Austerità più modernizzazione più proiezione internazionale: è questa la sfida che la casa reale saudita e la nuova classe dirigente del paese hanno lanciato annunciando un piano di ristrutturazione dell’economia davvero rivoluzionario. Consci che l’esaurimento del petrolio, che per più di un secolo ha garantito la prosperità della casa regnante e dei cittadini, potrebbe mettere in ginocchio un paese che aspira invece a scalare le classifiche mondiali delle grandi potenze, i Saud vogliono letteralmente rivoltare “come un calzino” il paese trainante del Polo Sunnita.
Le riforme sono contenute nel piano denominato “Visione 2030” presentato alla fine di aprile da Mohamed Bin Salman, detto ‘il temerario’, figlio dell’ottuagenario sovrano salito al trono nel gennaio del 2015 e uomo forte del regime a soli 31 anni.
Il progetto si basa su tre pilastri: cancellare la dipendenza dal petrolio (anche se si calcola che sotto le sabbie e i fondali marini del paese ci siano ancora riserve per 260 miliardi di barili), stimolare l’economia privata e renderla competitiva con gli standard internazionali, ridurre significativamente gli aiuti economici statali ai cittadini ad esempio per quanto riguarda le bollette dell’acqua o dell’elettricità.
Un piano troppo ambizioso, affermano alcuni analisti, che associa una completa ristrutturazione economica del paese ad una serie di cambiamenti strutturali. Ai quali il paese, se vuole tramutare in realtà le sue aspirazioni di grande potenza, non può sottrarsi.
Il progetto presentato il 25 aprile mira in primo luogo a superare la dipendenza dal petrolio e a diversificare l’economia del regno. Visione 2030 prevede quindi la vendita del 5% del gigante petrolifero Saudi Aramco e la creazione del più consistente fondo sovrano del mondo, stimato in 2 mila miliardi di dollari (circa 1700 miliardi di euro), che dovrebbe servire nei piani di Mohamed Bin Salman a sostituire entro il 2020 gli ingenti investimenti che Riad si assicurava finora grazie ai proventi delle esportazioni di greggio. Il fondo includerà anche i 600 milioni del Sama Foreign Holdings, numerosi immobili e zone industriali di proprietà dello stato. “I primi dati indicano che il fondo controllerà almeno il 10% della capacità d’investimento mondiale” assicurano a Riad. D’altronde negli ultimi due anni l’economia saudita, che dipende all’80% dalle esportazioni del petrolio, vive momenti difficili. Anche perché il regime saudita per colpire i suoi concorrenti geopolitici produttori di greggio – Russia, Iran, Venezuela e Nigeria – e per affondare l’industria dello shale oil statunitense, ha puntato a far tracollare il prezzo del petrolio, causando gravi danni ai target della sua spregiudicata politica ma anche alla sua stessa economia.
Per l’anno in corso il Fondo Monetario Internazionale ha stimato una crescita del Pil pari solo all’1,2% contro il 3,5 del 2015. E così il governo è stato costretto, per ridurre il deficit da 100 miliardi di dollari a 87, a congelare numerosi progetti economici e a sopprimere un certo numero di sussidi che finora il ‘generoso’ stato concedeva ai 21 milioni di cittadini. Tagli tali che i media internazionali hanno addirittura parlato di austerity in salsa saudita.
“Abbiamo sviluppato una vera e propria dipendenza dal petrolio e questo ha sviato lo sviluppo di molti settori negli ultimi anni” ha spiegato il giovane e potente principe alla catena televisiva Al Arabiya, di proprietà della famiglia reale saudita. Il Consiglio dei Ministri ha dato quindi il via libera ad una parziale privatizzazione dell’impresa petrolifera statale, che ha una capacità di estrazione superiore ai 12 milioni di barili al giorno (il doppio delle altre maggiori compagnie mondiali) nell’ottica di trasformarla in una holding energetica quotata in borsa con l’obiettivo di attrarre investitori interni e stranieri. Il che, assicura il principe, convertirà l’Arabia Saudita in un’economia stimolata dagli investimenti rendendo il paese “un attore globale”.
