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15/01/2012

Il vecchio sistema è fallito, ripartiamo da merito e benessere

Jack London, nel suo libro "Il tallone di ferro" oltre un secolo fa, scriveva "(...) La società è divisa in tre grandi classi. Prima fra tutte è la plutocrazia, composta dai ricchi banchieri, dai magnati delle ferrovie, dai direttori delle grandi società e dai magnati dei trust; la seconda, la borghesia, la vostra, signori, comprende i grandi professionisti. Infine, la terza e ultima, la mia classe, il proletariato, formato dai lavoratori salariati. (...) Sul numero totale delle persone soltanto lo zero nove per cento appartiene alla plutocrazia; eppure la plutocrazia possiede il settanta per cento della ricchezza totale. La borghesia dispone di ventiquattromiliardi e gode del venticinque per cento della ricchezza totale. Resta il proletariato. Di tutte le persone che svolgono un lavoro, il settanta per cento appartiene al proletariato, che possiede solo il quattro per cento della ricchezza totale. Da quale parte sta il potere, signori?".

Sembra oggi, ma era il 1905. La nostra economia è vecchia prima di tutto perché è sostanzialmente identica, negli squilibri relativi alla distribuzione della ricchezza e negli squilibri di potere a questa associati, all'economia di oltre un secolo fa. Con la sola differenza che allora i lavoratori salariati erano in gran parte formati da operai, mentre oggi sono formati da impiegati. Ma con la stessa preoccupante tendenza a sottopagare il lavoratore medio e a strapagare i capi. Basti pensare come negli Stati Uniti si sia passati da un rapporto di circa 20 volte tra lo stipendio medio di un salariato e il CEO della stessa azienda, ad un rapporto di oltre 400 volte. Né fa eccezione a questo principio l'Europa che, pur se su rapporti inferiori, vede costantemente aumentare questo tipo di disparità anche durante gli anni di crisi.
L'attuale economia, così come quella di un secolo fa, retribuisce poco il lavoro e premia molto, troppo, i detentori di capitale. Nel 2010 e 2009 negli Stati Uniti i profitti delle imprese erano cresciuti di 528 miliardi di dollari mentre in parallelo i salari erano cresciuti di meno di un terzo: 168 miliardi di dollari. Nello stesso periodo, in Germania i profitti delle imprese erano cresciuti di 113 miliardi di euro mentre i salari solo di 36. E in Inghilterra, addirittura i profitti erano cresciuti di 14 miliardi di euro mentre i salari erano diminuiti di 2. La vecchia economia della crescita continua, quando va in crisi tutela i ricchi attraverso rendite protette e relativamente poco tassate, e fa pagare il conto ai ceti medi e bassi. Mentre quanto riparte favorisce i già ricchi e lascia le briciole agli altri. E la vecchia economia, così come quella del secolo scorso alla fine degli anni '20, sta collassando soffocata dal peso di un capitale d'azzardo che, già nel 2008, valeva circa 2400 trilioni di dollari contro i 60 trilioni del PIL mondiale di quell'anno. Per ogni dollaro di economia reale quaranta dollari di scommesse speculative. Il capitale ingordo sta uccidendo sé stesso, in un paradosso per cui il denaro nel mondo non è mai costato così poco come ora, ma mai è stato così difficile ottenerne per lavorare e creare cose utili, vere, concrete. Ma questa economia della crescita continua ha prodotto anche un altro paradosso: quello di incrementare il PIL aumentando la diseguaglianza economica e sociale. Lo prova la crescita dell'indice di GINI in buona parte delle economie avanzate, così come in uno dei grandi protagonisti della globalizzazione, la Cina. Non solo, la vecchia economia premia sempre gli stessi: la mobilità sociale è in riduzione in molti paesi. La rendita (e le rendite di posizione familiari e patrimoniali) vincono sul merito e sul coraggio di chi ha solo l'intelligenza e la voglia di intraprendere dalla sua parte. Un bellissimo articolo pubblicato sull' Herald Tribune dello scorso 4 gennaio lo dice con grande chiarezza: il sogno americano di uscire