero”
sono state rispettivamente 157 e 64, ma la somma del loro controvalore
totale è pari a 10 miliardi di euro. L’80 per cento meno degli
stranieri.
Imperialismo alla francese
Napoleone Bonaparte aveva avuto buon occhio per i capolavori dell’arte
italiana. Una volta varcate le Alpi era stato attentissimo nel
selezionare quadri e sculture di assoluto valore artistico per
impreziosire i propri musei. Due secoli abbondanti dopo, mutatis mutandis, la
Francia repubblicana è tornata in forze sul territorio italiano a fare
incetta di altri “gioielli” della nostra epoca. Nessun uso della forza,
solo strategia e soldi. I cugini transalpini sono stati gli assoluti
protagonisti sul mercato delle acquisizioni nel 2011, confermando
l’attenzione per il tessuto economico italiano dove nel periodo
2007-2011 sono i secondi assoluti per deal dietro solo alla superpotenza
americana. Cinque delle 10 maggiori acquisizioni di gruppi italiani
portano infatti il marchio dei bleus, a cominciare dalla maison del gioiello Bulgari
finita a marzo al colosso mondiale del lusso Lvmh di Bernard Arnault
per 4,15 miliardi di euro circa. La famiglia Bulgari è entrata nel cda
francese ma nessun gruppo del lusso italiano ha rilanciato.
Appena il tempo di digerire la perdita di questo importante marchio nostrano ed è stata la volta di Parmalat, secondo gruppo agroalimentare italiano finito ai francesi di Lactalis
per 3,7 miliardi di euro. Uno smacco in piena regola per un’azienda che
veniva da una fase di ristrutturazione finanziaria complicata post crac
Tanzi. La beffa è ancora maggiore se si pensa che il gruppo di
Collecchio era un piccolo forziere con 1,4 miliardi di euro di liquidità
derivante dalle azioni revocatorie e risarcitorie contro le banche. Non
solo: come ogni azienda agroalimentare è anche il terminale di una
filiera spesso complessa che ha origine nel mondo agricolo, settore
fragile. Anche in questo caso nessuna resistenza degna di nota. L’ex
ministro Giulio Tremonti, spaventato dal possibile
contraccolpo sull’opinione pubblica aveva annunciato norme antiscalata
sul modello proprio di quelle francesi, ma poi partorì poco o niente e
l’acquisizione andò in porto con il benestare di IntesaSanpaolo (ex azionista forte di Parmalat) guidata dell’attuale ministro Passera. Così come è andato in porto l’acquisto di Edison da parte della società statale transalpina Edf,
che a fine anno ha messo le mani sul secondo player commerciale di luce
e gas in Italia. L’intervento di Passera, in versione ministro, ha
lasciato in mani italiane la controllata Edipower,
attiva nella generazione. Il lato grottesco dell’operazione è che gas ed
energia elettrica privatizzati e aperti al mercato sono finiti a una
società statale, con gli utili che ingrasseranno l’Eliseo.
Sempre nel lusso sono passati a società francese la società abruzzese Brioni, quella degli smoking di James Bond e di tantissime celebrità mondiali, acquisita dalla Pinault Printemps Redoute (Ppr) interessata alla forza lavoro zeppo di sarti di alto profilo artigianale dello stabilimento di Penne, e Moncler,
dov’è entrata con il 45 per cento la finanziaria Eurazeo. Italiani
bravi a creare marchi e aziende, incapaci di creare anche nei settori
tradizionali del made in Italy campioni di livello internazionale. E tra gli ultimi colpi di mercato anche il vino, con la casa vinicola Gancia finita all’imprenditore tartaro Roustam Tariko, attivo nella vodka e banchiere. Prima di lui la Ruffino
era finita agli americani di Constellation Brands. Insomma, siamo i
primi o secondi produttori di vino al mondo e non abbiamo un’azienda di
livello internazionale. Continuano i paradossi.
E nel 2012? Le prede aumentano
Che la razzia delle imprese italiane stia diventando un problema sembra
se ne siano accorti anche nel governo che potrebbe studiare una nuova
norma antiscalate per difendere le società italiane da attacchi esterni e
diminuirne così la contendibilità. Non è chiaro ancora cosa ne verrà
fuori, ma quelle che sono ben visibili sono le prede. A cominciare dal
disastrato sistema bancario italiano, alla ricerca disperata di
liquidità e con valori di borsa bassissimi in questo momento. Basti
pensare che che a fine mese, con la chiusura dell’aumento di capitale Unicredit,
si capirà qual è il nuovo azionariato e potrebbero esserci sorprese
asiatiche o mediorientali, sotto forma di fondi sovrani. Il solo sistema
cinese ha pronti per l’Europa 300 miliardi di euro da investire, e
attende di allocarli al meglio.
Altre prede possibili sono Alitalia, dov’è presente
AirFrance Klm come azionista che potrebbe voler crescere di peso nelle
more di un risanamento dei “capitani coraggiosi” che però è messo sempre
più a rischio dai conti della stessa società francese; i treni di Ansaldo Breda messi ufficiosamente in vendita da Finmeccanica e con la francese Alsom possibile interessata insieme ai canadesi di Bombardier; la maison Valentino cui sarebbero interessati gli spagnoli di Puig. Un caso a parte potrebbero essere le Assicurazioni Generali, gioiello della finanza italiana che Mediobanca, dove il francese Bollore è ancora salito leggermente di quota, non avrebbe la forza di difendere da un attacco portato in grande stile.
Potrebbero tornare i progetti di privatizzazione delle aziende
energetiche Eni ed Enel? E’ un’ipotesi molto remota, ma nessuno in
questo momento si azzarda a negare nulla. Di certo, dicono da Kpmg, “uno
dei pericoli delle vendite a gruppi esteri che spesso viene
sottovalutato è che il pian piano i centri gestionali si spostano dalla
società acquista alla casa madre, inaridendo quel che è il tessuto
professionale interno. Nel lungo periodo è una perdita di
professionalità che intacca la possibilità di sviluppo e crescita
futura”. Come dire: prima inglobati e poi svuotati.
Fonte.
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