Note a margine del dibattito su “La gabbia dell’euro”.
Un libro è utile nella misura in cui suscita un dibattito su un dato tema, contribuendo a chiarirne i vari aspetti, e aiutando definire con maggiore precisione le proprie posizioni. Da questo punto di vista, possono essere di interesse le questioni emerse durante le numerose presentazioni e nelle recensioni dedicate al mio libro, “La gabbia dell’euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra”.
Un limite frequente, quando si approccia la questione dell’euro e dell’uscita dall’euro, consiste nel fatto che l’aspetto economico non viene visto in relazione ai rapporti di produzione e al modo di produzione, ma viene inteso in termini tecnici. Questo porta a scindere la politica dall’economia, i cui meccanismi vengono così interpretati come fatti neutrali o naturali. Tra le varie domande rivoltemi nel corso delle presentazioni del mio libro, una mi ha particolarmente colpito: perché avessi voluto sottolineare fin dal titolo che l’uscita dall’euro fosse una cosa di sinistra, per di più in un frangente storico in cui la sinistra sembra essersi elettoralmente quasi dissolta e il concetto stesso pare abbia perso persino un significato preciso.
Le ragioni sono due.
La prima è che l’uscita dall’euro non è un processo socialmente neutrale, e, per questo, deve essere fatto da sinistra, il che, secondo la concezione originaria del termine, vuol dire dalla parte del lavoro salariato e delle classi subalterne.
La seconda risiede nel fatto che è stata proprio l’integrazione europea non solo a eliminare o a ridimensionare i tradizionali partiti socialisti in tutta Europa, ma soprattutto a snaturare il significato stesso della parola sinistra. Ciò dipende soprattutto dal fatto che la sinistra del Partito socialista europeo (Pse), rappresentata dal Pd in Italia, si è fatta promotrice e garante in prima persona del “vincolo esterno” europeo, assumendo la difesa degli interessi delle élites capitalistiche, contrapposti a quelli del lavoro salariato. La sinistra radicale, pur non avendo le responsabilità del Pse e malgrado le critiche rivolte anzitempo ai trattati europei, non è riuscita (o lo ha fatto con ritardo) a emanciparsi da una concezione dall’europeismo che lo confondeva con l’internazionalismo e quindi non è riuscita ad adottare per tempo una linea chiara e risoluta.
Si potrà dire, e a ragione, che il processo di trasformazione della sinistra e il suo slegarsi dalla difesa degli interessi del lavoro salariato (per quanto in una forma compatibile con l’esistenza di rapporti di produzione capitalistici) risale a ben prima dell’euro e può essere ricondotta alla crisi di lunga durata del capitalismo, alla globalizzazione, alla liberalizzazione dei mercati finanziari e alle delocalizzazioni, alla crisi ideologica post caduta del muro di Berlino, alle leggi elettorali maggioritarie, ecc. A parte il fatto che l’influenza del “vincolo esterno” risale a ben prima della circolazione dell’euro nel 2002, farei notare che, negli altri Paesi avanzati al di fuori della Uem, ad esempio nel Regno Unito con Corbin e persino negli Usa con Sanders, almeno una parte della sinistra, non solo non è scomparsa ma si è spostata a “sinistra” dopo l’ubriacatura liberista. Non credo che sia un caso.
Comunque la si veda, non credo sia possibile ricostruire la sinistra in Italia e altrove nell’area euro senza mettere a tema il processo di uscita dall’integrazione economica e valutaria.
Prima di entrare nel merito di come e quando rompere con la Uem e/o la Ue, bisogna però rispondere alle obiezioni alla uscita dall’euro che provengono da sinistra. Tali obiezioni, per comodità di analisi, sono raggruppabili in tre tipologie. La prima comprende quelle obiezioni che sottovalutano il ruolo dell’euro, la seconda quelle obiezioni basate sulla idealizzazione dell’Europa come terreno progressivo di lotta democratica e di unità del lavoro salariato europeo, e infine la terza è riconducibile alla posizione secondo cui, per quanto l’assetto dell’Europa sia criticabile, uscire dall’euro sarebbe disastroso e comunque ingestibile per il lavoro salariato.
