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di Enrico Grazzini
L'enorme debito dello stato italiano pesa come un macigno sulla ripresa economica ed è il primo fondamentale problema che il nuovo governo nazional-popolare di 5 Stelle-Lega in via di formazione – certamente assai sgradito alla grande finanza e all'Unione Europea – dovrà affrontare. A causa del debito pubblico, e soprattutto della speculazione finanziaria che funziona come benzina sul fuoco, l'Italia resta il paese più vulnerabile dell'eurozona ed è sempre prossimo alla crisi. L'Italia rischia di uscire dall'eurozona non tanto per il “sovranismo” del possibile governo giallo-verde e il suo presunto “anti-europeismo”, e neppure perché è troppo spendacciona – infatti lo stato da venti anni spende meno di quanto incassa con le tasse, al netto degli interessi sul debito –, ma semplicemente a causa della speculazione e dello spread.
Al di là delle valutazioni sui singoli provvedimenti di politica economica – come il reddito di cittadinanza e la flat tax –, la grande finanza e le istituzioni della UE non sopportano il programma anti-austerità e di difesa dell'economia nazionale che il nuovo governo annuncia di volere realizzare (almeno sulla carta). E quindi il nuovo possibile esecutivo è sotto attacco in Europa, mentre in Italia, sul fronte interno, è attaccato frontalmente anche da PD e Forza Italia che quando erano al governo hanno promosso le politiche di austerità. Paradossalmente le forze cosiddette populiste appaiono schierate a favore dell'intervento pubblico simil-Keynesiano e della difesa dell'interesse nazionale – e probabilmente per questo hanno ottenuto milioni di voti –, mentre il PD di centrosinistra con il suo europeismo, appare allineato (insieme a Forza Italia) dalla parte delle liberalizzazioni e dell'austerità imposta dai mercati finanziari, dai grandi investitori internazionali e dalla UE. Comunque non c'è alcun dubbio che la questione del debito pubblico costituisca il maggior punto debole dell'economia italiana e quindi il punto di debolezza di ogni possibile futuro governo italiano.
I partiti brancolano nel buio di fronte alla inderogabile necessità di ridurre il debito pubblico e di fare ripartire l'economia. Il problema è molto complesso. Questo articolo (che in effetti è una sorta di mini-saggio) si propone di offrire un contributo alla discussione in merito a questo nodo ineludibile. Analizzerò criticamente le principali proposte per diminuire il rapporto debito/PIL e mi focalizzerò in particolare su quelle che mi sembrano le più efficaci per risolvere il problema. Proporrò forme di nazionalizzazione del debito pubblico e iniziative per stimolare la domanda aggregata per espandere l'economia produttiva e il lavoro.
La premessa è innanzitutto che la soluzione al problema del debito di stato certamente non consiste in nuovi tagli della spesa e dei servizi pubblici, nelle privatizzazioni selvagge, come vorrebbe l'Unione Europea. Proseguire sulla via dell'austerità sarebbe un suicidio. Nessuna delle manovre di austerità indicate nella famosa lettera della BCE al governo italiano dell'agosto 2011 firmata dall'ex governatore Jean Claude Trichet e da Mario Draghi ha avuto successo nel ridurre il debito pubblico[1]. Anzi, il debito è aumentato. Le inflessibili direttive della UE e della BCE sono solo riuscite a subordinare lo stato e l'economia produttiva a favore del grande capitale finanziario. Povertà e divisioni sociali sono aumentate rapidamente e a dismisura.
Recentemente illustri economisti come Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, Pier Carlo Padoan, Ignazio Visco e Carlo Cottarelli, hanno proposto di tirare ancora di più la cinghia per raggiungere un avanzo primario (entrate dello stato meno uscite, prima degli interessi sul debito) del 4% sul PIL: ma questo progetto è non solo ingiusto ma anche controproducente e irrealizzabile. Neppure in Grecia la Troika (UE, FMI, BCE) è riuscita a imporre un salasso di queste dimensioni.
Le possibili soluzioni consistono invece nella almeno parziale nazionalizzazione del debito pubblico, come propongono in forme diverse sia Richard Werner che Michele Fratianni e Paolo Savona. È chiaro infatti che gli investitori nazionali non hanno interesse a speculare al ribasso sui titoli di stato che detengono, si farebbero male da soli; mentre gli operatori internazionali si precipitano a fuggire ai primi sentori di crisi, e così facendo rischiano di affossare il nostro paese.
Per non essere strangolato dalla speculazione, lo stato italiano non dovrebbe più subordinarsi interamente alle oscillazioni del mercato finanziario, che è speculativo per sua natura. Dovrebbe invece “nazionalizzare” almeno parte del debito accendendo prestiti presso una o più banche nazionali, private o pubbliche. Se in particolare lo stato si indebitasse con una banca pubblica sarebbe ad un tempo venditore e compratore dei suoi titoli di debito e quindi il deficit pubblico diventerebbe solo una partita di giro.
Inoltre per rilanciare l'economia, lo stato dovrebbe distribuire dei buoni fiscali a maturità differita che però funzionino da subito come moneta-euro da spendere a favore delle famiglie e degli investimenti pubblici. I bonus fiscali convertibili in euro incrementerebbero immediatamente la domanda aggregata e consentirebbero di realizzare gli investimenti pubblici necessari per un New Deal di piena occupazione. Il PIL crescerebbe e quindi il rapporto debito/PIL diventerebbe meno pesante. Ricordiamoci che lo sviluppo dell'economia reale è l'unica vera garanzia di potere onorare il debito pubblico.
Nazionalizzare il debito e dare una svolta all'economia produttiva grazie all'emissione di buoni fiscali da spendere nell'economia reale. Questa sembra essere la sola ricetta praticabile per tornare a crescere e per ridurre un debito che altrimenti diventerà insostenibile. Mentre altre ricette “riformiste” che in questo scritto mi propongo di esaminare criticamente, suggerite tra gli altri da Marcello Minenna, e poi da Carlo Bastasin, Marcello Messori e Gianni Toniolo, pure se tecnicamente ben disegnate, appaiono nei fatti impraticabili. Infatti esse sono basate su una improbabile cooperazione da parte dell'Unione Europea e dei paesi dell'eurozona: ma i paesi dell'euro e la UE non ci faranno certamente sconti e difficilmente collaboreranno per tirarci fuori dai guai. Possiamo ritornare a crescere solo se i nuovi governi prenderanno delle decisioni autonome, coraggiose e innovative.
Il debito pubblico continua a crescere in una spirale perversa
Il debito di stato aumenta costantemente da diversi decenni: il problema è che lo stato italiano fa nuovi debiti per pagare gli interessi sul debito. È un circolo vizioso. Infatti il debito continua costantemente a crescere. Alla fine del 2017 l’Italia aveva un debito pubblico di 2.256 miliardi di euro, di cui circa l’84% (1.911 miliardi) rappresentato da Titoli di Stato negoziabili sul mercato finanziario. In valore assoluto il nostro debito segue solo quello degli USA, pari a 20mila miliardi di dollari, Giappone, 11,5 mila miliardi e Cina, 5000 miliardi circa.
Il nostro debito è elevato non tanto per il suo valore assoluto ma soprattutto perché rappresenta il 132% del Prodotto Interno Lordo: così gli investitori temono che difficilmente possiamo ripagarlo con le nostre attività produttive. Nel mondo siamo dietro solo a Giappone, che ha un rapporto debito/PIL pari al 240%, e alla Grecia, 180%. Siamo terzi nella classifica mondiale. Un primato italiano assai poco invidiabile.
