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07/03/2012

Iran, un’analisi del voto parlamentare

Le elezioni in Iran del 2 marzo scorso per l’elezione del nuovo Parlamento (Maijlis) di Teheran si sono svolte senza incidenti. Questo passaggio era atteso per capire cosa potrebbe accadere adesso rispetto alle relazioni con Israele, Usa e Unione europea. E – il mensile ha chiesto il parere di Anna Vanzan, iranista e islamologa, che attualmente insegna Cultura islamica (IULM Milano) e Cultura Araba (Università di Milano), oltre a collaborare con testate giornalistiche e programmi radiofonici nazionali e esteri. E’ autrice anche dei libri Figlie di Shahrazàd, scrittrici iraniane dal XIX secolo a oggi, Le donne di Allah, viaggio nei femminismi islamici e La storia velata, donne dell’islam nell’immaginario italiano.
Secondo la maggior parte dei media internazionali, il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad è uscito sconfitto dalle urne, dove i candidati vicini alla Guida Suprema Khamenei domineranno. Condivide questa lettura del voto?
Si può dire di sicuro che questa Majlis è ostile al presidente Ahmadinejad, anche perché era una vittoria annunciata. Di tutte le liste ammesse al voto, solo una era favorevole al presidente in carica. Per il quale si prepara un ultimo periodo da presidente piuttosto difficoltoso. Avrà contro, più o meno, tre quarti del parlamento.
Questo parlamento lo ritiene più o meno favorevole al dialogo con l’Occidente rispetto a quello vecchio?
Direi più propenso al confronto, però con un segnale chiaro: la Guida Suprema vuole avocare a sé la gestione di questo dialogo. Con l’idea di sacrificarsi per il bene comune, come ha fatto finora: minacce alternate a ritrattazioni, con una retorica pubblica inflessibile e un pragmatismo di fatto. La retorica ufficiale si manterrà uguale, ma per altre vie si punterà al dialogo.
Crede che cambierà qualcosa rispetto all’internazionalismo sciita e all’appoggio agli sciiti fuori dall’Iran?
Su questo punto non credo che ci saranno grossi cambiamenti, perché questo è stato un leit motiv fin dall’inizio della Rivoluzione. Nessuno l’ha mai sconfessato, a cominciare dall’appello di Khomeini agli sciiti iracheni (al tempo della guerra tra Iran e Iraq 1980-1988 ndr) perché si sollevassero contro Saddam Hussein, fino all’appoggio ammantato di motivi religiosi, anche se ne nascondono altri, alla rivolta in Bahrein e agli stretti rapporti odierni con tutte le comunità sciite in Iraq. Credo che questa strategia non verrà minimamente ridimensionata, anzi verrà incrementata. Il problema sarà proprio il ruolo del presidente, considerando gli appoggi di cui gode Ahmadinejad, ad esempio al ministero degli Interni di Teheran e in gran parte delle forze armate. Ahmandinejad, per altro, è tutto tranne che uno sprovveduto, come viene spesso dipinto in Occidente. Farà appello alle sue risorse, di sicuro, e questo vuol dire che i prossimi diciotto mesi non saranno facili. Anche perché Ahmadinejad è molto giovane e non vorrà uscire di scena senza colpo ferire nell’estate 2013. Senz’altro deve inventarsi qualcosa per restare ai vertici della politica iraniana. Sarà interessante vedere che strategia seguirà e su quale tipo di alleanze punterà dopo questa batosta.
Secondo lei, a Washington e in Israele, devono essere soddisfatti del risultato elettorale?
Rispetto agli israeliani il risultato elettorale li lascia indifferenti. Loro, ormai, hanno una loro agenda che stanno perseguendo comunque, al di là di quello che Teheran dice o fa. Sul discorso del nucleare non sono mai stati accolti i tentativi di mediazione di Turchia e Brasile, i falchi in Israele stanno prendendo il sopravvento e non cambieranno la loro agenda, anche se spero di sbagliarmi. Resta da capire, invece, quanto Obama riuscirà a staccarsi da questa agenda, da questa spirale nella quale Israele sta trascinando gli Usa, pericolosa sotto tutti i punti di vista a partire da quello umanitario che pare non interessare nessuno. Si tratterebbe di un altro Vietnam per gli Usa, ancora impegnati in Afghanistan e usciti in modo pessimo dall’Iraq.

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