Alla crescita e alla modernizzazione del proprio sistema economico il principe vuole unire la creazione di un complesso militar-industriale saudita, per diminuire la dipendenza dalle importazioni di armi straniere (qualche potenza concorrente potrebbe prima o poi chiudere i rubinetti... e le relazioni con gli Stati Uniti non sono state mai così pessime). Solo nel 2015 Riad ha speso in armi 78 miliardi di euro stando ai dati forniti dal Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), quattro volte di più che nel 2001.
“Com’è possibile che un paese che è in terza posizione a livello mondiale per acquisto di armi non possieda un’industria militare?” si è retoricamente chiesto MBS che ha annunciato la volontà di costruire in tempi stretti, già a partire dal 2017 con una offerta di azioni sul mercato, un’impresa di produzione di armamenti inizialmente di proprietà statale. “Da ora in poi il Ministero della Difesa e gli altri dipartimenti di sicurezza compreranno armi da fabbricanti stranieri solo se questi sono legati ad una industria locale” ha annunciato l’erede al trono nonché ministro della Difesa.
Ma non basta. Nei prossimi mesi Mohamed Bin Salman ha in programma la presentazione di un Piano di Trasformazione Nazionale che include tagli alla spesa, introduzione di nuove imposte – sul valore aggiunto, sui beni di lusso, sui pedaggi stradali e sulla benzina – la privatizzazione parziali dei servizi pubblici nel settore della Sanità e dell’Istruzione, una maggiore partecipazione delle donne all’economia del paese. Nessuna svolta democratica, sia chiaro. Misure di modernizzazione che il principe considera irrimandabili e necessarie ma che potrebbero, insieme alle misure di austerity varate finora – in particolare il taglio ai sussidi – costargli l’ostracismo di alcuni pezzi degli apparati statali e dell’opinione pubblica. Ma MBS promette che i sacrifici chiesti ai sauditi verranno presto ricompensati: “siamo decisi a costruire un paese prospero nel quale tutti i cittadini possano realizzare i propri sogni, le proprie speranze e ambizioni” ha spiegato presentando il documento di 82 pagine che condensa il suo piano di ristrutturazione dell’Arabia Saudita. Concentrati su una fonte di ricchezza apparentemente inesauribile e facile da estrarre, i sauditi hanno scarsamente sfruttato altre fonti di ricchezza: oro, zinco, fosfati, il 6% delle riserve mondiali di uranio, «un altro petrolio che non abbiamo ancora sfruttato» nelle parole del principe MBS.
“Visione 2030” punta a far diventare l’Arabia Saudita una delle prime 15 potenze economiche al mondo – attualmente è in diciannovesima posizione – a far entrare tre città del paese nelle cento più importanti del pianeta, ad elevare la speranza di vita da 74 a 80 anni, ad aumentare la spesa statale per la cultura e l’intrattenimento e a raddoppiare il numero di siti archeologici e monumentali dichiarati patrimonio mondiale dall’Unesco. MBS vuole trasformare il suo paese in una metà turistica facendo passare i visitatori annui da 8 a 30 milioni, un flusso che stimolerebbe consistenti investimenti.
Una sfida al mondo ma anche ad una popolazione che, nonostante l’età media molto bassa e livelli d’istruzione superiori, rimane ancorata a rapporti sociali assai conservatori, ad un certo isolazionismo e ad una visione del mondo basata su modelli culturali in contrasto con la modernizzazione, la crescita economica e una pur ricercata proiezione egemonica internazionale.
I cambiamenti in programma sono davvero draconiani. A livello interno, finora, il patto non scritto era che la famiglia reale si sarebbe occupata delle necessità dei sudditi ricevendo in cambio una totale obbedienza. Ma per diventare una potenza dalle ambizioni globali c’è bisogno che i sauditi aumentino la propria partecipazione alla vita economica di un paese in cui attualmente sono dieci milioni di lavoratori stranieri – in gran parte provenienti dall’Asia – a tirare la carretta.