La realtà è che l'Italia produce ogni anno più debito che reddito. Infatti la crescita reale del PIL italiano è attualmente dell'1,5%, l'aumento dell'inflazione è pari a circa 0,8%, quindi noi cresciamo nominalmente del 2,3%, mentre il servizio del debito che paghiamo ai mercati finanziari è pari a circa il 4% del PIL (60-70 miliardi all'anno). La spirale del debito pubblico affonda la nostra economia. E può affondare anche la democrazia. Il confronto tra i partiti rischia di diventare puro ornamento decorativo se l'economia non cresce e se restiamo schiavi del debito, cioè della grande finanza. Occorre una svolta decisa.
Dal 1980 ad oggi lo stato italiano con le tasse dei cittadini ha pagato oltre 3400 miliardi di euro per interessi sul debito, senza peraltro riuscire ad abbassarlo[2]. Una cifra enorme. A chi dobbiamo restituire il debito attualmente? Alla grande finanza: gli operatori stranieri contano per circa il 35,5%, le banche nazionali e i fondi monetari per il 18,4%, le assicurazioni e i fondi di investimento per il 23%, e la Banca d’Italia per circa il 18%. Le famiglie italiane, i piccoli risparmiatori, detengono ormai soltanto il 5% circa del debito pubblico. Non investono più nei titoli pubblici del loro Paese[3].
La verità è che il pericolo di fallimento dello stato italiano è sempre presente. Non a caso fondi giganteschi, che gestiscono in maniera speculativa centinaia di miliardi di dollari, come Bridgewater, il più grande fondo d’investimento al mondo, scommettono al ribasso contro Piazza Affari, contro le banche italiane e i titoli di stato.
I rischi davanti a noi sono molteplici:
a) la fine del Quantitative Easing da parte della Banca Centrale Europea. Con la fine del QE, che prevede l'acquisto di titoli pubblici da parte della BCE, è certo che i tassi di interesse aumenteranno e che quindi l'Italia dovrà pagare di più per servire il debito di stato;
b) l'incertezza politica: ovvero non si sa come sarà effettivamente governata l'Italia;
c) la necessità per il prossimo governo di sterilizzare circa 30 miliardi di aumento dell'IVA;
d) l'introduzione del Fiscal Compact, cioè l'inasprimento previsto delle politiche europee di austerità e di rientro accelerato dal debito.
La proposta più pericolosa per l'Italia, proveniente dagli economisti e dai politici europei cosiddetti “falchi”, come l'ex ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble, è però quella che alle banche nazionali sia imposto un tetto limitato per il possesso dei titoli pubblici del loro paese, e/o che questi non siano più considerati privi di rischio, e che quindi richiedano una copertura di capitale. In tal caso le banche nazionali sarebbero costrette a vendere-svendere molte decine di miliardi di debito pubblico italiano.
Se passasse questa proposta – con il falso pretesto di disaccoppiare la possibile crisi degli stati da quella delle banche e viceversa – le banche dovrebbero affrontare grandi difficoltà di bilancio, ma soprattutto il debito pubblico sarebbe in gran parte denazionalizzato e lo stato italiano sarebbe completamente dipendente dagli umori e dai capricci dei mercati finanziari. L'Italia cadrebbe in completa balia della speculazione internazionale. Occorre invece nazionalizzare il debito e cercare di dipendere meno possibile dal capitale estero.
Il debito in moneta straniera porta facilmente al fallimento
Chiariamo un concetto di base, che però la maggioranza degli economisti ignora o nasconde: un elevato debito pubblico di per sé non è un problema gravissimo se lo stato ha sovranità monetaria, cioè se lo stato può ripagare il debito emettendo moneta propria. E' invece un problema quasi insormontabile se lo stato non ha sovranità monetaria e se è indebitato in una moneta estera, ovvero in una moneta emessa e controllata da altri governi e istituzioni, come è l'euro per l'Italia – e come è per esempio il dollaro per i Paesi del sud America –.
Per esempio: nel 2017 il Giappone ha registrato un debito pubblico mostruoso pari a circa 11,5 mila miliardi di dollari, circa il 240% rispetto al PIL. Ma il Giappone è indebitato in yen, cioè con una moneta che può stampare a volontà. Non potrà mai fare bancarotta sulla sua moneta. Inoltre il Giappone è indebitato per il 90% circa con sé stesso, con le sue banche e i suoi abitanti, e non con gli operatori esteri, che sono anche gli operatori più propensi alla speculazione del “mordi e fuggi”. E ha una posizione finanziaria netta positiva, cioè ha più crediti verso l'estero che debiti. Nessuno allora pensa che il Giappone possa fallire, nonostante il debito pubblico stratosferico.
Il maggiore debito pubblico a livello mondiale è detenuto in assoluto dagli Stati Uniti d'America: lo stato federale ha un debito enorme, pari a 20 mila miliardi di dollari. Ma gli USA non hanno problemi: nonostante il loro enorme debito e la bilancia commerciale in deficit, non falliranno mai, perché sono indebitati nella loro moneta sovrana, il dollaro, che la FED, la banca centrale americana, può stampare a piacere. Inoltre il biglietto verde è la valuta internazionale che tutti usano per regolare le transazioni tra Paesi (questo tra l'altro garantisce alla moneta nord-americana il cosiddetto “privilegio esorbitante”, cioè di pagare i debiti esteri in una moneta di sua proprietà).
Chi ha sovranità monetaria può sempre ripagare il debito emesso nella sua moneta: basta che la Banca Centrale crei nuova moneta e copra il debito! Tuttavia è chiaro che il debito pubblico può diventare un problema irresolubile anche per gli stati che hanno sovranità monetaria: uno stato può infatti fare bancarotta perché stampa troppa moneta e causa inflazione all'interno e svalutazione all'esterno. Si produce allora caos monetario e ipersvalutazione (come nel caso dello Zimbabwe, ma anche dell'Argentina per esempio).
Tuttavia, uno stato sovrano che conduce una politica economica e monetaria sufficientemente accorta difficilmente va in fallimento; mentre uno stato che non controlla la moneta può molto facilmente andare a rotoli. Non a caso stati anche relativamente “piccoli”, come Israele, Islanda, Sud Corea, Svizzera, Svezia, Norvegia, si guardano bene dal cedere la loro sovranità monetaria. L'Italia invece l'ha ceduta entrando nell'euro.
La situazione italiana è tanto più grave dal momento che non solo non abbiamo sovranità monetaria ma che, come noto, a causa del trattato di Maastricht, alla BCE è fatto obbligo di non sottoscrivere i debiti di stato. Caso unico al mondo, i paesi dell'eurozona anche di fronte a improvvise crisi finanziarie, sono quindi lasciati senza protezione in balia dei mercati finanziari. Inoltre ormai tutte le nostre banche più importanti, come Unicredit e UBI Banca, sono in prevalenza – a parte l'importante eccezione di Intesa Sanpaolo – in mano a investitori e azionisti esteri.
A differenza che in Francia e in Germania, dove sono numerosi e importanti gli enti di credito pubblici, l'Italia non ha mantenuto istituti creditizi pubblici che possano contribuire alla politica economica nazionale. Lo stato italiano è azionista di maggioranza di MPS solo perché è intervenuto (di malavoglia) per salvarla dal fallimento in vista della sua privatizzazione. Dovrebbe invece fare leva su MPS e su altre istituzioni pubbliche e parapubbliche – come Cassa Depositi e Prestiti e Poste Italiane – per una politica di sviluppo e di riassorbimento del debito. E dovrebbe incentivare anche fiscalmente gli enti e le società nazionali – come le assicurazioni – ad acquistare il debito pubblico.
