Non è stato propriamente un fulmine a ciel sereno. Le pressioni si erano
già accentuate negli ultimi mesi e forse non è una coincidenza che il
caso si sia aperto proprio a ventiquattr’ore dallo sciopero telematico
internazionale contro il SOPA (Stop Online Piracy Act), provvedimento in
discussione al Congresso statunitense proprio in questi giorni. Un
colpo ad effetto da parte di FBI e Dipartimento di Giustizia era insomma
nell’aria.
Ma la notizia dell’oscuramento di Megavideo/Megaupload e il conseguente
arresto del suo fondatore, Kim Schmitz, e dei suoi stretti collaboratori
è un deciso salto di qualità nello scontro ormai più che decennale in
merito alla diffusione gratuita in rete di materiale protetto da
copyright.
Anche perché i reati contestati sono pesantissimi: associazione a
delinquere finalizzata all’estorsione, al riciclaggio e alla violazione
del diritto d’autore. Reati per cui si rischia fino a 50 anni di
prigione, non esattamente uno scherzo.
Per trovare un episodio di pari entità dobbiamo risalire alla genesi di
questo conflitto, nel luglio 2001, quando un giudice americano stabilì
la parziale chiusura di Napster, primo sistema di massa per lo scambio
peer-to-peer (cioè tra computer equivalenti) di contenuti multimediali.
Una decisione che non ebbe gli effetti desiderati dalle Major, perché lo
scontro non fece che spostarsi e le alternative a Napster proliferarono
nell’arco di brevissimo tempo: Gnutella, Emule, DC++, BitTorrent solo
per fare alcuni esempi.
Megavideo/Megaupload, sito per la condivisione dei file in rete, può
essere visto come uno degli ultimi terreni dello scontro che vede
schierati da una parte le Major discografiche e cinematografiche e
dall’altra milioni di utenti di tutto il mondo. Sarebbe errato infatti
pensare a quella che comunque è un’azienda dal fatturato di oltre 100
milioni di dollari come al vero obiettivo della giustizia statunitense.
Megavideo offre semplicemente un servizio di condivisone file, non
necessariamente illegali. Anzi, la gran parte dei file che ospita non
violano alcuna norma sul copyright. Sono gli utenti stessi ad averlo
scelto come roccaforte e campo di battaglia privilegiato, come
dimostrano le classifiche pubblicate oggi dal Washington Post (13° tra i
siti più visitati al mondo).
D’altronde di siti che permettono il cosiddetto file sharing ce ne sono a
centinaia, idem dicasi per i siti di streaming, cioè quelli in cui è
possibile visualizzare contenuti audiovisivi in tempo reale.
Basta leggere il comunicato del Dipartimento di Giustizia (http://www.justice.gov/opa/pr/2012/January/12-crm-074.html)
per capire quale sia il vero scopo dell’operazione: l’azienda viene
accusata di non aver reso pubblici gli utenti colpevoli di violazioni,
di non averli estromessi dal sito e di aver quindi incentivato la
diffusione illegale di contenuti protetti da copyright.
Il vero obiettivo sono ovviamente gli utenti stessi, accusati di
sottrarre oltre 500 milioni di dollari di profitto alle Major americane,
e non tanto Megavideo/Megaupload.
Tuttavia il dato, che in termini assoluti sembra decisamente
significativo, se comparato ai profitti delle major appare ai limiti
della rilevanza. Solo la Warner Bros fattura oltre 5 miliardi di dollari
l'anno, stessa cosa dicasi per la Paramount - 5,17 miliardi nel 2011 – e
poco più in basso troviamo Columbia e Universal. Questo solo per quel
che riguarda l'industria del cinema.
500 milioni di dollari divisi principalmente tra il settore
cinematografico e quello musicale non sembrano gravare in termini così
rilevanti, soprattutto per quanto riguarda le produzioni di massa (altro
discorso andrebbe fatto sulle piccole produzioni). Ma allora perché
questa guerra senza esclusione di colpi alla libera diffusione?
Principalmente per due motivi: il primo, relativo alla fase economica,
riguarda la crisi che sta attraversando il pianeta. In una fase del
genere non esiste margine di profitto che non vada sfruttato.
Ma soprattutto la guerra è dichiarata all'atto stesso e al suo
significato: la libera diffusione mette in discussione la proprietà di
merce di alcuni prodotti, li sottrae, anche se in parte minima, al
circuito di valorizzazione dei capitali a favore di un patrimonio
collettivo e questo risulta assolutamente inaccettabile, al di là delle
cifre che al momento coinvolge o della quantità effettiva di profitto
che al momento sottrae.
Il problema non è recuperare quei 500 milioni di dollari, ma il concetto
che tutto è merce e nulla può essere ottenuto se non attraverso uno
scambio di valore. Per questo l'obiettivo reale dell'attacco sono
anzitutto gli utenti che vanno a comporre questo patrimonio collettivo.
Infatti la reazione di questi ultimi non si è fatta certo attendere. In
rete la protesta è montata in un lampo: su Twitter #megaupload è balzato
subito tra le primissime posizioni, centinaia di migliaia di messaggi
di protesta si sono susseguiti – e lo fanno tuttora - ma soprattutto
c’è chi è passato ad una vera e propria controffensiva, seppur
solamente simbolica.
In nottata infatti è partita l’ “Operazione Megaupload”: il sito del
Dipartimento di Giustizia, così come quello della Universal e di due
associazioni delle case di produzione, la Recording Industry Association
of America e la Motion Picture Association of America, sono stati resi
irraggiungibili. L’azione è stata rivendicata dal collettivo Anonymous,
trovando larghissimo consenso tra gli utenti della rete.
Dopo nemmeno ventiquattro ore già il dubbio si insinua: ma non si
rischia che questa operazione si trasformi in un micidiale boomerang
contro chi l'ha lanciata?
Fonte.
Un'interessante punto di vista sul caso Megaupload, soprattutto per la chiave di lettura che ne fornisce pur senza giungere ad una meta a mio modo di vedere fondamentale, ovvero la radicale revisione del concetto di diritto d'autore, che attualmente, possiede la sola finalità di limitare la circolazione della conoscenza.
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