A nove giorni dalle elezioni parlamentari irachene il vincitore, il
leader religioso sciita Moqtada al-Sadr, delinea la possibilità di un
governo ampio e stabile. Sabato ha incontrato l’attuale primo ministro
al-Abadi, arrivato a sorpresa solo terzo con la coalizione al-Nasr, e
ieri Hadi al-Amiri, leader della coalizione Fatah che mette insieme le
unità di mobilitazione popolare sciite, al secondo posto.
“È necessario accelerare la formazione di un governo di padri
il più presto possibile”, ha detto al-Sadr ieri sera dopo l’incontro
con al-Amiri, aggiungendo di voler formare un esecutivo di coalizione a
cui prendano parte le coalizioni vincenti come “tutti i settori della
società”.
Prosegue dunque il percorso di al-Sadr verso una leadership nazionale
e pacificatrice, vesti indossate negli ultimi anni, smesse quelle di
capo di una forza militare – l’Esercito del Mahdi – che con le armi si
impegnò contro l’invasione statunitense del 2003. Di certo una
coalizione è scelta obbligata: Sairun, la coalizione di sadristi e
Partito Comunista, ha conquistato 54 dei 329 seggi parlamentari: ne
mancano 111 per un governo. Quarantadue quelli conquistati da al-Abadi,
47 quelli di Fatah.
Le larghe intese è l’opzione più chiacchierata sui giornali locali e arabi. Secondo il quotidiano al-Hayat, citato da Agenzia Nova, al-Sadr
sarebbe propenso a formare un’alleanza con al-Abadi, il partito curdo
Kdp del clan Barzani (25 seggi) e Wataniya, la lista laica guidata dal
vicepresidente uscente Allawy (22 seggi). Il dubbio è però proprio
Barzani, più vicino all’ex premier al-Maliki (26 seggi),
controversa figura al potere nel post-Saddam e considerato l’origine di
molti dei mali che attanagliano oggi l’Iraq, dalla corruzione diffusa al
settarismo divisivo.
Poche le certezze. Tra queste l’impossibilità per lo stesso al-Sadr
di diventare primo ministro, non essendosi candidato. Da qui l’idea che
circola di mantenere al suo posto proprio al-Abadi, popolare in
tutto il paese per la vittoria sull’Isis e l’atteggiamento anti-settario
ben visto anche dalle potenze regionali e internazionali
perché non interessato a schierarsi né con il blocco iraniano né con
quello statunitense. Durante l’incontro di sabato il premier ha dato
voce alla possibilità di un accordo di governo, parlando di “visioni
identiche” su alcuni temi con al-Sadr.
Entrambi hanno bisogno di mostrare al paese, ancora flagellato dagli
attacchi dello Stato Islamico, in una difficile situazione economica
segnata da bassi salari e alto tasso di disoccupazione, un fronte unito e
stabile che possa condurre la popolazione verso un miglioramento delle
proprie condizioni di vita. Fuori da Baghdad la ricostruzione
post-Isis non è mai realmente partita, quasi tre milioni di persone
restano sfollate interne, la corruzione imperversa come i tentativi
affatto celati delle potenze vicine di influenzare il percorso iracheno.
Senza dimenticare la scarsa adesione al voto, solo il 44.5% di affluenza, il sintomo di una disaffezione generale e di una scarsa fiducia verso le diverse leadership.
L’Iraq resta in attesa, la formazione della coalizione di governo
richiederà del tempo visti i risultati frammentati usciti dalle urne.
Al-Sadr dovrà giocare da pivot, mettere insieme le diverse anime del
paese per un governo che sia stabile e rivolto alle esigenze espresse
dall’elettorato: una certezza il voto l’ha data, il rifiuto
delle leadership tradizionali e la fiducia accordata a forze nuove,
alternative, o sul piano politico-sociale come al-Sadr o sul piano
militare, le milizie sciite.
Sullo sfondo resta l’Iran, convitato di pietra alle consultazioni,
legato a doppio filo ad al-Amiri ma molto distante dal movimento
sadrista che, seppur sciita, ha sempre rifiutato l’influenza di Teheran
negli affari interni. Ma non è un mistero di come l’Iran consideri il
paese vicino: tassello strategico del più ampio corridoio di territori
che da Teheran arriva al Libano.
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