Usare il mais per produrre energia? Ora non più: dopo cinque anni di
sperimentazioni che hanno coinvolto 10 Università e circa 100
ricercatori (in gran parte trentenni), l’Italia si trova nell’inusuale
ruolo di pioniere tecnologico nel campo delle energie rinnovabili. Il
colosso chimico a conduzione familiare Mossi & Ghisolfi,
leader mondiale nella produzione di Pet (il materiale delle bottiglie
di plastica), ha deciso di iniziare ad emanciparsi dal petrolio e
puntare tutto sulla sostenibilità. Come? Investendo in tecnologia e
ricerca diverse decine di milioni di euro, e sviluppando nei suoi
laboratori di Tortona una tecnologia unica al mondo. Si chiama
Pro.e.satm, e consente di produrre carburante verde di nuova
generazione: non più da canna da zucchero o mais, ma da biomassa non alimentare.
Il futuro dei carburanti sembrerebbe già scritto: sempre meno petrolio e
sempre più biocombustibili. Una scelta obbligata, se non altro per
l’esaurimento delle risorse fossili. Che, però, nasconde non pochi
problemi: dalla conversione di colture destinate alla produzione di cibo
al fenomeno del land grabbing; dalla deforestazione al rincaro dei
generi alimentari ed al massiccio uso di pesticidi inquinanti, sono
molti i motivi per cui i biofuel non sono visti di buon occhio dal mondo
ambientalista.
La soluzione però, si può trovare nei biocarburanti di seconda
generazione M&G: un’invenzione tutta italiana, frutto di un
investimento da ben 120 milioni di euro, a cui se ne sono aggiunti 12
della Regione Piemonte. Un progetto che porterà alla creazione di oltre
150 posti di lavoro, alla produzione di 42mila tonnellate di
biocarburante e ad una riduzione delle emissioni di CO2 di circa 70mila
tonnellate ogni anno.
La sfida, per l’azienda alessandrina, era quella di rendere i
biocombustibili veramente eco-compatibili. “Il biocarburante va bene
quando è anche sostenibile”, ricorda Giuseppe Fano, direttore delle
relazioni esterne del gruppo piemontese: “Ma quelli prodotti oggigiorno
spesso non lo sono”. “La CO2 complessivamente emessa nella produzione di
biocarburanti può essere decisamente troppo elevata”, ricorda il
dirigente: “E spesso vengono sottratti spazi originariamente destinati
alla produzione di alimenti”. Ma “la terra serve a produrre cibo –
aggiunge Fano – e la tecnologia da noi sviluppata permette proprio di
non andare a toccare la parte edibile della pianta, per valorizzare ciò
che nessun altro utilizza”.
Come la paglia del riso, troppo ruvida sia per l’uso alimentare che per
essere destinata alla zootecnia. Generalmente lasciata nei campi, è
invece un ingrediente ideale per la tecnologia Proesa. O la bagassa,
generata dagli scarti della produzione di canna da zucchero. Ma
soprattutto la canna comune (arundo donax), che oltre a crescere
spontaneamente sui terreni marginali di tutta la pianura padana, ha
percentuali di sequestro di CO2 molto elevate, ha bisogno di poca acqua e
pochi fertilizzanti nonostante la resa molto elevata (10 tonnellate per
ettaro contro 3 t/ha del mais), e non intacca la produzione di cibo.
“I terreni abbandonati in Italia, secondo le stime più recenti, sono fra
1,5 e 2 milioni di ettari”, fa presente Giuseppe Fano: “Terreni
lasciati incolti perché poco redditizi o poco fertili”.
“Rivalorizzandoli, coltivandoci ad esempio la canna comune, si offre un
reddito incrementale all’agricoltura, e si evitano problemi legati ai
processi di erosione e di dissesto idrogeologico, spesso causati proprio
dall’abbandono dei terreni”.
Questa nuova tecnologia è “del tutto auto-sostenibile dal punto di vista
economico e finanziario”, conclude Fano: “Ma non sarebbe male se si
investisse ulteriormente, anche a livello di incentivi statali, sulla
ricerca”. Se non altro per sviluppare ulteriormente tecnologie
vantaggiose sia per l’ambiente che per l’economia del nostro Paese.
Ora, con due anni di anticipo rispetto alle previsioni, dalla fase
sperimentale si sta già passando a quella produttiva. A Crescentino, in
provincia di Vercelli, è in corso di realizzazione su quella che era un
tempo una vecchia fabbrica siderurgica il primo ed unico impianto al
mondo che produrrà bioetanolo di nuova generazione.
Per il professor David Chiaramonti del Dipartimento di
Ingegneria Energetica dell’Università di Firenze, “questo impianto
consente di portare la tecnologia dell’etanolo di seconda generazione ad
una scala pienamente industriale”. Ma soprattutto, puntualizza lo
scienziato: “Oltre all’aspetto produttivo del bioetanolo vi è poi quello
di sviluppo tecnologico, che consentirà di valorizzare la tecnologia
nel mondo in un contesto fortemente competitivo e di grande prospettiva
nei prossimi anni”.
Fonte.
Un passo avanti rispetto al delirio dei bio combustibili generati da coltivazioni alimentari, ma ben lontano dalla soluzione del problema, che non è quella di sostituire i combustibili fossili con loro surrogati ma ripensare lo sviluppo umano su basi completamente differenti dalla combustione di risorse per produrre energia e su una mobilità in drastica antitesi con quella attuale che vuole un culo per una macchina.
A questo proposito, mi suona sempre male che in ambito accademico e di ricerca (per lo meno ufficiale) le idee e i traguardi di Nikola Tesla continuino a rimanere nel dimenticatoio.
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