In questo articolo prenderò in esame soprattutto la prima tipologia di obiezioni riservando altri articoli all’esame delle altre tipologie.
Sottovalutazione dell’euro: l’euro non è il vero colpevole
Le obiezioni del primo tipo tendono di fatto a sottovalutare l’euro e la Ue sia sul piano del loro impatto economico e sociale sul nostro Paese sia come ruolo all’interno del modo di produzione capitalistico e dei processi di ristrutturazione che lo attraversano. L’euro viene in qualche modo assolto o alleggerito delle sue responsabilità facendo emergere altri e diversi responsabili della situazione attuale. Gli argomenti principali a sostegno di tale visione sono i seguenti:
- Il declino italiano non è imputabile all’euro, ma all’assenza di politiche industriali che hanno contribuito al persistere delle fragilità della struttura industriale italiana, caratterizzata da imprese nane, scarsamente innovative e poco orientate all’export e concentrate in settori produttivi maturi (agroalimentare, turismo, beni di lusso). Di conseguenza l’exit non incide sulla risoluzione dei problemi italiani. Inoltre, l’uscita dall’eurozona renderebbe ancora più difficile esportare per l’Italia, mentre sarebbe la Germania ad avvantaggiarsi dall’uscita, in quanto una quota consistente dell’export tedesco è già indirizzata fuori dalla Ue.
- Il ritorno alla possibilità di svalutare la propria moneta, una volta usciti dal regime di cambi fissi dell’area euro, disincentiverebbe le innovazioni, ridurrebbe la produttività e favorirebbe le imprese esportatrici, localizzate al Nord, accentuando i divari regionali. Soprattutto, la svalutazione aumenterebbe l’inflazione, che porterebbe alla redistribuzione della ricchezza a sfavore della classe lavoratrice e del Mezzogiorno.
- Il ripristino delle funzioni di prestatore di ultima istanza della Banca d’Italia, che si collegherebbe all’uscita dall’euro, è un fatto meramente tecnico. Senza contare che, anche prima di entrare nell’euro, la Banca d’Italia non acquistava titoli di stato, a seguito del cosiddetto divorzio tra Banca d’Italia e ministero del Tesoro del 1981. Anche la monetizzazione del debito – cioè l’acquisto di titoli di stato da parte della banca centrale allo scopo di sostenere l’incremento della spesa pubblica – può essere utilizzata per fini molto diversi e opposti: a favore dei lavoratori o del capitale.
- Anche se è vero che gli attuali rapporti di forza sono squilibrati a favore del capitale su scala globale, l’abbandono dell’euro non porterebbe ad altro esito se non alla riproduzione su scala nazionale delle stesse dinamiche. Inoltre, lo spostamento dei rapporti di forza tra lavoratori e capitale a favore di quest’ultimo inizia molto prima e a prescindere dall’introduzione dell’euro.
- La questione dell’uscita non è una questione economica, bensì politica, relativa a chi la gestisce. Quindi, visto che è la destra, la Lega in particolare, a portare avanti questa proposta, non ha senso parlare di uscita dall’euro.
Cause primarie e secondarie, post hoc propter hoc?
Jared Diamond nel suo Armi, acciaio e malattie esprime due concetti che possono esserci utili per affrontare la questione delle cause della decadenza italiana[i]. Il primo è che, nell’analisi dei sistemi complessi, si commette frequentemente un errore: una volta individuata una causa che spiega alcuni fenomeni, si pensa che tale causa li spieghi tutti. Il secondo è che esistono catene causali, cioè di rapporti di causa-effetto di cui bisogna tenere conto. Diamond parte dalla constatazione di come gli europei, ad esempio gli spagnoli in America, si imposero facilmente sugli indigeni grazie ad armi di acciaio e da fuoco, ai cavalli e alla diffusione di malattie per quei popoli sconosciute. Però, dietro a queste cause, aggiunge Diamond, ce ne sono altre: una maggiore stratificazione sociale e una più forte organizzazione statuale. Ma non è finita qui, dietro a queste cause c’è la causa primaria che sta alla base della superiorità europea: il maggiore e più antico sviluppo della domesticazione di specie vegetali e animali, dovuto ai vantaggi geografici dell’Europa. L’errore che fanno coloro i quali spiegano le difficoltà economiche con la fragilità dell’economia italiana è esattamente speculare all’errore fatto da quelli che spiegano tutto con l’euro: rimandare tutto a una sola causa. Invece, ciò che andrebbe fatto è trovare la catena causale che lega i vari aspetti della realtà, individuando i nessi che legano la cosiddetta fragilità della struttura economica italiana, la fase storica del capitalismo e il processo di integrazione economica e valutaria europea. Qui di seguito proverò a risponde alle obiezioni rivolte all’uscita dall’euro proprio individuando tali nessi.