È irrazionale e poco efficiente indebitarsi sui mercati finanziari
Come si indebita lo stato? Lo stato vende l'85% del suo debito con il meccanismo delle aste. Le maggiori banche d'affari nazionali e internazionali svolgono il ruolo di Primary Dealers, ovvero sono i primi sottoscrittori nelle aste[4]. Queste banche sono abilitate dal Tesoro a svolgere la funzione di market maker per la quale sono previsti obblighi di sottoscrizione (almeno il 3% dell'importo) e di negoziazione di volumi sul mercato “secondario” (vendita al dettaglio).
I titoli collocati sul mercato secondario sono negoziati e scambiati ai prezzi fissati dalla domanda e dall'offerta. Se la sfiducia nei confronti del Paese che ha emesso i titoli sale, il prezzo dei titoli diminuisce – e, a parità di tasso di interesse del titolo, sale il rendimento –. Il contrario accade – e quindi sale il prezzo e si abbassa il rendimento – se c'è fiducia che lo stato debitore ripaghi i suoi debiti a scadenza.
Il prezzo del mercato secondario costituisce l’indicatore principale della percezione del rischio diffuso tra gli operatori: quindi condiziona direttamente le caratteristiche della domanda al momento delle aste. I Primary Dealers fanno insomma offerte sui titoli di stato in base ai rendimenti dei titoli sui mercati secondari. Così vince la speculazione, che, nel caso degli stati indebitati, opera prevalentemente al ribasso. Quello della Bce con il Quantitative Easing è invece un ruolo rialzista perché le sue operazioni di acquisto sul mercato secondario vengono realizzate con l’obiettivo di sostenere il valore delle obbligazioni di stato contribuendo così alla riduzione dei rendimenti.
Il valore dei titoli oscilla molto sul mercato, e il rischio associato allo stato italiano è certificato dalle discusse agenzie americane di rating. Lo spread misura il differenziale tra il rendimento dei titoli tedeschi a dieci anni e quelli italiani; è assai variabile: era per esempio di 0,26% nel 2006 durante il governo Prodi e 5,74% durante il governo Berlusconi nel 2011 (che poi infatti cadde in seguito alla speculazione internazionale e alla pressione dei governi di Berlino e Parigi e della UE).
Nel novembre 2011, all'apice della crisi dell'euro, la Grecia vendeva i suoi titoli a 10 anni a un tasso del 32,81% (con uno spread di 31%), il Portogallo viaggiava all’11,83%, l’Irlanda all’8,33%, l'Italia al 7% e oltre, e la Spagna al 5,70%. Il problema è che più aumenta il rischio legato allo stato emittente dei titoli, più il mercato finanziario specula al ribasso, provocando quindi una profezia che si auto-avvera. Nel mercato finanziario se si diffonde la convinzione (magari sbagliata) della crisi di uno stato o di una azienda, gli investitori perdono fiducia e mettono in atto una serie di reazioni che ne causano effettivamente il crollo. Così funziona il mercato, irrazionale e speculativo.
I derivati: la mina vagante del debito pubblico italiano
La vicenda gravissima dei derivati, per la quale la procura della Corte dei Conti ha citato in giudizio la banca d'affari Morgan Stanley e alcuni ex ed attuali dirigenti del Tesoro per danni alle finanze pubbliche che assommano a circa 4 miliardi, dimostra in maniera lampante come la speculazione possa danneggiare l'economia italiana. I contratti derivati sottoscritti dallo stato italiano per proteggersi dalle oscillazioni dei tassi di interesse valgono per circa 126 miliardi e però ai valori attuali di mercato comportano, secondo i dati forniti dal Tesoro, una perdita di 31 miliardi. Una cifra enorme, pari a quella di una manovra finanziaria, che rischia però di ampliarsi ancora.
Secondo la procura della Corte dei Conti lo stato avrebbe irresponsabilmente firmato con Morgan Stanley un contratto derivato sull'oscillazione dei tassi di interesse sottoscrivendo clausole vessatorie e completamente squilibrate, ovvero a favore solo della banca d'affari; e poi, nel mezzo della crisi finanziaria del 2011-2, il Tesoro, su richiesta della banca americana, avrebbe pagato immediatamente e senza opporre alcuna resistenza giuridica (come invece avrebbe dovuto) circa 3 miliardi, agendo sotto una sorta di implicito ricatto: quello che la banca americana, nel bel mezzo della crisi italiana, non avrebbe più sottoscritto quote importanti di debito pubblico, innescando la probabile precipitazione della crisi stessa.
Il giudizio di merito spetta alla magistratura: tuttavia la vicenda dimostra che lo stato è la parte di gran lunga più debole nelle transazioni finanziarie con i grandi investitori internazionali. Giustamente CGIL e Federconsumatori si sono costituiti parte civile nel processo in corso.
Le proposte di Padoan, Visco e Cottarelli: l'avanzo primario dovrebbe passare dal 2 al 4%.
Come uscire dalla crisi? Le grandi banche d'affari e gli investitori finanziari, la Commissione Europea, la Banca Centrale Europea, il Fondo Monetario Internazionale propongono e impongono manovre basate su nuovi tagli alla spesa pubblica (spending review) e al costo del lavoro, sulla privatizzazione dei servizi pubblici e in pratica sulla svendita delle risorse nazionali.
Ma l’“austerità espansiva” tende a ridurre il PIL e a segare l'albero su cui si è seduti. Infatti in situazione di crisi e di forte sottoutilizzo delle risorse produttive il moltiplicatore è superiore a uno. Questo vuole dire che se diminuisci la spesa di un euro, o se aumenti le tasse di un euro, il PIL si riduce più di un euro. Quindi il rapporto debito/PIL aumenta, come hanno dimostrato le manovre controproducenti effettuate dal governo Monti e dai governi successivi. Quando arrivò a Palazzo Chigi nel novembre 2011 per salvare il Paese da un destino greco, Mario Monti trovò una ratio debito/PIL al 119%, mentre quando se ne andò, dopo una dose da cavallo di austerità, quella stessa ratio era al 126,5% semplicemente perché il PIL era diminuito.
Dunque, l'austerità non funziona. Questa ricetta provoca la rovina della economia e della società italiana, la fine della coesione sociale e la subordinazione dell'economia italiana al capitale estero e agli stati forti (Germania e Francia, e ovviamente USA ed UK). Così ci avviamo tristemente verso il suicidio dell'economia e della società italiana.
Dobbiamo sentirci in colpa per avere acceso troppi debiti? Viviamo al di sopra delle nostre possibilità? È vero il contrario. Gli italiani hanno vissuto per oltre due decenni al di sotto delle loro possibilità per pagare con le loro tasse gli interessi sul debito agli investitori nazionali e internazionali. E i politici italiani da troppo tempo si sono subordinati agli interessi del grande capitale finanziario invece di fare gli interessi dei cittadini e degli elettori. Per questo motivo tutti i partiti al governo hanno finora perso le elezioni.
Dal 1992 in poi, con una sola eccezione (nel 2009), l'avanzo primario italiano – che segnala il fatto gravissimo che i contribuenti pagano più tasse di quanto lo stato spende per i servizi ai cittadini – vale circa l'1-2% del PIL (dai 20 ai 30 miliardi circa). Questi avanzi non sono stati e non sono tuttora sufficienti a coprire gli oneri del debito (circa 60-80 miliardi all'anno). Anche dopo avere riscosso più tasse di quanto spende, lo stato italiano (senza più sovranità monetaria) è quindi costretto a rivolgersi alle banche d'affari e ai mercati per pagare gli interessi sui debiti che deve alle banche d'affari e agli operatori di mercato!
