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27/01/2012

Lavoro, la flessibilità non produce crescita

A che punto è la riforma del lavoro? L’impressione è che dopo il primo giro di consultazioni il governo abbia assunto una posizione attendista. Eppure le ultime notizie ci descrivono un Paese che sembra avere già tirato i remi in barca, trasmettono un senso di urgenza.
L’Istat ha per esempio rivelato che a dicembre 2011 la forbice tra l’aumento delle retribuzioni contrattuali orarie (+1,4 per cento) e il livello d’inflazione (+3,3 per cento) ha registrato il divario più alto dall’agosto del 1995. E anche se si considera tutto l’anno appena trascorso, la differenza tra quanto costa la vita e quanto si guadagna è la più grande dal ’95. Vivere costa sempre di più.
Nel frattempo, il Primo presidente della Cassazione Ernesto Lupo ha reso noto che tra il 2010 e il 2011 sono aumentate le controversie del pubblico impiego (+21,5 per cento), le istanze di fallimento (+11,6 per cento) e le procedure esecutive immobiliari (+8,7 per cento), “sintomo indicativo della crisi economica che coinvolte l’Italia”.
E un sondaggio contenuto nel Rapporto Italia 2012 pubblicato dall’Eurispes, rivela che quasi il 60 per cento dei giovani tra 18 e 24 anni, seguiti a poca distanza dai 25-34enni, si dice disposta, oggi, ad intraprendere un progetto di vita all’estero, adducendo come principale motivazione “le maggiori opportunità lavorative”.
Chiediamo a Giorgio Lunghini, professore ordinario in Economia Politica presso lo IUSS-Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia, un ragionamento di ampio respiro sul rapporto tra la situazione reale del Paese e la discussione in corso.

Partiamo dall’articolo 18.
La discussione sull’articolo 18 non è fondamentale, perché riguarda poche imprese, dato che la maggior parte ha meno di 15 dipendenti.
La mia impressione è che si tratti di un modo per introdurre un ulteriore elemento di flessibilità il che, nelle condizioni attuali dell’Italia, sarebbe un errore sia teorico sia pratico. Più flessibilità significa bassi salari e disoccupazione, e così non si crea crescita, il vero punto qualificante di un’eventuale riforma. La crescita è determinata dalla domanda per i consumi e per gli investimenti. Ma se i redditi reali decrescono e le imprese non investono, non c’è domanda.

Se la questione più importante non è la flessibilità, che valore dare a una proposta come il contratto unico d’inserimento?
Ho il sospetto che anche il Cui, di cui per ora si sa poco, sia esclusivamente un elemento di flessibilità, soprattutto per la dilatazione dei tempi di inserimento che implica. Il problema reale sono i lunghi periodi di disoccupazione tra un lavoro e l’altro, per cui ci vorrebbe uno stato sociale in grado di garantire un reddito ai giovani e ai meno giovani durante i periodi di non lavoro. Dico “meno giovani” perché ormai restano a casa anche i 40-50enni.
Un altro problema è che in Italia esistono 40 forme di contratto precario, mentre in un Paese civile ne basterebbero tre: a tempo indeterminato; a tempo determinato; di apprendistato. Qualsiasi imprenditore degno di tal nome sarebbe d’accordo con me.

Si parla di spostare le tutele dal lavoro alla società.
Non è possibile farlo finché le risorse pubbliche non sosterranno i disoccupati.
Parlo di risorse pubbliche perché le imprese non fanno da anni il loro lavoro, cioè produrre crescita. Non sono all’altezza. In assenza dell’attività privata, è quindi lo Stato che deve pensare alla crescita del Paese, valorizzando le imprese pubbliche invece che privatizzarle e investendo in ricerca.
Per farlo, ci vogliono i soldi e il bilancio dello Stato è una faccenda seria. Per cui le risorse vanno trovate nelle tasche di chi non ha pagato finora. Ma politiche serie contro l’evasione fiscale non sono mai state fatte e poi in Italia manca una reale progressività delle imposte: l’aliquota massima è del 43 per cento, chi prende sopra i 75mila euro paga sempre e solo quella percentuale, a prescindere dal reddito effettivo. Infine si potrebbero tagliare molte spese che incidono sul bilancio dello Stato, come i trasferimenti alle imprese, e trasferirli ad altre voci. Così facendo si potrebbe mantenere il bilancio in pareggio e lo Stato potrebbe tornare a investire. Cioè a produrre crescita.

Fonte.

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