Il primo aspetto da chiarire è se e quanto il declino italiano, rispettivamente nel Pil e nella manifattura, sia evidente nel periodo precedente all’introduzione dell’euro. In primo luogo, bisogna tenere conto che i vincoli nelle politiche monetarie, di bilancio ed economiche vengono introdotti alcuni anni prima che l’euro entri in circolazione nel 2002, proprio allo scopo di creare le condizioni della sua introduzione, in base a quanto stabilito dagli accordi europei. Fatta tale premessa, bisogna comunque osservare che la dinamica del Pil non denota una chiara e marcata tendenza al declino, almeno in confronto alla Germania e alla Ue, nel periodo precedente all’introduzione dell’euro e soprattutto prima del picco di crisi del 2011 (Fig.1). Dal 1995 al 2007 l’Italia cresce annualmente in modo analogo rispetto alla Germania (1,5% contro 1,6%); mentre cresce meno, ma non di molto, rispetto alla media Ue dal 1995 fino al 2001 (1,7% contro 2,4%), cioè a ridosso dell’entrata nell’euro. La divergenza tra l’Italia, da una parte, e la Ue e soprattutto la Germania, dall’altra, ha inizio dopo il 2001, ma diventa, solamente a partire dal 2011, un profondo divario, il quale fino ad oggi non si è ancora ridotto. Tra 2007 e 2017 mentre l’Italia decresce per anno mediamente dello 0,6%, la Ue cresce dello 0,8% e la Germania dell’1,2%.
Fig. 1 – Andamento del Pil di Italia, Germania, e Ue (2010=100, dati a prezzi concatenati; 1995-2017)
Fonte: database Eurostat
Non si tratta di una semplice coincidenza temporale, né quindi del classico fraintendimento “post hoc propter hoc” (dopo un avvenimento = a causa di quell’avvenimento). Siamo, al contrario, in presenza di un preciso rapporto causa-effetto. Il crollo del 2011 fu dovuto all’impossibilità, di fronte alla crisi, a manovrare sui tassi di cambio e sui tassi d’interesse, e all’imposizione di una rigidissima austerità da parte del governo di Mario Monti, un vero e proprio commissariamento da parte della Bce col beneplacito del Presidente della Repubblica, Napolitano.
L’introduzione dell’euro ha condotto a una sottovalutazione del tasso reale di cambio della Germania (secondo il Fmi nel 2014 tra il 5% e il 15%), favorendone le esportazioni non solo nell’area euro ma anche negli altri paesi avanzati[ii]. Viceversa, il regime di cambi fissi costituito dall’euro ha sfavorito l’Italia, che ha dovuto procedere a una drastica contrazione della sua base produttiva e occupazionale e alla riduzione del costo del lavoro per poter recuperare competitività nelle esportazioni. Sono state proprio la forte ristrutturazione e l’austerity, combinate insieme, a deprimere pesantemente il mercato interno, che a sua volta ha inciso sul crollo del Pil dopo il 2011. Infatti, a causa dei vincoli europei, gli investimenti pubblici non solo non furono aumentati, ma furono drasticamente ridotti. In sostanza, anziché mettere in atto le tradizionali politiche anticicliche, basate sull’aumento della spesa e degli investimenti pubblici in sostituzione del calo degli investimenti privati, furono adottate misure procicliche, ossia misure che hanno accentuato l’andamento negativo del ciclo economico. Non è un caso che il Pil della Germania sia ripartito prima di quello italiano e abbia superato il livello pre-crisi, grazie all’export e all’incremento della spesa pubblica, così come è ripartito prima il Pil della Ue. Sul migliore andamento della Ue rispetto all’Italia pesano, insieme alla Germania, anche i Paesi dell’Europa orientale, che, oltre a essere fuori dall’euro, sono stati favoriti negli ultimi 15 anni da un più basso livello salariale e dalla conseguente localizzazione di parti importanti della manifattura dall’Europa occidentale, Italia compresa.