Per raggiungere il pareggio di bilancio, l'ineffabile Pier Carlo Padoan, ex ministro delle Finanze, intende fare crescere l'avanzo primario dall'1,7% del PIL del 2017 al 3,7% circa del 2020. Ignazio Visco, governatore della Banca d'Italia è ancora più drastico: secondo Visco “con un tasso di crescita annuo intorno all’1%, l’inflazione al 2% (coerente con l’obiettivo della Bce) e con l’onere medio del debito in graduale risalita verso i valori osservati prima della crisi, sarebbe necessario mantenere l’avanzo primario intorno al 4% del Pil per ridurre il debito pubblico italiano al disotto del 100% entro dieci anni”.
In questo modo i contribuenti dovrebbero essere spremuti e pagare ogni anno ai creditori dello stato circa 60-70 miliardi per servire il debito pubblico. Si tratta di un gigantesco e insopportabile salasso che va a scapito della sanità, delle pensioni, dell'istruzione e della ricerca, e che è completamente a favore della grande finanza.
Anche secondo Carlo Cottarelli, economista, già commissario alla Spending Review, e prima ancora capo del dipartimento Politiche di bilancio al Fondo monetario internazionale, attualmente direttore dell'Osservatorio sui conti pubblici dell'Università Cattolica, per ridurre il rapporto debito/PIL l'avanzo primario deve raddoppiare nei prossimi tre anni e passare dal 2 al 4%[5].
Secondo Cottarelli, che si è anche proposto come capo “tecnico” (cioè non eletto dai cittadini) di un futuro governo, basterebbe sostanzialmente congelare le spese e le tasse in termini reali e fare affidamento sulla (peraltro debole e incerta) crescita nominale del PIL per riuscire a diminuire il rapporto debito/PIL.
L'ex economista del FMI, è ottimista: per lui il debito pubblico è sostenibile, a patto che non accadono “shock esterni” e che ... i cittadini stringano ancora la cinghia! I dati esposti dall'ex economista del FMI sono questi: la maturity del debito è di 82,81 mesi (quasi sette anni). Il tasso d’interesse medio ponderato dello stock dei titoli in circolazione si attesta al 2,77%: quindi è superiore alla crescita del PIL nominale. Tuttavia attualmente il tasso medio all’emissione è ai minimi storici: 0,68% è il tasso medio nel 2017.
Secondo Cottarelli, per tutti questi motivi, al netto di avvenimenti straordinari esogeni (nuove crisi finanziarie o politiche), il debito per i prossimi due/tre anni dovrebbe essere relativamente sostenibile e resiliente. L’unico evento realmente critico per la sostenibilità del debito pubblico italiano sarebbe una eventuale e prossima recessione globale che coinvolga anche l’Italia.
Cottarelli appare però troppo ottimista: ammesso e non concesso che non ci saranno shock economici esterni, la sua soluzione sarebbe molto fragile e non rappresenterebbe la svolta necessaria per l'economia italiana. I creditori sarebbero gli unici beneficiari del mostruoso avanzo primario che Cottarelli auspica. Ma il 4% di avanzo primario non è stato richiesto dalla famigerata Troika neppure alla Grecia per saldare il suo debito. La Troika si è “accontentata” del 2,5% circa.
Un'altra soluzione sarebbe invece assai più efficace e non dolorosa: uno stato che controllasse una banca pubblica potrebbe farsi finanziare il deficit dalla sua banca pagando un interesse vicino a quello che la BCE offre da anni – cioè un tasso di interesse vicino allo zero –. In questo modo il debito pubblico comincerebbe da subito a diminuire[6].
Le proposte alternative per ridurre il rapporto debito/PIL: alcune efficaci, altre velleitarie
Circolano diversi progetti alternativi a quelli ufficiali basati sull'austerità e sulla crescita dell'avanzo primario; però solo alcuni di questi sono effettivamente efficaci.
In via preliminare occorre sottolineare che le soluzioni effettivamente praticabili per ridurre il debito e fare ripartire l'economia dovrebbero godere delle seguenti caratteristiche fondamentali:
- rispettano le regole attuali dell'eurozona e le regole di mercato e quindi non producono nuove rotture drammatiche e ulteriori crisi finanziarie, istituzionali e economiche che potrebbero essere definitivamente rovinose per l'economia italiana. Non avanzo per esempio proposte di ripudiare o “ristrutturare” il debito, o di non rispettare lo stupido e iniquo trattato di Mastricht. Mi propongo invece di osservare in pieno le norme europee e le regole di mercato, non perché le ritenga giuste ed efficienti, tutt'altro! ma per evitare ulteriori problemi, nuove crisi e probabili ritorsioni.
- non provocano rotture e proteste sociali, anzi tutelano la coesione sociale, il risparmio e le attività produttive. Non propongo le solite ricette finora applicate, come ridurre le pensioni, le spese per la sanità, l'istruzione e la ricerca, o aumentare le tasse. Se, come suggerisce l'OECD, per pagare i creditori si aumentassero le imposte sulle ricchezze dei super-ricchi (il 10% della popolazione italiana che controlla il 43% della ricchezza totale) si verificherebbe quasi certamente una precipitosa fuga dei capitali. E se si imponessero imposte straordinarie ai cittadini italiani per diminuire il debito pubblico, si scatenerebbe una forte protesta sociale. Le proposte che qui si avanzano tendono a essere socialmente eque e vogliono evitare di aggravare i problemi sociali.
- non pretendono di risolvere subito problemi strutturali e cronici, che devono essere assolutamente affrontati, ma che per loro natura richiedono tempi medi e lunghi di risoluzione. Non proporrò quindi di sistemare subito i problemi del mercato del lavoro e della produttività; dell'evasione e dell'elusione fiscale; della corruzione dilagante e della sottrazione di risorse da parte dell'economia criminale, ecc, ecc. Le riforme per l'equità e lo sviluppo sostenibile sono indispensabili ma sono complesse e hanno scadenze lunghe. La ripartenza dell'economia deve invece essere rapida.
- sono tecnicamente praticabili in tempi brevi o medi. Occorre fare presto per risolvere la crisi italiana: la crisi dell'eurozona potrebbe essere incombente e l'Italia è l'anello più debole della catena. A livello globale quasi tutti gli analisti prevedono possibili imminenti crisi finanziarie. Il ciclo positivo dell'economia finanziaria mondiale si sta chiudendo sotto il peso di un enorme e crescente debito globale e nuove tempeste internazionali potrebbero colpire in particolare i paesi più esposti, come l'Italia. Le proposte qui esposte costituiscono una sorta di carburante per rimettere in moto un motore che si è spento. Solo un motore con la benzina può ripartire ed essere poi aggiustato o modificato. Se invece l'economia è schiacciata dal peso del debito pubblico, non può né ripartire né essere riformata.
- possono essere decise e attuate autonomamente dai governi e dai parlamenti nazionali. Questo è il punto cruciale, decisivo. Il fallimento di ogni iniziativa è assai probabile se non si esercita una autonoma sovranità decisionale e se i centri di potere deliberativo sono all'estero. È ovvio che le soluzioni che richiedono l'assenso dei centri decisionali dell'eurozona per essere realizzate – e che quindi abbisognano del consenso della Commissione UE, del Consiglio Europeo, della Banca Centrale Europea, dell'Eurogruppo, e dei governi che dominano l'Europa, in primis quelli di Berlino e Parigi – hanno assai meno probabilità di essere attuate concretamente.
