Jack London, nel suo libro "Il tallone di ferro" oltre un secolo fa, scriveva "(...)
La società è divisa in tre grandi classi. Prima fra tutte è la
plutocrazia, composta dai ricchi banchieri, dai magnati delle ferrovie,
dai direttori delle grandi società e dai magnati dei trust; la seconda,
la borghesia, la vostra, signori, comprende i grandi professionisti.
Infine, la terza e ultima, la mia classe, il proletariato, formato dai
lavoratori salariati. (...) Sul numero totale delle persone soltanto lo
zero nove per cento appartiene alla plutocrazia; eppure la plutocrazia
possiede il settanta per cento della ricchezza totale. La borghesia
dispone di ventiquattromiliardi e gode del venticinque per cento della
ricchezza totale. Resta il proletariato. Di tutte le persone che
svolgono un lavoro, il
settanta per cento appartiene al proletariato, che possiede solo il
quattro per cento della ricchezza totale. Da quale parte sta il potere,
signori?".
Sembra oggi, ma era il 1905. La nostra economia è vecchia
prima di tutto perché è sostanzialmente identica, negli squilibri
relativi alla distribuzione della ricchezza e negli squilibri di potere a
questa associati, all'economia di oltre un secolo fa. Con la sola
differenza che allora i lavoratori salariati erano in gran parte formati
da operai, mentre oggi sono formati da impiegati. Ma con la stessa
preoccupante tendenza a sottopagare il lavoratore medio e a strapagare i capi. Basti pensare come negli Stati Uniti si sia passati da un rapporto di circa 20 volte tra lo stipendio medio di un salariato e
il CEO della stessa azienda, ad un rapporto di oltre 400 volte. Né fa eccezione a questo principio l'Europa che, pur se su rapporti inferiori, vede costantemente aumentare questo tipo di disparità anche durante gli anni di crisi.
L'attuale
economia, così come quella di un secolo fa, retribuisce poco il lavoro e
premia molto, troppo, i detentori di capitale. Nel 2010 e 2009 negli
Stati Uniti i profitti delle imprese erano cresciuti di 528 miliardi di dollari mentre in parallelo i salari erano cresciuti di meno di un terzo: 168 miliardi di dollari.
Nello stesso periodo, in Germania i profitti delle imprese erano
cresciuti di 113 miliardi di euro mentre i salari solo di 36. E in
Inghilterra, addirittura i profitti erano cresciuti di 14 miliardi di
euro mentre i salari erano diminuiti di 2. La
vecchia economia della crescita continua, quando va in crisi
tutela i ricchi attraverso rendite protette e relativamente poco
tassate, e fa pagare il conto ai ceti medi e bassi. Mentre
quanto riparte favorisce i già ricchi e lascia le briciole agli altri. E
la vecchia economia, così come quella del secolo scorso alla fine degli
anni '20, sta collassando soffocata dal peso di un
capitale d'azzardo che, già nel 2008, valeva circa 2400 trilioni di
dollari contro i 60 trilioni del PIL mondiale di quell'anno. Per ogni
dollaro di economia reale quaranta dollari di scommesse speculative. Il capitale ingordo sta uccidendo sé stesso,
in un paradosso per cui il denaro nel mondo non è mai costato così poco
come ora, ma mai è stato così difficile ottenerne per lavorare e creare
cose utili, vere, concrete. Ma questa economia della crescita continua
ha prodotto anche un altro paradosso: quello di incrementare il PIL aumentando la diseguaglianza economica e sociale. Lo prova la crescita dell'indice di GINI in buona parte delle economie avanzate, così come in uno dei grandi protagonisti della globalizzazione, la Cina. Non solo, la vecchia economia premia sempre gli stessi: la mobilità sociale è in riduzione in molti paesi.
La rendita (e le rendite di posizione familiari e patrimoniali) vincono
sul merito e sul coraggio di chi ha solo l'intelligenza e la voglia di
intraprendere dalla sua parte. Un bellissimo articolo pubblicato sull' Herald Tribune dello scorso 4 gennaio lo dice con grande chiarezza: il sogno americano di uscire dalla povertà nell'arco della
propria vita, per raggiungere il benessere grazie all'intelligenza e al duro lavoro, è finito. Un americano che nasce povero ha il 70% di probabilità di morire povero.
