La Sicilia ha appena vissuto uno dei periodi più pregnanti degli ultimi anni. Cinque giornate di rivolta
capeggiate dal movimento agricolo dei Forconi e dalla cordata Forza
d’urto, trainata dai camionisti, con la partecipazione di pescatori,
artigiani, e lavoratori di altri settori strozzati dalla crisi. Ora non
resta che cercare di tirare le fila di quanto accaduto, senza però
distogliere lo sguardo dall’isola. Lo facciamo con Francesco Forgione,
giornalista, scrittore e professore di storia, ex deputato di
Rifondazione Comunista all’Assemblea regionale siciliana e ora esponente
dell’Assemblea nazionale di Ecologia e Libertà. Forgione è stato anche
presidente della Commissione parlamentare antimafia.
Innanzitutto
evitiamo qualsiasi riferimento storico ai Vespri o ai Fasci siciliani,
che sono stati episodi importantissimi quanto particolari e legati a
quei momenti storici ben definiti. Quello che sta vivendo la Sicilia
adesso è tutt’altra cosa. Questa è una protesta che ha diverse facce. Da
un lato agisce su un malessere sociale vero e sul fallimento politico
delle classi dirigenti siciliane e nazionali verso il sud. Dall’altro
però è la strumentalizzazione di settori corporativi e anche inquinati
della società siciliana che intervengono su questo malessere e gli danno
una rappresentanza. Gli danno una rappresentanza anche nel vuoto della
politica e nell’incapacità della politica di dare sbocchi, alternative a
quel che è stato il cuffarismo, a quel che è il lombardismo, che altro
non è che una trasposizione modernizzata del cuffarismo,
all’interno del quale è stato cooptato anche il Partito democratico.
Questa è la chiave di lettura politica di quanto sta avvenendo. Non è un
caso che alla testa della rivolta ci siano gli stessi protagonisti
della rivolta del Duemila, che partì sempre dai camionisti contro il
costo della benzina e del petrolio. I protagonisti sono sempre gli
stessi e il presidente dell’Associazione imprese auto-trasportatori
siciliani (Aias) è sempre lo stesso, Giuseppe Richichi, il quale agita
l’antipolitica nel momento in cui è a capo della rivolta, poi si fa
riassorbire dalle dinamiche di scambio politico. Così fece nel 2000:
capeggiò la rivolta per poi andare ad appoggiare Lombardo, tirandosi
dietro tutti. Non a caso il grosso della rivolta è nella Sicilia
orientale, nell’area fra Catania, Siracusa e Ragusa, che è l’area lombardiana, mentre nel resto della regione gli effetti sono di rimbalzo.
Ma dietro i tentativi di strumentalizzazione, il malessere resta. No?
Che poi ci sia un malessere vero, non lo si può negare. Il fatto che a
questa protesta dei camionisti si uniscano le marinerie, che sono
affamate anche per alcune norme folli dell’Unione Europea che sta
uccidendo la piccola e media marineria, questo è indubbio. Ma il
problema delle marinerie non sta rinchiuso solo nel caro-gasolio per
barche e pescherecci, è proprio una politica dell’Ue che in questi anni,
facendosi scudo anche con manovre necessarie di salvaguardia ambientale
e della fauna marina, ha favorito le grandi imprese multinazionali
statunitensi e giapponesi che ormai sono quelle che più di altre
scorrazzano nel Mediterraneo. Ci sono varie facce da analizzare, senza
farcene innamorare politicamente.
Ci sono dunque parti contrapposte nella protesta, come i
camionisti da una parte e i contadini e i pescatori dall’altra. E questi
ultimi nel quotidiano subiscono economicamente le decisioni dei
padroncini senza potersi rivoltare.
Esatto. I piccoli agricoltori sono strozzati dalla grande
distribuzione agricola e alimentare. Sono battaglie storiche quelle che
si fanno a Pachino. Un chilo di pomodirini esce a 10-20 centesimi e lo
ritrovi sui mercati di Roma o di Milano a 3-4 euro. Ma nessuno ha la
forza di mettere in discussione questi circuiti agro-alimentari che
hanno favorito la grande distribuzione, anche commerciale, a scapito dei
piccoli. Per questo il rischio è di creare, con queste proteste, una
miscela che può dar vita a un nuovo blocco sociale indistinto nel quale
anche alcune spinte criminali possono conviverci tranquillamente. E mi
attengo alle cose dette dal procuratore Piero Grasso. Non c’è dubbio che
tutto il settore del trasporto su gomma è stato un settore fortemente
condizionato dalla mafia in questi anni. Tutto il settore della
distribuzione agroalimentare lo è stato. Si tratta di settori in cui la
mafia è sempre intervenuta. Di dire però che questa protesta è guidata
dalla mafia non me la sento. In questa protesta c’è tutto e il contrario
di tutto.
Cosa deve fare, ora, la politica per rimediare a anni di sbagli e inefficienza?
In questi anni c’è stato un grande abbaglio politico, ideologico e
culturale, cioè il primato della questione Settentrionale imposto dalla
Lega Nord, che lo ha trasformato poi in un’agenda politica alla quale il
governo Berlusconi è stato subalterno, che ha cancellato la questione
del Mezzogiorno, della sua autonomia e del suo modello di sviluppo.
Invece che ragionare sul modello di sviluppo del Mezzogiorno – e questo
bisogna dirlo anche al centrosinistra – l’unica idea che si è avuta per
il sud mentre franava, mentre il messinese si allagava, mentre la
marineria si impoveriva, mentre i beni culturali cadevano, è stata il
miraggio del ponte sullo Stretto. Un’idea tesa ad alimentare un blocco
di interessi, costruito sul cemento e sulle grandi opere, che è già
fallito non solo per le devastazioni ambientali che ha prodotto, ma per
la loro incidenza sullo sviluppo reale del mezzogiorno. Si tratta di un
ragionamento interamente da capovolgere. Bisognava valorizzare le
risorse e sulla base di quelle risorse contrattare con l’Unione Europea.
Oggi invece l’Ue viene considerata solo una controparte e un nemico. E
questo è colpa della politica e soprattutto della sinistra, che ha
lasciato un vuoto assoluto. Non ha avuto autonomia nell’individuare i
nessi fra la politica e il modello sociale ed economico. Per questo
quando la protesta è esplosa lo ha fatto più per spinte corporative che
per idee alternative sulle quali aprire una vertenza sociale ed
economica con governo centrale e Ue. E per questo, queste proteste non
vanno criminalizzate, vanno capite senza né cavalcarle, né screditarle
dicendo che è tutta mafia.
Fonte.
Dalle parole di Forgione, mi pare si possa affermare con una certa sicurezza che le cinque giornate che hanno infuocato la Sicilia siano l'ennesimo teatro socio culturale in cui la sinistra italiana (parlamentare e non) ha perso.
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