È per esempio praticamente e politicamente impossibile “riformare” la BCE (come chiedono alcuni economisti) in maniera tale che essa continui il QE per aiutare gli stati deboli. Ed è anche irrealistico proporre che la BCE cancelli o che congeli (per esempio per i prossimi 50 anni) i debiti pubblici già acquistati, come è stato ripetutamente proposto da molti economisti e politici “riformatori” dell'eurozona[7]. Occorre prendere atto definitivamente che i governi tedeschi e quelli del nord Europa (Francia compresa) non approveranno mai la monetizzazione dei debiti pubblici e una politica di cooperazione che possa comportare anche un minuscolo trasferimento di risorse a favore dei Paesi del Mediterraneo.
Minenna e l'assicurazione sul debito pubblico: ma l'ingegneria finanziaria non funziona per ridurre il debito
Per garantire il debito pubblico italiano e dei paesi dell'eurozona, Marcello Minenna propone che i paesi dell'eurozona paghino un premio assicurativo allo European Stability Mechanism (ESM), il cosiddetto “fondo Salvastati” [8]. Il debito pubblico italiano verrebbe gradualmente assicurato dall'ESM – che riceverebbe per questo un pagamento da parte italiana – fino alla copertura integrale dei debiti nel giro di una decina di anni[9].
In dieci anni, secondo i calcoli di Minenna, l'Italia pagherebbe circa 56 miliardi di euro al ESM sotto forma di premi assicurativi. Gli investimenti pubblici associati e alimentati dall'ESM aumenterebbero però il PIL dell'Italia di 150 miliardi di euro.[10]
La proposta di Minenna è stata fatta propria dalla nuova formazione di sinistra Liberi e Uguali. Inoltre è ben vista dalla CGIL e trova buona accoglienza presso il Movimento 5 Stelle. Secondo Minenna “i titoli emessi costituirebbero un primo embrione di eurobond, capace di archiviare definitivamente lo spread e di restituirci una curva dei rendimenti governativi unica nell’area euro”.
I problemi relativi a questa proposta sono però che:
1) esistono rischi non assicurabili dai mercati ma coperti (parzialmente) solo dallo stato – come i terremoti per esempio, o l'inquinamento radioattivo legato ai disastri nucleari – e lo stock del nostro debito appare tra quelli;
2) i valori di mercato dei premi assicurativi da pagare non sono mai stabili. Se c'è crisi, il premio per garantire il debito andrebbe alle stelle. Quale valore dovrebbe allora applicare l'ESM al debito pubblico italiano?
3) è davvero estremamente improbabile – per non dire impossibile – che il Fondo Salvastati a guida franco-tedesca voglia garantire il debito italiano; se Berlino e Parigi accettassero di garantire con i loro fondi il debito pubblico italiano chiederebbero un rendimento elevato e soprattutto la possibilità di gestire direttamente la politica di bilancio italiana. I due governi esteri invocherebbero sicuramente l'arrivo della cosiddetta Troika (UE, BCE, FMI) o qualcosa di molto simile.
Anche Carlo Bastasin, Marcello Messori, Gianni Toniolo ritengono che l'European Stability Mechanism possa e debba giocare un ruolo essenziale per risolvere la crisi italiana del debito[11]. In pratica propongono che l'ESM acquisti temporaneamente parte del patrimonio pubblico italiano in modo da alleggerire in modo sostanziale il debito e da soddisfare i vincoli del Fiscal Compact[12]. Il patrimonio acquisito temporaneamente dall'ESM verrebbe però, tramite apposita opzione contrattuale tra Italia e ESM, restituito a scadenza concordata, per esempio dopo circa 10 anni. Dopo che l'Italia ha risanato i conti pubblici, l'ESM rivenderebbe le quote acquistate allo stato italiano a prezzi convenuti dall'inizio.
Ma anche questo progetto appare nella pratica velleitario e irrealizzabile. E' politicamente assai difficile imporre all'ESM l'obbligo di acquistare quote di fondi patrimoniali dei paesi debitori e di restituirle poi a termine. E' difficile che Berlino e Parigi siano interessate a una simile proposta. Inoltre, sul fronte interno, la costituzione di un fondo patrimoniale nazionale sarebbe particolarmente complessa; e sarebbe politicamente difficile per uno stato cedere anche solo temporaneamente una parte sostanziale del proprio patrimonio pubblico a una istituzione europea: l'opinione pubblica potrebbe non accogliere benevolmente questo “esproprio”.
Richard Werner: lo stato deve indebitarsi con le banche e non con i mercati finanziari[13]
Secondo l'autorevole economista tedesco Richard Werner, la soluzione più efficace e immediata per diminuire il debito pubblico è quella che lo stato si faccia prestare i soldi direttamente dalle banche commerciali invece di indebitarsi – come fa attualmente – con i mercati finanziari emettendo titoli negoziabili.[14]
Secondo Werner, i governi per finanziare i deficit pubblici dovrebbero preferibilmente indebitarsi direttamente con le banche private – o possibilmente con una banca pubblica, aggiungo io – accendendo dei prestiti di lunga durata a bassi tassi di interesse. Infatti nella quasi totalità dei casi, i prestiti concessi dalle banche ai grandi enti economici hanno tassi di interesse più bassi di quelli applicati sul mercato finanziario. Inoltre (e soprattutto) i prestiti bancari non sono soggetti alle incertezze e alla dinamica altalenante e speculativa del mercato dei titoli di Stato, e non sono soggetti alle valutazioni spesso erronee e tendenziose delle agenzie di Rating: queste hanno spesso emesso giudizi di downgrade che hanno danneggiato gli stati e i settori pubblici e che hanno contribuito non poco alla crisi dei debiti sovrani.
Una soluzione del tipo di quella attualmente proposta da Werner venne adottata in Gran Bretagna durante la Seconda Guerra Mondiale quando, anche su consiglio di John Maynard Keynes, il Tesoro britannico si fece prestare dalle banche dei fondi all'1,125% di interesse.
Anche le banche potrebbero guadagnare dei notevoli vantaggi prestando soldi allo stato. Innanzitutto questi prestiti non sono valutati con il metodo mark to market e quindi rappresentano una voce contabile stabile e non soggetta a variazioni negative nelle fasi di crisi[15]; inoltre, secondo le regole di Basilea i prestiti allo stato sono classificati come sicuri, non richiedono di essere coperti da un incremento di capitale della banca prestatrice, e possono anche essere utilizzati come collaterali presso la BCE. Così le banche avrebbero il miglior rapporto capitale/rischio e potrebbero anche offrire più credito all'economia reale.
Infine questa soluzione ha un merito che mi sembra di fondamentale importanza: essa permette di nazionalizzare il debito e di non esporlo alla speculazione di soggetti stranieri che, ovviamente, mirano al loro profitto e non all'interesse nazionale. E che sono più rapidi a fuggire nelle situazioni di crisi, cioè proprio nei momenti in cui c'è più bisogno di capitali.
In base alla proposta di Werner si potrebbe ipotizzare che in Italia una banca pubblica, per esempio MPS, o anche un consorzio di banche e istituzioni finanziarie pubbliche e private, concedano prestiti di lungo periodo allo stato. Il tasso di interesse sarebbe stabile e vicino a quello BCE, cioè vicino allo zero, e la banca pubblica opererebbe come calmiere nei confronti del mercato finanziario. MPS, ma anche in futuro probabilmente Cassa Depositi e Prestiti e Poste Italiane, o magari anche Intesa Sanpaolo, potrebbero giocare un ruolo importante in questo senso.
Se la banca pubblica assumesse i debiti di stato, una quota parte degli interessi maturati sui crediti concessi allo stato ritornerebbe allo stato azionista sotto forma di dividendi sugli utili con grande vantaggio per le casse pubbliche. Il comma 2 dell'articolo 123 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea prevede già che gli enti creditizi di proprietà pubblica possano ricevere finanziamenti dalla BCE[16]. E niente impedisce che questi finanziamenti siano utilizzati per prestiti allo stato. Su un debito pubblico italiano attuale di circa 2.200 miliardi e scadenze annuali di circa 400 miliardi, questo significherebbe pagare interessi annui per circa 10 miliardi invece che per gli oltre 60 attuali.
