di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Il sole tramonta, la tensione sale. Nella città vecchia di Diyarbakir succede ormai quasi ogni sera, dal 7 ottobre scorso quando scoppiò la rabbia kurda per l’apatia di Ankara verso Kobane.
«Non si passa, la polizia ha chiuso la strada», ci dice un’anziana
signora mentre accende un fuoco nella piccola piazza a ridosso delle
mura. Qualche scaramuccia, i poliziotti che intervengono e chiudono con
le transenne a un paio di auto l’ingresso in città vecchia. Dopo
mezz’ora torna la calma.
«Durante i giorni di coprifuoco, all’inizio di ottobre, la situazione
era esplosiva – racconta al manifesto Bilal, attivista del movimento
politico kurdo – La polizia lanciava i lacrimogeni nelle case, la notte
non si dormiva. Da allora il governo ha dato piena autorità ai
poliziotti: lo chiamano ‘ragionevole sospetto’. Se ritengono che possano
esserci proteste, hanno mano libera. Ne approfittano per provocare la
gente e avere poi la scusa per reprimere: chiudono le strade, fermano
qualche giovane, perquisiscono le abitazioni».
Nei discorsi di tutti resta però una parola fissa: Kobane.
Nelle tv la metà dei notiziari è dedicata alla battaglia al di là della
frontiera, alla radio passano canzoni che celebrano il Kurdistan unito. La solidarietà per i combattenti kurdi in Siria è forte e aumenta proporzionalmente alla durata dell’assedio islamista.
Che ieri ha ottenuto ulteriore sostegno: il Fronte al-Nusra, formazione
qaedista oggi vicina all’Isis, si è ammassato nella cittadina di
Sarmada, a soli 6 km dallo strategico passaggio di frontiera di Bab
al-Hawa tra Siria e Turchia. L’eventuale presa di Bab al-Hawa avrebbe
conseguenze nere per la coalizione guidata dagli Usa che da quella
frontiera ha finora sostenuto le opposizioni moderate al regime di
Assad.
La situazione volge al peggio soprattutto dopo la presa da
parte di al-Nusra di un’altra città, Khan al-Subul, e di altri villaggi
nella provincia nord-occidentale di Idlib, prima in mano ai moderati del
movimento Hazm e dell’Esercito Libero Siriano, che già la scorsa
settimana aveva perso il controllo di alcune comunità a favore dei
qaedisti.
Insieme ai villaggi, al-Nusra si è impossessato anche di armi
consegnate ai gruppi anti-Assad da Washington, tra cui missili
anti-carro. Se questo è il sostegno di cui gode il califfato, quello a
favore di Kobane è minimo: i 150 peshmerga sono troppo pochi e
resteranno – come detto dal primo ministro del Kurdistan iracheno,
Nechervan Barzani – solo «temporaneamente» a sostegno della resistenza
di Rojava. Nessun ruolo politico futuro, ha messo in chiaro il premier,
nessun successivo discorso unitario.
A Diyarbakir qualcuno storce il naso: c’è chi addirittura
sostiene che un gruppo di peshmerga abbia approfittato del viaggio in
Turchia per disertare, altri li chiamano «inutili cowboy con i Ray Ban».
Non faranno la differenza, soprattutto contro il potenziale militare
islamista. Tra le file militari kurde, ha aggiunto poi Barzani, ci sono
anche peshmerga contrari all’avventura siriana e che vorrebbero
concentrarsi sulla ripresa delle città occupate in Iraq, lamentando
l’assenza del governo di Baghdad. Il premier al-Abadi vive un periodo nero: i massacri contro le comunità sunnite che si sono sollevate contro
l’Isis proseguono con numeri senza precedenti insieme agli attacchi
suicidi. Ieri un’autobomba è esplosa nel quartiere sciita di Sadr City,
nella capitale, uccidendo 23 persone durante la tradizionale processione
al-Husseiniya della settimana dell’Ashura, festa religiosa sciita.
Domenica un’altra marcia era stata target a sud di Baghdad: 31 morti.
Entrambi gli attacchi sono stati rivendicati dall’Isis. Ma nel mirino
del califfato non ci sono solo gli «apostati» sciiti. Ci sono anche i
sunniti che hanno preso le armi contro l’avanzata islamista. Dopo le
stragi della scorsa settimana nella provincia di Anbar, nuovo bersaglio è
la tribù di Albu Nimr: oltre 200 i civili giustiziati in pochi giorni.
Numeri da far tremare qualsiasi governo, tanto più quello di Baghdad
incapace di difendere la popolazione, sunnita e sciita.
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