Terremoto giudiziario. È così che i giornali turchi apostrofano la
rimozione di venti procuratori capo, stabilita giovedì dall'Alto
consiglio dei giudici e dei procuratori (Hsyk), il massimo organo delle
toghe, nella prima riunione presieduta dal nuovo titolare della
giustizia Bekir Bozdag. L'attacco alle cittadelle del potere è l'ultima
di una serie di mosse con cui Erdogan sta reagendo, duramente, alle
inchieste del mese scorso sul giro di tangenti in zona governativa,
cartina di tornasole dello scontro in corso tra Erdogan e l'altro peso
massimo dell'islam politico turco, Fetullah Gulen, capo del potente
movimento culturale-religioso Hizmet che dieci anni fa mobilitò i suoi
seguaci e li fece votare in massa per Erdogan, per poi continuare a
sostenerlo. In tempi recenti ha però preso le distanze. Ma la trama è
complessa.
A metà dicembre, alla luce di un presunto groviglio di tangenti e
nepotismi, sono finiti in cella i figli di tre ministri. Le indagini
hanno lambito anche Bilal, uno dei rampolli di Erdogan. Che ha dapprima
varato un ampio rimpasto, nominando dieci nuovi membri nella squadra di
governo. Dopodiché ha iniziato a purgare la polizia. Si calcola che
circa duemila agenti siano stati declassati. Avevano contribuito, chi
più direttamente e chi meno, alle inchieste sulle tangenti.
Adesso a finire sulla graticola sono i magistrati. Tra questi anche il
procuratore capo di Istanbul, Turan Colakkadi. D'altronde è in riva al
Bosforo che sono partite le indagini sulla tangentopoli. Un golpe
promosso da Gulen grazie alle sue sponde nelle questure e nei tribunali,
secondo Erdogan.
Gli esperti di cose turche non sposano la tesi del primo ministro, ma
convergono sul fatto che tra lui e Gulen è in corso una sorta di resa
dei conti. La lettura più gettonata è quella secondo cui Gulen, in
seguito ai fatti di Gezi Park, ha iniziato a temere che il "modello
turco", mix abbastanza calibrato di islam e democrazia, potesse
deragliare.
Da qui la tangentopoli: non un golpe, ma un modo per
intimare a Erdogan di non esagerare, né con le misure repressive, né
con gli strappi in politica estera (vedi alla voce Israele) e né con la
sete di potere. Sembra infatti che, dopo due mandati al governo, voglia
candidarsi alle presidenziali di agosto. Intanto però c'è la tornata
amministrativa, a marzo. Erdogan e il suo Partito della giustizia e
dello sviluppo (Akp) dovrebbero ancora una volta rastrellare parecchi
voti.
Tuttavia le purghe di queste settimane potrebbero costare
qualche voto.
Ma forse è l'economia il fattore che più di ogni altro può mettere
all'angolo il premier. Dopo una grandissima stagione di crescita,
segnata da espansioni "cinesi" dei redditi pro capite, della produzione
industriale, delle esportazioni e di decine di altre variabili, Ankara
sembra rallentare. Colpa del tapering, vale a dire la fine del programmi
di stimoli all'economia americana promosso dalla Federal Reserve. Ne
hanno beneficiato tutti i paesi emergenti, Turchia compresa. Già quando è
stato annunciato le loro economie hanno iniziato a soffrire e le
rispettive monete si sono afflosciate. La lira turca è scesa ai minimi
storici nelle ultime settimane di tormenta politica. Segnale chiaro: se
oscillazioni economiche e instabilità istituzionale dovessero
ulteriormente saldarsi Erdogan potrebbe passare dei guai.
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