Giovanni Zibordi e Claudio Bertoni hanno avuto uno scambio di mail con la BCE a proposito della possibilità che banche pubbliche assumano i debiti di stato[17]. E, a loro richiesta, la BCE ha così risposto: “il divieto di scoperto bancario e di altre forme di facilitazione creditizia in favore dei governi non si applica agli enti creditizi di proprietà pubblica che, nel contesto dell’offerta di liquidità da parte delle banche centrali, devono ricevere dalle banche centrali nazionali e dalla Banca centrale europea lo stesso trattamento degli enti creditizi privati”. Inoltre, in riferimento a banche pubbliche: “gli istituti di credito possono liberamente prestare i soldi ai governi o comprare i loro titoli di stato, nonché prestare soldi a qualsiasi cliente”. Il via libera da parte della BCE appare scontato.
Fratianni e Savona: separare il sistema dei pagamenti dal credito bancario
Un progetto per alcuni aspetti analogo a quello di Werner ma ancora più radicale – quindi più efficace ma non facile da realizzare in tempi brevi –, è prospettato dall'economista Michele Fratianni[18] in collaborazione con Paolo Savona[19].
I due firmatari propongono una profonda e ambiziosa riforma del sistema monetario e bancario. “La nostra proposta si cala nel solco di una letteratura economica che va indietro nel tempo e tiene conto dei progressi tecnologici registrati ai giorni nostri. Essa consiste nel dividere le banche che raccolgono moneta (money bank) da quelle che concedono credito (credit bank) al fine di annullare i rischi e oneri di gestione delle insolvenze che gravano sui depositi, e di concentrare l’attività delle banche nella valutazione del merito per concedere credito in modo da ridurre le sofferenze”.
In effetti il progetto di Fratianni e Savona si ricollega esplicitamente e dichiaratamente al cosiddetto Chicago Plan, elaborato in Nord America all'inizio della grande crisi da economisti come Henry Simons (1933) e da Irving Fisher (1935).[20]
Secondo il Chicago Plan, il denaro raccolto con i conti correnti a vista non dovrebbe essere usato per offrire credito, e quindi come leva per “creare dal nulla” nuova moneta da parte delle banche; andrebbe invece depositato presso la banca centrale e investito in moneta legale e in sicuri titoli di Stato. La riserva bancaria frazionaria andrebbe abolita, mentre i depositi a vista dei correntisti utilizzati per i pagamenti dovrebbero essere garantiti al 100%. Tutti i tipi di prestiti – che per loro natura presentano dei rischi –- dovrebbero invece essere offerti dalle banche commerciali che sarebbero obbligate a provvedere alla loro copertura con capitale proprio, obbligazioni o altri strumenti.
Prendendo spunto da questa proposta – che peraltro non venne accettata dal presidente americano del tempo, F.D. Roosevelt – i due economisti italiani suggeriscono la separazione tra la Money Bank pubblica e le banche commerciali (Credit Bank).
Secondo il progetto di Fratianni e Savona, i risparmiatori, in cerca della massima garanzia e tutela dei loro soldi, sposterebbero su basi volontarie i loro depositi – in particolare quelli garantiti dal Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, cioè quelli fino ad un massimo di 100mila euro –[21] presso una nuova istituzione statale, la Banca-Moneta. Quest'ultima custodirebbe i depositi utilizzati per i normali pagamenti in maniera completamente sicura grazie alla loro copertura integrale dovuta ai titoli di stato e al loro inserimento nella catena telematica blockchain. Grazie a sistemi tecnologici avanzati come il blockchain, per i titolari sarà facile effettuare pagamenti con un click del telefonino o con il mouse del computer.[22]
Fratianni illustra così il meccanismo di funzionamento: “La banca-moneta finanzia con i depositi "garantibili" (lato passivo della banca) acquisti di titoli di stato (lato attivo della banca). La banca-moneta diventa un acquirente "fisso" di debito pubblico. Nel tempo lo stock di debito detenuto dalla banca-moneta cresce in virtù del fatto che la domanda di moneta è sensibile al reddito. Il debito pubblico diventa meno pesante per l'economia perché lo stock di debito detenuto dalla banca-moneta non è sensibile al tasso di interesse, in virtù della caratteristica di cliente "fisso". In sintesi; contabilmente, il debito non diminuisce ma la proposta ha come beneficio collaterale una importante riduzione della componente "interest-rate sensitive" del debito pubblico”.[23]
La Banca-Moneta guadagnerebbe il suo reddito dagli interessi sui titoli di stato di sua proprietà. Questo reddito, dopo i costi operativi e i rendimenti sul capitale, potrebbe essere trasferito ai depositanti. I rapidi progressi tecnologici nei meccanismi di pagamento – per esempio l'uso estensivo della blockchain – sono destinati a ridurre drasticamente i costi operativi di una banca monetaria rispetto a quelli di una banca tradizionale.
Le Credit Bank invece opererebbero sul mercato dei prestiti grazie a risorse che non possano generare corse agli sportelli, ovvero capitale azionario e obbligazioni di medio-lungo termine, sottoscritte ovviamente da chi intende remunerare il suo risparmio investendo sul business della banca.
Quale sarebbe in conclusione il risultato di questa operazione? Secondo le stime di Fratianni e Savona, qualora l’intera massa di depositi “garantibili” si spostasse sulla banca-moneta – processo questo molto probabile perché i risparmi sarebbero così perfettamente tutelati e i depositi meno costosi – la quota di debito pubblico negoziata sul mercato finanziario, e quindi soggetto alle incertezze e alle speculazioni caratteristiche di questo mercato, si ridurrebbe di circa 800 mdi, convergendo verso circa l’85% del PIL dall’attuale 133%.
Come è facile intuire, il progetto di Fratianni e Savona rivoluzionerebbe in maniera radicale sia il sistema monetario che quello bancario. Le banche non potrebbero più creare moneta dal nulla e di fatto l'emissione monetaria diventerebbe di competenza esclusiva della Banca Centrale. Il progetto appare quindi potenzialmente tanto efficace per garantire – e tendenzialmente anche ridurre (grazie alla diminuzione del peso degli interessi) – il debito pubblico quanto di difficile attuazione: nell'immediato troverebbe fortissime resistenze in molti ambiti, sia in campo politico che presso gli istituti bancari e monetari.
Tuttavia questa proposta diventerà probabilmente sempre più realistica considerando che le criptomonete avanzano rapidamente e che potrebbero diffondersi anche grazie al loro possibile utilizzo da parte dei giganti del web e dell'e-commerce, come Amazon e Apple.
Del resto le tecnologie blockchain sono già oggetto di sperimentazione da parte di praticamente tutte le maggiori banche centrali (BCE compresa) le quali, grazie a queste tecniche digitali, potrebbero in futuro gestire direttamente il sistema dei pagamenti senza bisogno dell'intermediazione del sistema bancario[24]. Si tratta di un processo che nel medio e lungo termine probabilmente rivoluzionerà tutto il sistema monetario e del credito. All'interno di questo processo la proposta radicale dei due economisti potrebbe trovare spazio di concreta attuazione.
Buoni Fiscali per aumentare il PIL e diminuire il debito pubblico
Il progetto relativo all'emissione di Buoni Fiscali convertibili in euro (la cosiddetta Moneta Fiscale) si distingue dai precedenti perché è mirato non a riformare il sistema bancario nazionale ma a rivitalizzare direttamente l'economia reale [25].
