I discorsi di fine anno contano poco, in genere. Si fanno perché sono obbligatori, sono vaghi quanto basta perché vengano dimenticati presto, non incidono né sui sondaggi né sull'umore dei futuri elettori.
L'unica eccezione del soliloquio renziano di ieri riguarda la data e il tema “spartiacque” della sua avventura politica. Che non sono ovviamente le amministrative di primavera, ma il referendum confermativo sulla oscena “riforma costituzionale” che sostanzialmente abolisce la Costituzione “nata dalla Resistenza” (tra virgolette non perché non sia stato vero, ma perché troppe volte questa formula ha fatto velo a pratiche di segno opposto, concertativo, antipopolare).
Tutto il resto era fuffa scontata, a partire dalle “realizzazioni” compiute dal suo governo (sembrava di sentire gli slogan berlusconiani con un bel “fatto!” alla fine di ogni frase), e dall'esaltazione ridicola di quel +0,8% di Pil con cui si chiuderà il 2015 (dopo quattro anni di segni meno, e in presenza di circostanze eccezionalmente favorevoli come il quantitative easing della Bce e il tracollo del prezzo del petrolio, sarebbe stato difficile fare peggio).
Inutile star qui a ricordare che alcuni di quelli che Renzi considera “successi” sono in realtà macelleria sociale, a partire dal Jobs Act e dall'abolizione dell'art. 18, che hanno consegnato la vita e la dignità di ogni singolo lavoratore dipendente al capriccio delle singole imprese o addirittura dei singoli “capetti” e caporali. Inutile anche insistere sulla nauseante vicenda delle quattro banche “salvate” sacrificando i correntisti più ingenui, truffati allo sportello con l'offerta di obbligazioni-carta-straccia. Per chi vuole farsi sommergere dal gossip da basso impero non ha che da seguire le centinaia di fonti – giornalistiche e non – che si affannano a ricostruire rapporti economici quanto meno oscuri tra le famiglie Renzi e Boschi, con in più quel Rosi ultimo presidente di Banca Etruria.
Ma Renzi era stato scelto – “lo abbiamo messo lì noi”, rivendicò allegramente Sergio Marchionne quasi agli inizi – per distruggere definitivamente il patto costituzionale del dopoguerra, già duramente sfibrato dal ventennio berlusconiano e dalla lenta scomparsa di una qualsiasi rappresentanza politica “di sinistra” (la cui azione, insomma, fosse coerente con le parole).
E quindi ha perfettamente senso che leghi al referendum d'autunno il suo destino politico (anche se non giureremmo sulle sue effettive dimissioni in caso di sconfitta).
Ma non c'è solo la nefasta grandezza del legare il proprio nome a una svolta reazionaria di portata storica, che manda in soffitta il “patto tra i produttori” (con tutti i compromessi del dopoguerra) e disegna una Terza Repubblica piduista e repubblichina (in combinazione con l'Italicum), in cui soltanto i ceti dominanti possono disporre di rappresentanza e accedere ai palazzi del potere (o quel che ne è rimasto, dopo i molti trasferimenti di sovranità all'Unione Europea).
C'è anche la certezza di una catastrofe del Pd alle elezioni amministrative di primavera. Soprattutto in quelle città dove, per motivi diversi, il partito del premier è quasi scomparso dalla scena politica: Roma e Napoli. Due città opposte, con la prima che ha visto il Pd gestire l'amministrazione all'interno del sistema chiamato Mafia Capitale, e la seconda che lo aveva espulso già quattro anni fa, scegliendo De Magistris anziché uno dei tanti maneggioni del circo barnum “democratico”.
Il rottamatore quindi lascia che siano i suoi uomini a gestire e perdere la partita di primavera, svalutandone il significato politico generale già cinque mesi prima delle elezioni. E cerchia in rosso la data del referendum per stabilire se la reazione – con lui al balcone – avrà davvero vinto o no.
Sarà una partita complicata, certamente, perché la retorica del “nuovo” (le riforme, i giovani ministri sempre sorridenti, le facce ignote – più che nuove – che ammoniscono il popolo ogni giorno dallo schermo, ecc.) ha in genere facile gioco contro tutto quel che – per le ragioni più diverse, dalle nobili alle ignobili – viene comunque racchiuso sotto l'etichetta del “vecchio”.
Se non si vuol essere solo spettatori passivi e rancorosi bisognerebbe saper rovesciare questi termini – nel rapporto concreto con il blocco sociale “de-costituzionalizzato” – perché non c'è nulla di più “vecchio” di una società in cui chi non possiede un'impresa non ha nemmeno diritto di parola. Non c'è nulla di più “preistorico” di un rapporto di lavoro in cui il “prestatore d'opera” deve essere sempre flessibile e muto, “liquido” e sostituibile in ogni istante.
È il mondo disegnato dal capitale multinazionale e dall'Unione Europea, cui Renzi presta temporaneamente la faccia e le battutine. Contro questo mondo la mobilitazione politica parte ora. Ci vediamo in piazza il 16 gennaio.
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