Fig. 2 – Performance relativa di industria e manifattura italiana su quella tedesca (valore aggiunto a prezzi costanti italiano in% quello tedesco)
Fonte: database Unctad
Tuttavia, l’impatto negativo dei cambi fissi per l’Italia, sebbene sia stato più marcato dopo lo scoppio della crisi, appare evidente anche in precedenza, se osserviamo la performance relativa della manifattura italiana nei confronti di quella tedesca (Fig.2). L’incidenza del valore aggiunto della manifattura italiana su quello della manifattura tedesca cresce quasi ininterrottamente dal 1970 (31%) fino al 1997 (57,5%), con una breve caduta nel periodo dello Sme, quando i cambi erano contenuti in una banda definita di oscillazione. Dopo il 1997, anno in cui viene introdotto un regime di cambi fissi che prefigura già l’euro, inizia il declino, che subisce ulteriori accelerazioni dopo il 2002, anno di introduzione dell’euro, e nel 2009, con la crisi. Quanto abbiano pesato i cambi fissi sui livelli di produzione della manifattura, attraverso il peggioramento della competitività dell’export italiano, è evidente dal confronto con l’industria (composta da manifattura, minerario, utilities e costruzioni), che cresce ancora, rispetto alla Germania, fino al 2005 e subisce un vero e proprio crollo solo a partire dal 2010. Infatti, le costruzioni, che avevano prima della crisi un peso non indifferente nella produzione di valore aggiunto dell’industria, non essendo, a differenza della manifattura, rivolte all’export, non hanno risentito dell’introduzione dei cambi fissi. Hanno, invece, risentito del crollo del mercato interno, che ha ridotto la domanda di abitazioni, e del taglio della spesa pubblica e quindi degli appalti per la costruzione e la manutenzione delle infrastrutture. L’impatto della ristrutturazione del sistema produttivo e del venire meno dello stimolo della spesa pubblica è evidente anche nel divario, creatosi dopo il 2010, tra gli investimenti fissi di capitale di Germania e Ue, da una parte, e dell’Italia, dall’altra parte, che è ben più marcato di quello osservabile nel Pil (Fig. 3).
Fig. 3 – Andamento degli investimenti fissi lordi Italia, Germania e Ue (2010=100; dati a prezzi concatenati; 1995-2017)
Fonte: database Eurostat
Del resto, la spesa pubblica italiana risulta congelata durante tutto il periodo successivo allo scoppio della crisi nel 2007-2008 (Fig. 4). La crescita nominale media annua della spesa pubblica complessiva italiana passa dal 4,1% del periodo 1995-2007 all’1,1% del periodo 2007-2017. Ciò significa che, considerando l’inflazione, la spesa rimane in termini reali quantomeno ferma ai livelli pre-crisi. Viceversa la crescita nominale della spesa pubblica tedesca aumenta dal -0,1% al 2,9%, mentre quella francese rallenta ma in modo molto più ridotto dell’Italia, dal 3,6% al 2,4%[iii]. Del resto, l’Italia ha rifiutato ogni aiuto finanziario, rispettando i vincoli di bilancio più di altri Paesi, comprese la Francia e la Spagna, la quale, sebbene condizionati all’accettazione di determinate politiche, ha ricevuto aiuti dal fondo salva-stati, provenienti anche dall’Italia, che, in questo modo, ha accresciuto ulteriormente il suo debito pubblico.
