Le elezioni in Iran del 2 marzo scorso per l’elezione del nuovo Parlamento (Maijlis)
di Teheran si sono svolte senza incidenti. Questo passaggio era atteso
per capire cosa potrebbe accadere adesso rispetto alle relazioni con
Israele, Usa e Unione europea. E – il mensile ha chiesto il
parere di Anna Vanzan, iranista e islamologa, che attualmente insegna
Cultura islamica (IULM Milano) e Cultura Araba (Università di Milano),
oltre a collaborare con testate giornalistiche e programmi radiofonici
nazionali e esteri. E’ autrice anche dei libri Figlie di Shahrazàd, scrittrici iraniane dal XIX secolo a oggi, Le donne di Allah, viaggio nei femminismi islamici e La storia velata, donne dell’islam nell’immaginario italiano.
Secondo
la maggior parte dei media internazionali, il presidente iraniano
Mahmud Ahmadinejad è uscito sconfitto dalle urne, dove i candidati
vicini alla Guida Suprema Khamenei domineranno. Condivide questa lettura
del voto?
Si può dire di sicuro che questa Majlis
è ostile al presidente Ahmadinejad, anche perché era una vittoria
annunciata. Di tutte le liste ammesse al voto, solo una era favorevole
al presidente in carica. Per il quale si prepara un ultimo periodo da
presidente piuttosto difficoltoso. Avrà contro, più o meno, tre quarti
del parlamento.
Questo parlamento lo ritiene più o meno favorevole al dialogo con l’Occidente rispetto a quello vecchio?
Direi
più propenso al confronto, però con un segnale chiaro: la Guida Suprema
vuole avocare a sé la gestione di questo dialogo. Con l’idea di
sacrificarsi per il bene comune, come ha fatto finora: minacce alternate
a ritrattazioni, con una retorica pubblica inflessibile e un
pragmatismo di fatto. La retorica ufficiale si manterrà uguale, ma per
altre vie si punterà al dialogo.
Crede che cambierà qualcosa rispetto all’internazionalismo sciita e all’appoggio agli sciiti fuori dall’Iran?
Su
questo punto non credo che ci saranno grossi cambiamenti, perché questo
è stato un leit motiv fin dall’inizio della Rivoluzione. Nessuno l’ha
mai sconfessato, a cominciare dall’appello di Khomeini agli sciiti
iracheni (al tempo della guerra tra Iran e Iraq 1980-1988 ndr)
perché si sollevassero contro Saddam Hussein, fino all’appoggio
ammantato di motivi religiosi, anche se ne nascondono altri, alla
rivolta in Bahrein e agli stretti rapporti odierni con tutte le comunità
sciite in Iraq. Credo che questa strategia non verrà minimamente
ridimensionata, anzi verrà incrementata. Il problema sarà proprio il
ruolo del presidente, considerando gli appoggi di cui gode Ahmadinejad,
ad esempio al ministero degli Interni di Teheran e in gran parte delle
forze armate. Ahmandinejad, per altro, è tutto tranne che uno
sprovveduto, come viene spesso dipinto in Occidente. Farà appello alle
sue risorse, di sicuro, e questo vuol dire che i prossimi diciotto mesi
non saranno facili. Anche perché Ahmadinejad è molto giovane e non vorrà
uscire di scena senza colpo ferire nell’estate 2013. Senz’altro deve
inventarsi qualcosa per restare ai vertici della politica iraniana.
Sarà interessante vedere che strategia seguirà e su quale tipo di
alleanze punterà dopo questa batosta.
Secondo lei, a Washington e in Israele, devono essere soddisfatti del risultato elettorale?
Rispetto
agli israeliani il risultato elettorale li lascia indifferenti. Loro,
ormai, hanno una loro agenda che stanno perseguendo comunque, al di là
di quello che Teheran dice o fa. Sul discorso del nucleare non sono mai
stati accolti i tentativi di mediazione di Turchia e Brasile, i falchi
in Israele stanno prendendo il sopravvento e non cambieranno la loro
agenda, anche se spero di sbagliarmi. Resta da capire, invece, quanto
Obama riuscirà a staccarsi da questa agenda, da questa spirale nella
quale Israele sta trascinando gli Usa, pericolosa sotto tutti i punti di
vista a partire da quello umanitario che pare non interessare nessuno.
Si tratterebbe di un altro Vietnam per gli Usa, ancora impegnati in
Afghanistan e usciti in modo pessimo dall’Iraq.
Fonte.
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