Esistono infatti due maniere di ridurre il rapporto tra debito pubblico e PIL: la prima è di ridurre il debito; la seconda è di far crescere il PIL. La prima maniera è dolorosa e complessa. La seconda maniera – ovvero la crescita del PIL – è certamente più felice perché comporta lo sviluppo dell'economia e la fuoriuscita dall'austerità.
Fare crescere il PIL in una situazione di deflazione è teoricamente molto semplice: occorre innanzitutto far circolare più liquidità nell'economia reale in modo che aumenti la domanda e che quindi ripartano i consumi e gli investimenti, pubblici e privati. La crisi italiana non deriva infatti dall'offerta: le capacità produttive ci sono ancora in Italia, e sono forti e vitali, come dimostra l'avanzo della bilancia commerciale con l'estero di circa 60 miliardi. La crisi ha colpito duro, ma le risorse umane e il capitale produttivo sono tuttora presenti, anche se largamente sottoutilizzate proprio a causa della carenza di domanda.
Il problema attuale dell'economia italiana si pone quindi in questi termini: come e dove trovare la moneta e la liquidità necessaria per incrementare la domanda? Se la BCE con il Quantitative Easing non è riuscita a fare circolare nuova moneta nell'economia reale, tocca al governo immettere nuova liquidità grazie alla quasi-moneta fiscale. L'emissione di buoni fiscali potrebbe finalmente ridare ossigeno all'economia e farci uscire dalla trappola della liquidità che soffoca l'economia italiana.
Che cosa sono i Buoni Fiscali che propongo? Che cos'è la moneta fiscale? Innanzitutto non è una moneta parallela alternativa alla moneta legale (l'euro) ma è uno strumento finanziario, un titolo di stato negoziabile e quindi subito convertibile in euro. La proposta è che il governo italiano emetta in maniera massiccia, ovvero per qualche decina di miliardi di euro in tre anni, Titoli di Sconto Fiscale (TSF) che diano diritto ai loro possessori di ridurre i pagamenti dovuti alla pubblica amministrazione a partire da tre anni dall'emissione.
I TSF verranno distribuiti gratuitamente a famiglie, enti pubblici e imprese e potranno però essere utilizzati solo dopo tre anni: gli assegnatari beneficeranno solo al quarto anno del taglio delle tasse e di altre obbligazioni nei confronti dello stato (tariffe, multe, ecc.) pari al valore nominale dei TSF. I TSF tuttavia, esattamente come tutti gli altri titoli di stato, come i Bot e i CCT, potranno anche essere ceduti immediatamente sul mercato finanziario in cambio di euro. Così incrementano subito la capacità di spesa dell’economia sin dal momento in cui essi vengono emessi. Il loro valore di mercato sarà analogo a quello di un titolo di stato zero-coupon a tre anni.
Sul piano istituzionale la manovra, essendo basata su titoli fiscali, è perfettamente in linea con i trattati europei poiché in campo fiscale ogni stato è formalmente sovrano.[26] In base alla proposta, il governo attribuirà i TSF senza corrispettivo (gratuitamente) a cittadini e aziende, e utilizzerà i TSF soprattutto per gli investimenti pubblici e per i pagamenti della Pubblica Amministrazione verso i suoi fornitori [27]. Gli investimenti pubblici hanno infatti un effetto moltiplicativo assai elevato, ovvero producono reddito e ricchezza aggiuntiva in poco tempo.
Lo shock monetario-fiscale renderà nuovamente vitale l'economia nazionale. Le emissioni di TSF potrebbero partire da un livello pari al 2-3% circa del PIL annuo – circa 30-40 miliardi di euro – e essere modulate e calibrate nel tempo in modo da assicurare alti livelli di occupazione senza però produrre una inflazione superiore al 3-4%, né scompensi nei saldi commerciali esteri.
L'incremento della domanda legata al maggior potere d’acquisto farà crescere il PIL in misura più che proporzionale rispetto all’emissione di TSF, inizialmente intorno al 3-4%, fino al recupero completo dell’output gap prodotto dalla crisi. Nei primi tre anni grazie alla manovra espansiva il rapporto deficit/PIL migliorerà notevolmente e quasi certamente si verificherà un surplus di bilancio. Questo dovrebbe essere accolto favorevolmente dal mercato finanziario che vedrà allontanarsi lo spettro del default.
A partire dal quarto anno dalla prima emissione, il moltiplicatore del reddito compenserà l'importo dei TSF emessi. Come insegna l'esperienza storica – e come hanno verificato Olivier Blanchard e Daniel Leigh in un noto studio effettuato per conto del FMI – il valore del moltiplicatore nelle condizioni di forte crisi e di trappola della liquidità è molto superiore a uno: così ogni euro immesso in circolazione genererà un più che proporzionale aumento del PIL. Dopo tre anni dall'emissione dei TSF, la crescita del PIL indotta dal moltiplicatore darà luogo a nuovo gettito fiscale che compenserà il costo dei TSF senza incremento di deficit e di debito pubblico.
In conclusione: questo progetto è innovativo e radicale ma è l’unico fattibile in tempi brevi per risolvere la crisi sociale ed economica. Emettere moneta fiscale è una decisione che un governo potrebbe prendere autonomamente senza rompere con l'euro e con grande consenso sociale. Il progetto di Moneta Fiscale offre inoltre l'enorme vantaggio di potere essere attuato in Italia e negli altri paesi europei mantenendo la moneta unica europea di fronte alle altre valute internazionali, come il dollaro, yen, yuan, pound. In effetti l'emissione di Titoli di Sconto Fiscale nei singoli paesi dell'eurozona potrebbe diventare il rimedio principale per affrontare una possibile (e probabile) crisi della moneta unica.
Note
[1] Comunicazione riservata della BCE al governo italiano del 5 agosto 2011. Poi rivelata dal Corriere della Sera.
[2] Vedi Scenarieconomici.it “Studio Esclusivo: l’Italia ha pagato 3.447 miliardi di interessi dal 1980 (213% del PIL)”
[3] Rapporto sul debito redatto da Carlo Cottarelli, Ambrosetti Club “La fine del Quantitative Easing in Europa e impatti sull’Italia”, 2018
[4] La lista degli Specialists in Government Bonds approvata dal Ministero Italiano delle Finanze da gennaio 2016- Banca IMI (gruppo Intesasanpaolo); Barclays Bank; BNP Paribas; Citigroup Global Markets; Crédit Agricole Corp. Inv. Bank; Deutsche Bank; Goldman Sachs Int. Bank; HSBC France; ING Bank N.V.; JP Morgan Securities; Merrill Lynch; Monte dei Paschi di Siena Capital Services Banca per le Imprese; Morgan Stanley & Co.; Nomura Int; Royal Bank of Scotland; Société Générale Inv. Banking; UBS; UniCredit.
[5] Ambrosetti Club, Rapporto sul debito redatto da Carlo Cottarelli “La fine del Quantitative Easing in Europa e impatti sull’Italia”, 2018
[6] Questa proposta è stata fatta da alcuni autori, come tra gli altri Giovanni Zibordi e Claudio Bertoni “Il debito pubblico è un problema di interessi, non di deficit eccessivi e si può risolvere”, febbraio 2014; e Paolo Ferrero nel suo libro “La truffa del debito pubblico” DeriveApprodi, 2014
[7] Vedi per esempio Marcello Minenna “Sfida ai tedeschi: tre proposte per scongiurare il rischio debito pubblico e andare verso gli Stati Uniti d’Europa” Business Insider, 16-4-2018
[8] Marcello Minenna is responsabile della Quantitative Analysis Unit in Consob (the Italian Securities and Exchange Commission). Ha insegnato Quantitative Finance alla Bocconi e alla London Graduate School of Mathematical Finance. Contribuisce con i suoi articoli al Wall Street Journal, al Corriere della Sera e è un membro dell'advisory group sull'economia del maggiore sindacato italiano, la CGIL.