dalla povertà nell'arco della propria vita, per raggiungere il benessere grazie all'intelligenza e al duro lavoro, è finito. Un americano che nasce povero ha il 70% di probabilità di morire povero. Mentre i paesi che danno a chi nasce povero la più elevata probabilità di raggiungere il benessere sono invece, un altro paradosso, proprio quei paesi Scandinavi che per anni abbiamo frettolosamente etichettato come "stati socialisti e assistenziali". E, guarda caso, quei paesi sono anche i luoghi in cui l'indice di GINI ha i valori più bassi (vale a dire società in cui la distribuzione del reddito è tra le meno diseguali). Tutti questi fatti, tutte queste evidenze, ci dicono che la vecchia economia non funziona più e che abbiamo bisogno di costruire un nuovo sistema economico. Che sia più giusto, più capace di premiare il merito e punire la rendita, e che non pregiudichi l'ambiente in cui viviamo consumando irresponsabilmente le risorse naturali. Per farlo, dobbiamo uscire dal paradigma della crescita continua per evolvere, usando le parole di un grande economista tedesco come Ernst Friedrich Schumacher il quale le scrisse già nel 1973, "verso un'economia della stabilità".
Un'economia della stabilità è un'economia che persegue prima di tutto l'equilibrio del sistema e la qualità della vita dei cittadini al suo interno, cercando di fare essenzialmente quattro cose sotto il profilo socio-economico: ridurre l'indice di GINI; aumentare il grado di mobilità sociale intragenerazionale (cioè la mobilità nell'arco di una vita); aumentare il tasso di occupazione; ridurre l'energia associata ad ogni punto di PIL prodotto (e dunque abbassare le emissioni di CO2). Questo è il nuovo modello a cui tendere. Un modello nel quale l'eventuale crescita è solo una subordinata e non un obiettivo a cui puntare. E che, se del caso, si deve generare soltanto grazie ad incrementi di produttività derivanti dall'innovazione e da un'imprenditorialità diffusa. Non certo grazie ad incrementi inflattivi dei fatturati delle imprese determinati dallo sfruttamento di rendite di posizione o di mercati a bassa concorrenza. Non è quanto si cresce, ma come, eventualmente, si cresce, a fare la differenza. Il danno fatto degli apostoli della crescita in questi ultimi anni risiede prima di tutto nel fatto di avere affermato una visione acritica dell'aumento del PIL, che non distingue tra aumenti viziosi e improduttivi di PIL (come sono appunto quegli aumenti di fatturato ottenuti dalle imprese che incrementano il prezzo della benzina approfittandosi della bassa concorrenza) da un lato, e gli aumenti virtuosi e produttivi di PIL (come sono i nuovi fatturati generati dalle, ahimè poche start-up italiane nei settori ad alta tecnologia) dall'altro. In una sorta di ossessione collettiva per il +%, in questi anni ci siamo dimenticati della qualità del PIL. E guardando troppo all'incremento, ci siamo scordati del suo intero. Come mai? Perché lo spauracchio della "crescita zero", agitato ad arte da una finanza debordante, prepotente e incosciente (come non guardare, invece, alle enormi scommesse speculative che, oggi, sono immesse nel sistema con un rapporto di almeno 1 a 40 sull'economia reale, e che sono un rischio sistemico ben più grave di una crescita zero), ci ha impedito di puntare lo sguardo nella direzione del vero obiettivo. Che non è la quantità del PIL ma la sua qualità. Il punto non è fare di più, ma fare di meglio. Occorre uscire da questa vecchia economia della crescita continua e della finanza ipertrofica che produce diseguaglianza e crisi socio-economiche violente e ricorrenti, e creare un'economia della stabilità che produce eguaglianza e benessere diffuso. Per farlo, dobbiamo definire gli obiettivi fondamentali di questa nuova economia. Ho provato a riassumerli qui di seguito, in un'ideale contrapposizione con quella vecchia. E questa contrapposizione lascio al giudizio dei lettori, invitandoli a schierarsi dall'una o dall'altra parte...

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