Mentre i paesi che danno a chi nasce povero la più elevata probabilità
di raggiungere il benessere sono invece, un altro paradosso, proprio quei paesi Scandinavi
che per anni abbiamo frettolosamente etichettato come "stati socialisti
e assistenziali". E, guarda caso, quei paesi sono anche i luoghi in cui
l'indice di GINI ha i valori più bassi (vale a dire società in cui la
distribuzione del reddito è tra le meno diseguali). Tutti questi fatti,
tutte queste evidenze, ci dicono che la vecchia economia non funziona più e che abbiamo bisogno di costruire un nuovo sistema economico. Che sia più giusto, più capace di premiare il merito e punire la rendita, e che non pregiudichi l'ambiente in cui viviamo
consumando irresponsabilmente le risorse naturali. Per farlo, dobbiamo uscire dal paradigma della crescita continua per evolvere, usando le parole di un grande economista tedesco come Ernst Friedrich Schumacher il quale le scrisse già nel 1973, "verso un'economia della stabilità".
Un'economia della stabilità è un'economia che persegue prima di
tutto l'equilibrio del sistema e la qualità della vita dei cittadini al
suo interno, cercando di fare essenzialmente quattro cose sotto
il profilo socio-economico: ridurre l'indice di GINI; aumentare il
grado di mobilità sociale intragenerazionale (cioè la mobilità nell'arco
di una vita); aumentare il tasso di occupazione; ridurre l'energia
associata ad ogni punto di PIL prodotto (e dunque abbassare le emissioni
di CO2). Questo è il nuovo modello a cui tendere. Un modello nel quale
l'eventuale crescita è solo una subordinata e
non un obiettivo a cui puntare. E che, se del caso, si deve generare
soltanto grazie ad incrementi di produttività derivanti dall'innovazione
e da un'imprenditorialità diffusa. Non certo grazie ad incrementi
inflattivi dei fatturati delle imprese determinati dallo sfruttamento di
rendite di posizione o di mercati a bassa concorrenza. Non è quanto si cresce, ma come,
eventualmente, si cresce, a fare la differenza. Il danno fatto degli
apostoli della crescita in questi ultimi anni risiede prima di tutto nel
fatto di avere affermato una visione acritica dell'aumento del PIL,
che non distingue tra aumenti
viziosi e improduttivi di PIL (come sono appunto quegli aumenti di
fatturato ottenuti dalle imprese che incrementano il prezzo della
benzina approfittandosi della bassa concorrenza) da un lato, e gli
aumenti virtuosi e produttivi di PIL (come sono i nuovi fatturati
generati dalle, ahimè poche start-up italiane nei settori ad alta
tecnologia) dall'altro. In una sorta di ossessione collettiva per il +%, in questi anni ci siamo dimenticati della qualità del PIL.
E guardando troppo all'incremento, ci siamo
scordati del suo intero. Come mai? Perché lo spauracchio della "crescita
zero", agitato ad arte da una finanza debordante, prepotente e
incosciente (come non guardare, invece, alle enormi scommesse
speculative che, oggi, sono immesse nel sistema con un rapporto
di almeno 1 a 40 sull'economia reale, e che sono un rischio sistemico
ben più grave di una crescita zero), ci ha impedito di puntare lo
sguardo nella direzione del vero obiettivo. Che non è la quantità del PIL ma la sua qualità. Il punto non è fare di più, ma fare di meglio. Occorre
uscire da questa vecchia economia della crescita continua e della
finanza ipertrofica che produce diseguaglianza e crisi socio-economiche
violente e ricorrenti, e creare un'economia della stabilità che produce
eguaglianza e benessere diffuso. Per farlo, dobbiamo definire gli obiettivi fondamentali di questa
nuova economia. Ho provato a riassumerli qui di seguito, in un'ideale contrapposizione
con quella vecchia. E questa contrapposizione lascio al giudizio dei
lettori, invitandoli a schierarsi dall'una o dall'altra parte...
Fonte.
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