A chi sostiene che i problemi attuali derivano dalla crisi scoppiata nel 2007-2008 e che la crisi è stata globale ed è nata negli Usa rispondo che è giusto, anche se, a mio parere, le cause primarie, come vedremo più avanti, sono da rintracciarsi nella sovraccumulazione assoluta di capitale[iv] nelle aree più sviluppate, in Usa come in Europa occidentale. Ad ogni modo, è inoppugnabile che i problemi di crescita italiani derivano anche dai processi di delocalizzazione e di deindustrializzazione, che non sono collegati solo o soprattutto all’euro, bensì al più generale processo di globalizzazione e alla stessa sovraccumulazione. Tuttavia, le massicce privatizzazioni che hanno inciso su deindustrializzazione e delocalizzazione sono collegabili anch’esse al processo di adeguamento alle politiche sostenute dalla Ue e al rispetto dei vincoli di Maastricht per l’entrata nell’euro.
Fig. 4 – Andamento della spesa pubblica di Italia, Germania e Ue (2010=100, valori nominali, 1995-2016)
Fonte: database Eurostat
Ma soprattutto, ed la questione principale, bisogna considerare che l’euro e i vincoli al bilancio rendono rigida una economia e incapace della necessaria flessibilità in caso di shock esterni, come è avvenuto proprio nel 2007-2011 nell’area euro in occasione di una crisi globale. Tale rigidità strutturale può anche passare inosservata se il ciclo economico è in crescita, ma si manifesta inevitabilmente proprio in concomitanza con lo scoppio di crisi strutturali, mettendo maggiormente in difficoltà i Paesi con manifatture e servizi meno competitivi. Anzi, l’unificazione valutaria, oltre a inibire adeguate azioni di contrasto alle crisi, rende ancora più fragili le basi dell’economia, approfondendo i divari e la dipendenza tra zone centrali e zone periferiche dell’area valutaria stessa. Infatti, lo scoppio della bolla immobiliare, da cui la crisi ha preso avvio, pur non essendone la causa primaria, si è verificato non solo negli Usa ma anche nella Uem, dove a determinarla sono stati proprio i bassi tassi d’interesse praticati nei primi anni di vita dell’euro. Quindi, anche l’abbassamento dei tassi di interesse, che pure da alcuni è indicato come un grande vantaggio dell’euro, in un contesto di economie diseguali, ha posto le basi per squilibri e instabilità. Infatti, l’afflusso di capitali dal centro (Germania) alla periferia (Grecia, Spagna e Portogallo) ha determinato un forte aumento del deficit commerciale e dell’indebitamento privato (bancario e delle famiglie) della periferia. Quando la crisi e la bolla speculativa è scoppiata, in primo luogo si è generata l’insolvenza delle banche della periferia, che avevano concesso mutui e prestiti al consumo. Successivamente, una volta che i rispettivi stati nazionali sono stati costretti a intervenire a sostegno delle banche a rischio di fallimento, si è prodotto il rigonfiamento del debito pubblico e il pericolo di default, anche perché a quel punto l’Europa ha inasprito l’austerity con il Fiscal compact (2012). In sintesi, si può dire che l’euro stesso rientra nella logica interna del processo di globalizzazione, cioè nel processo di internazionalizzazione dei mercati delle merci e dei capitali.
Mancanza di politica industriale, c’entra qualcosa la Uem?