Nei piani del governo c’è anche la “creazione di un sistema d’istruzione e formazione allineato alle necessità del mercato”. Metà degli abitanti del regno ha attualmente meno di 25 anni, e programmi scolastici basati fondamentalmente sullo studio delle tradizioni e del Corano non aiuteranno i giovani sauditi a trovare un lavoro nei prossimi anni. Un problema non da poco visto che già ora tra i minori di 30 anni il tasso di disoccupazione tocca quota 29%. Nei prossimi anni lo stato dovrà incaricarsi di creare milioni di posti di lavoro. Il piano di trasformazione del paese richiede una rivoluzione nella mentalità dei cittadini, impiegati quasi esclusivamente nel settore pubblico e praticamente assenti nel settore privato in cui, come detto, lavorano per lo più stranieri: immigrati in condizione di semischiavitù per quanto riguarda le mansioni meno appetibili, tecnici anche occidentali per quanto riguarda la fascia alta dei servizi. Come faceva notare Ugo Tramballi su Il Sole 24 Ore di qualche giorno fa, “milioni di sauditi sono sotto-occupati (pagati per non fare nulla) e (...) la maggioranza della metà della popolazione – le donne – non produce ricchezza”.
Ma il piano lanciato dalla famiglia reale avrà delle implicazioni notevoli, rivoluzionarie, anche dal punto di vista delle relazioni internazionali e dei rapporti di forza mondiali. Per più di un secolo l’Arabia Saudita e gli altri emirati hanno rappresentato un’inesauribile fonte energetica a disposizione delle potenze imperialiste – soprattutto gli Stati Uniti – che in cambio hanno concesso alla nobiltà locale carta bianca sul piano interno ma una scarsissima voce in capitolo dal punto di vista politico e militare.
Ovviamente gli ambiziosi piani di Mohamed Bin Salman vogliono sottrarre l’Arabia Saudita alla tradizionale subalternità nei confronti di Washington e di Bruxelles per rendere Riad il motore trainante di un nuovo polo geopolitico già costituito attraverso il Consiglio di Cooperazione del Golfo (il ‘Polo Sunnita’) oggettivamente in competizione con le altre potenze regionali e mondiali.
Negli anni scorsi i piani di integrazione della penisola arabica hanno già reso Riad la capofila di un nuovo blocco che ha cominciato ad allungare i suoi tentacoli sempre più lontano – dalla destabilizzazione della Siria, dell’Iraq e del Libano, all’invasione dello Yemen, dal sostegno al regime militare egiziano ad una alleanza de facto con Israele – entrando quindi in rotta di collisione con gli Stati Uniti e i suoi interessi.
Il problema è che, allo stato, l’Arabia Saudita sembra aver fatto il ‘passo più lungo della gamba’ e il fallimento della campagna militare in Yemen contro i ribelli sciiti, l’accordo sul nucleare tra Washington e Teheran, l’intervento militare russo in Siria rappresentano una serie di passi falsi e di stop che rischiano di tramutare in un incubo i sogni di gloria delle nuove classi dirigenti saudite.
Oggi l’Arabia Saudita è un gigante dai piedi d’argilla, troppo dipendente da una risorsa in via d’esaurimento, con una economia scarsamente finanziarizzata e competitiva e con una popolazione scarsamente coinvolta nel settore produttivo ed eccessivamente ‘assistita’. Un handicap al quale il giovane e ambizioso principe Mohamed Bin Salman vuole porre rimedio a passo di carica, a costo di dare uno storico scossone ad una struttura sociale ultraconservatrice. Il Wahabismo – versione estremamente reazionaria dell’Islam – se da un lato costituisce un collante sociale ed un elemento di legittimazione del potere della casa reale, rappresenta anche un ostacolo alle ambizioni di modernizzazione del paese. Per questo l’alleanza siglata nel XVIII secolo dai regnanti con l’ultraortodosso Mohamed Abdel Wahab, e che permise la fondazione nel 1932 del regno saudita, deve essere sottoposta ad una consistente revisione, diminuendo il potere del clero e degli sceicchi discendenti di Wahab che controllano tuttora le istituzioni religiose e la cui influenza si estende a tutti gli aspetti della società. Le recenti limitazioni ai poteri e alle funzioni della ‘polizia religiosa’ ordinate dal governo devono essere letti in quest’ottica. Il che non vuol dire che la nuova classe dirigente si farà promotrice di una laicizzazione del paese. Il Wahabismo, come detto, costituisce una utilissima ideologia di stato e oltretutto rappresenta un elemento di legittimazione della proiezione degli interessi sauditi in tutto il mondo arabo-islamico. Gli ingenti investimenti economici necessari a promuovere la versione saudita del culto musulmano dai Balcani alla Turchia, dall’Indonesia all’Africa centro-settentrionale stanno lì a dimostrare quanto anche i modernizzatori sauditi puntino su questo elemento di proiezione egemonica.
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