Professori delle tre carte. Dopo aver a lungo menato la danza della
«riforma del mercato del lavoro», che doveva però andare «di concerto
con la rimodulazione degli ammortizzatori sociali», addirittura
vellicando sogni europei come il «reddito di disoccupazione», il governo
ha mostrato la faccia feroce di chi - dei senza lavoro perché le
aziende chiudono - sostanzialmente se ne infischi. O peggio.
Vediamo i
dettagli. Il governo ha messo sul tavolo «i titoli» - come si dice in
gergo - di cinque capitoli contenenti le linee guida del progetto
governativo: tipologie contrattuali, formazione e apprendistato,
flessibilità, ammortizzatori sociali, servizi all'impiego. Ma solo di
alcuni si è appreso qualcosa di attendibile. Al momento di entrare a
palazzo Chigi il ministro del welfare Elsa Fornero aveva spiegato che
nella riforma ci sarebbe stato anche uno «schema di reddito minmo».
Peccato che «richiede risorse ora non individuabili», e quindi verrà
approvata ma «l'applicazione sarà dilazionata». Insomma: una riga di
inchiostro su carta, non un diritto esigibile.
Ma questa era anche
l'unica «buona notizia». Per «riforma» degli ammortizzatori sociali -
cassa integrazione e mobilità - il governo intende la loro sostanziale
cancellazione. Oggi abbiamo tre tipi di cassa integrazione. L'ordinaria
(per imprese industriali ed edilizia) entra in azione per sospensione
dell'attività produttiva, può durare fino a un anno, con l'80% del
salario, pagata dai contributi di aziende e lavoratori. La
straordinaria, invece, scatta anche per altri tipi di imprese (editrici,
commercio, trasporto aereo, ecc) e copre le crisi aziendali vere e
proprie: ristrutturazione, riconversione, riorganizzazione, crisi e
«procedure concorsuali» (fallimento o liquidazione). Può durare anche 24
mesi (36 al centro, 48 al sud) ed è egualmente finanziata da imprese e
lavoratori. Quella in deroga, infine, è stata introdotta da Sacconi per
coprire - nella crisi - anche quei settori che non usufruivano delle
prime due forme; copre anche apprendisti, interinali, ecc, ma è a carica
della fiscalità generale dello Stato.
A seguire c'è anche la
mobilità, al 60% del salario, dalla durata variabile a seconda dell'età
del lavoratore o del territorio di residenza. Una serie di salvagenti
straordinari - pensati per aiutare le imprese, non tanto i lavoratori -
che si sono però rivelati preziosi in questi anni di crisi per evitare
di avere milioni di disoccupati per strada. E relativi problemi sociali.
Cosa
hanno pensato i geniali «tecnici» scelti dall'alto dei cieli europei?
Che è meglio ridurre tutto a una sola forma: l'ordinaria, con durata 52
settimane. Anche se l'azienda chiude. Poi «si pensa» a «un'indennità
risarcitoria» o al «rafforzamento del sussidio di disoccupazione». Per
cui, «purtroppo», non ci sono soldi. Quindi non esiste il sussidio...
Facile previsione: nel solo 2012, avremo tra i 300 e i 500mila
disoccupati in più. E non un solo posti di lavoro nuovo.
Essere presi
per i fondelli non è simpatico, ma i «professori» sono stati capaci di
andare oltre. Può essere ammesso, ma non concesso che il lavoro
flessibile (ci si riferisce all'insieme dei 48 contratti precari, ma in
modo «dolce e suadente») possa essere reso più caro, invece che abolito.
E che l'incentivo alla «stabilizzazione» del rapporto di lavoro sia
affidato alla defiscalizzazione degli oneri contributivi. Certo, per una
schiera di ministri che ripete continuamente di voler creare
«opportunità per i giovani» sarebbe più coerente se prevedesse una
drastica eliminazione di quei contratti, lasciando alla «stagionalità» i
mestieri di bagnino e di maestro di sci.
Ma è il terzo pilastro
della struttura illustrata ieri i punto più preoccupante: il contratto
calibrato sul ciclo di vita. Se siete abituati a diffidare delle formule
verbali fantasiose, fate bene a preoccuparvi. Il ministro Fornero è
stata parca di contenuti e ricca di immagini: «serve un contratto che
evolve con l'età», «piuttosto che contratti nazionali specifici che
evolvono per ogni età». La sovrabbondanza di riferimenti
all'«evoluzione» suggerisce la scomparsa di meccanismi contrattuali
certi e validi per tutti. Ai tre anni del «contratto di ingresso» - una
sorta di apprendistato, ma senza godere di alcun diritto (a parte un
«risarcimento» proporzionale alla durata del lavoro) - seguirebbe non
l'attuale «contratto a tempo determinato» ma una sorta di terra di
nessuno. Bisognerebbe infatti capire fino a quale età si può essere
assunti con l'«ingresso», perché per un 50enne sarebbe una presa in giro
eccessiva.
Nell'insieme, dunque, scompare la «norma contrattuale
nazionale» - il principio giuridico dell'egualianza di trattamento - e
viene adombrato il «contratto su misura». Berlusconi, nel 2001, ci aveva
fatto un pensierino, chiamandolo «contratto Internet» o individuale.
Poi ripigò sul più casareccio «lavoretto».
Ma, almeno, tutta questa
storia ha fatto accantonare la fissazione per l'art. 18? Ma quando mai.
Il premier è stato chiaro: «non può essere un tabù». Per chi è abituato
alla logica, vedendo che il governo presenta le proprie proposte come
immodificabili, diventa chiaro che i «tabù» sono esattamente i bersagli
che si prefigge di colpire.
Fonte.
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