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24/01/2012

Il gattopardo libico

Cambiare tutto perché nulla cambi davvero. Questo potrebbe essere il titolo del racconto della visita del primo ministro italiano Mario Monti in Libia, il 21 gennaio scorso. Ancora una volta, come accade da più di cento anni, la ‘quarta sponda’ del Mediterraneo per i governi di Roma è solo un affare.
Un contratto, l’ennesimo. Questa volta si chiama Tripoli Declaration, tre anni e mezzo fa si chiamava Trattato di Amicizia, firmato a Bengasi, dal governo Belusconi. Ecco, nel mezzo è accaduto di tutto. Il colonnello Gheddafi, dopo quaranta anni al potere, è stato spodestato e assassinato. Silvio Berlusconi, dopo un ventennio, messo da parte (fino a una nuova rinascita?). I leader adesso si chiamano Monti, grigio professore della Bocconi, e il primo ministro libico Abdel Rahim al Qeeb.
Monti non ha idea di quanto durerà il suo governo, al Qeeb dovrebbe traghettare il Paese fino alle elezioni di giugno. In un quadro, però, che si complica sempre di più. Mentre Monti e al Qeeb si incontravano all’hotel Rixos di Tripoli, infatti, Muṣṭafā ʿAbd al-Jalīl, leader del Consiglio Nazionale di Transizione che ha guidato l’insurrezione, è stato messo in salvo dalle guardie del corpo perché a Bengasi lo stavano linciando. ”Senza il Cnt la Libia scivolerebbe nella guerra civile”, ha dichiarato oggi – 23 gennaio 2012 – il turbato Jalil, ma pare l’unico che non lo sapeva. Anche perché la guerra civile, ci potrebbe essere anche con il Cnt.
I veterani della rivoluzione vogliono il potere. Tutto qua. Solo che sono divisi e armati fino ai denti. Ecco che il governo Monti non aveva un interlocutore credibile, tanto quanto potrebbe dire lo stesso al Qeeb, visto che l’Italia potrebbe andare alle urne in primavera come nel 2013. Per altro, il primo ministro al Qeeb ha ben altro a cui pensare, visto che oggi 23 gennaio 2012 si è registrato il primo assalto in piena regola dei vecchi lealisti al nuovo governo. Almeno 4 morti e 20 feriti a Bani Walid, abbandonata al suo destino.
Un trattato importante, allora, diventa un mero ‘compromesso’ di accordo definitivo. Un paletto, che Roma ha voluto puntellare rispetto alle folate britanniche e francesi, che sulla questione Libia si sono mosse con scaltrezza e rapidità. Non a caso la ‘primavera araba’ libica è l’unica che ha spinto la sua brezza fino a Parigi e Londra, coinvolgendo la Nato. Perché si parla di un mare di petrolio.
Monti, non a caso, il 21 gennaio è arrivato a Tripoli un’ora dopo il vero leader, quello più atteso: l’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni. ”Siamo ai livelli di produzione di gennaio 2011”, dichiara tronfio l’ad del gigante petrolifero italiano. Questo era importante, il resto no. Monti a al Qeeb dovevano solo limitarsi a sancirlo questo rapporto economico che, per ora, non taglia fuori l’Eni e le altre aziende italiane. Che si impegna a costruire asili e scuole, come ha promesso in altri paesi. Senza farlo.
Delusi coloro che si aspettavano dal primo ministro Monti un moto di civiltà rispetto alla parte più becera del Trattato firmato da Berlusconi: i respingimenti. Esseri umani ributtati nelle braccia dei trafficanti, collusi con la polizia libica, tra violazioni feroci dei diritti umani. E nessuna parola sui 7mila detenuti politici, ritenuti fedeli a Gheddafi, che Amnesty International continua a reclamare nei tribunali per processi rispettosi dei diritti umani. Per tutto questo bisognerà aspettare un governo libico credibile o un governo italiano che abbia una visione più profonda di quella delle banche.

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