[9] Minenna propone in pratica una forma di copertura assicurativa che è per sua stessa ammissione simile a quella già disponibile con un derivato che esiste da tempo, il Credit Default Swap, CDS.
[10] Financial Times, 21 novembre 2017 “Getting to Eurobonds by reforming the ESM” di Marcello Minenna.
[11] Carlo Bastasin – Senior Fellow SEP-LUISS, Brookings Institution Pierpaolo Benigno – Professore di Economia LUISS, Senior Fellow SEP-LUISS; Marcello Messori – Professore di Economia LUISS, Direttore SEP-LUISS; Gianni Toniolo – Senior Fellow SEP-LUISS, CEPR, Duke University (Emeritus)
[12] Carlo Bastasin, Marcello Messori, Gianni Toniolo, LUISS “Il Debito Pubblico Italiano: Una Proposta” Gennaio 2018
[13] Richard Andreas Werner è un economista tedesco professore di economia monetaria e dello sviluppo presso University of Southampton.
[14] Richard Werner, Journal of International Money and Finance, Volume 49, Part B, December 2014, “Enhanced Debt Management: Solving the eurozone crisis by linking debt management with fiscal and monetary policy”
[15] Cioè al loro valore corrente sul mercato finanziario: questo metodo di valutazione è deleterio perché annulla il valore dei titoli nei momenti di crisi.
[16] Articolo 123 (ex articolo 101 del TCE) 1. Sono vietati la concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia, da parte della Banca centrale europea o da parte delle banche centrali degli Stati membri (in appresso denominate «banche centrali nazionali»), a istituzioni, organi od organismi dell’Unione, alle amministrazioni statali, agli enti regionali, locali o altri enti pubblici, ad altri organismi di diritto pubblico o a imprese pubbliche degli Stati membri, così come l’acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte della Banca centrale europea o delle banche centrali nazionali. 2. Le disposizioni del paragrafo 1 non si applicano agli enti creditizi di proprietà pubblica che, nel contesto dell’offerta di liquidità da parte delle banche centrali, devono ricevere dalle banche centrali nazionali e dalla Banca centrale europea lo stesso trattamento degli enti creditizi privati.
[17] Giovanni Zibordi e Claudio Bertoni “Il debito pubblico è un problema di interessi, non di deficit eccessivi e si può risolvere”, febbraio 2014
[18] Michele Fratianni, ,Money Finance Research Group, Working paper no. 138, “It is time to separate money banks from credit banks in Italy”, M. Fratianni professore di Economia Politica presso il Department of Economics and Social Sciences of the Università Politecnica delle Marche. E professore emerito presso la Kelley School of Business, Indiana University,
[19] Michele Fratianni e Paolo Savona, Milano Finanza 11.febbraio 2017 e Scenari Economici.it “Una proposta per tagliare il debito pubblico e riformare le banche”. Paolo Savona è professore emerito di Politica economica e vice-Presidente Esecutivo dell´Aspen Institute Italia, È stato ministro dell´Industria, Commercio e Artigianato nel Governo Ciampi, presidente del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi e direttore di Confindustria.
[20] Vedi per esempio la voce “Chicago Plan” su Wikipedia. Questa progetto è stato poi ripreso con lo studio “The Chicago Plan Revisited”, un report dell'International Monetary Fund (IMF) report scritto nel 2012 da Jaromir Benes and Michael Kumhof.
[21] In effetti il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi – al quale devono aderire tutte le banche italiane aventi come forma societaria la società per azioni - .non può garantire completamente tutti i depositi dal momento che le banche consorziate sono tenute a versare solo una quota minima di copertura. L'impegno oscilla tra lo 0,4% e lo 0,8% dei fondi rimborsabili di tutte le consorziate. Al 31 dicembre 2016, i mezzi finanziari disponibili, e cioè la dotazione del FITD per rimborsare i correntisti, era di 543milioni di euro (lo 0,09% delle masse rimborsabili). Il FITD è quindi per sua natura impotente di fronte a una crisi sistemica.
[22] Una blockchain è come un registro digitale aperto e distribuito che può registrare le transazioni tra due parti in modo efficiente, verificabile e permanente. Il database sfrutta una rete peer-to-peer che si collega ad un protocollo per la convalida dei nuovi blocks. Una volta registrati, i dati in un blocco non possono essere retroattivamente alterati senza che vengano modificati tutti i blocchi successivi ad esso, il che necessiterebbe il consenso della maggioranza della rete. L’applicazione del blockchain al bitcoin ha reso quest'ultima la prima valuta digitale funzionante senza l’utilizzo di un server centrale o di un’autorità centralizzata.
[23] Comunicazione scritta da parte di M. Fratianni all'autore di questo articolo
[24] La BCE sta sperimentando la tecnologia Blockchain anche in collaborazione con Bank of Japan. La documentazione relativa a Blockchain è numerosa presso il sito BCE. Vedi per esempio “Digital Base Money: an assessment from the ECB’s perspective” Speech by Yves Mersch, Member of the Executive Board of the ECB,Helsinki, 16 January 2017
[25] Vedi l'eBook edito da MicroMega: “Per una moneta fiscale gratuita. Come uscire dall'austerità senza spaccare l'euro” a cura di Biagio Bossone, Marco Cattaneo, Enrico Grazzini e Stefano Sylos Labini, con la prefazione di Luciano Gallino.
[26] I TSF non generano debito né al momento dell'emissione né in quello dell'utilizzo, ovvero dopo tre anni dall'emissione. Infatti nel momento della creazione di TSF lo stato non sborsa soldi, e quindi non registra alcun deficit fiscale; inoltre i TSF non possono essere contabilizzati come deficit pubblico perché il governo emittente non s’impegna a rimborsarli in euro ma soltanto a concedere futuri sconti sulle tasse. E lo sconto non è mai debito. Inoltre dopo tre anni dall'emissione dei TSF, il PIL e i ricavi fiscali, per effetto del moltiplicatore keynesiano, permetteranno di ripagare il buco fiscale che altrimenti, a parità di condizioni, si sarebbe creato.
[27] Ai cittadini i TSF saranno attribuiti in proporzione inversa al reddito, privilegiando ceti sociali disagiati e lavoratori a basso reddito: questo sia per incentivare i consumi che per ovvie ragioni di equità sociale.
Una quota significativa dei TSF sarà utilizzata a sostegno di investimenti pubblici: innanzitutto un Piano del Lavoro finalizzato a realizzare infrastrutture immateriali (ricerca, scuola e università, politica attiva del mercato del lavoro, etc.) e materiali (per esempio, opere di riassetto idrogeologico e del territorio). Inoltre i TSF potrebbero essere utilizzati dallo stato per programmi di rafforzamento e riqualificazione del welfare e per il Reddito Minimo.
Alle aziende, le assegnazioni saranno attribuite principalmente in
funzione dei costi di lavoro da esse sostenute. L’attribuzione di TSF
alle aziende ridurrà i costi di lavoro, ne migliorerà immediatamente la
loro competitività, ed è mirato soprattutto ad evitare che l’effetto
espansivo sulla domanda interna crei un peggioramento dei saldi
commerciali esteri. Quindi la manovra non genererà scompensi sulla
bilancia dei pagamenti.
(19 maggio 2018)
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