Quanto detto sopra non significa che l’Italia non sconti la mancanza di una politica industriale e da prima che l’euro venisse introdotto. Va, però, precisato che, quando ricostruiamo la storia economica degli ultimi decenni del nostro Paese, dobbiamo considerare che è dagli anni ’80 che l’indirizzo in termini di politica economica dei governi è condizionato dal “vincolo esterno” europeo e che le scelte fatte sono state ispirate sin dall’inizio degli anni ’90 al raggiungimento delle condizioni per poter entrare nella moneta unica, all’interno delle quali, come detto, la dismissione di imprese statali ha avuto un ruolo centrale. Ma la domanda giusta da farsi è un’altra: è possibile impostare e mettere in pratica una politica industriale entro l’euro? E più precisamente: è possibile una politica industriale basata sul ruolo centrale del pubblico? La risposta non può che essere negativa. La politica economica è infatti di competenza non dei singoli stati, ma dell’Unione, come è definito all’art. 119 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea:
“L’azione degli Stati membri e dell’Unione comprende, alle condizioni dei trattati, l’adozione di una politica economica che è fondata sullo stretto coordinamento delle politiche economiche degli stati membri (...). Parallelamente, alle condizioni e secondo le procedure previste dai trattati, questa azione [quella di definire una politica economica] comprende una moneta unica, l’euro, nonché la definizione di una politica monetaria e di cambio uniche che abbiano l’obiettivo principale di mantenere stabili i prezzi (...). Queste azioni dell’Unione e degli stati membri implicano il rispetto dei seguenti principi direttivi: prezzi stabili, finanze pubbliche e condizioni monetarie sane affinché la bilancia dei pagamenti sia sostenibile. ”
In sintesi, non è possibile una politica economica e quindi una politica industriale, in cui lo Stato possa intervenire direttamente nella produzione di beni e servizi, in cui si possano effettuare nazionalizzazioni di imprese e banche, dirigere gli investimenti produttivi verso il Mezzogiorno, ecc. all’interno del quadro dell’integrazione economica e monetaria europea, a causa dei vincoli di bilancio, di regole che ad esempio vietano esplicitamente gli aiuti di stato e soprattutto in presenza di una politica monetaria che ricade sotto il controllo dell’Europa.
La fragilità industriale italiana: l’euro come leva di ristrutturazione
L’economia e le imprese italiane certamente presentano delle fragilità, soprattutto nei confronti della Germania, che ad esempio nella manifattura ha oltre 4mila imprese sopra i 250 addetti, contro le 1200 italiane, le cui dimensioni medie in valore aggiunto prodotto sono appena il 70% delle tedesche[v]. Non bisogna, però, esagerare le fragilità italiane. Le imprese italiane non esportano? Non sembrerebbe. La bilancia commerciale italiana è tornata in surplus dal 2012, mentre quelle di Francia, Spagna e Regno Unito sono sempre in deficit. Il surplus italiano nel 2017 è in assoluto il terzo della Ue (dopo quello tedesco e dei Paesi Bassi, che però è gonfiato dalle riesportazioni tedesche). Il valore dell’export italiano sul Pil passa dal 27,4% del 2007 al 30% del 2016; il suo incremento medio annuo tra 2002 e 2017 è del 3,2%, cioè oltre il doppio di quello francese, in particolare la sua crescita tra 2009 e 2017 raggiunge il 4,9% annuo.
Altra questione: l’Italia ha bisogno della Uem e della Ue mentre la Germania ne ha molto meno bisogno, avendo sostituito l’export intra-Ue con quello extra-Ue, in specie verso la Cina? In realtà, tutti i paesi della Uem hanno diminuito la loro quota di export di beni intra-Ue, a causa del crollo dei mercati interni, determinata dalla austerity. La quota dell’export intra-Ue sul totale dell’Italia (55,6%) è diminuita tra 2002 e 2017 di circa 6 punti percentuali analogamente alla Germania, la cui quota di export intra-Ue però rimane superiore a quella dell’Italia (58,5%).
È vero che le imprese italiane concentrano la produzione in settori come l’agroalimentare e i beni di lusso? Tra 2007 e 2016 è vero che il maggiore incremento della produzione di valore aggiunto nel manifatturiero si è realizzato nel settore alimentare, questo in effetti maturo e a bassa tecnologia, ma un forte incremento si è registrato anche nei macchinari, a medio-alta tecnologia, e nei settori ad alta tecnologia della chimica, del farmaceutico e della produzione di Pc, strumenti ottici e elettronici. Nell’export la crescita maggiore, tra 2015 e 2016, si registra nel farmaceutico (con una quota sul totale del 5,1%) e nei mezzi di trasporto (11,4%). Il settore più importante dell’export è quello dei macchinari e apparecchi, sia come quota (18,2%), sia come contributo al surplus commerciale (48 miliardi di euro su circa 51 totali nel 2016), non certo l’alimentare (7,6%)[vi].
Soprattutto, bisognerebbe chiedersi se e come l’introduzione dell’euro ha aiutato a correggere le fragilità vere o presunte delle imprese italiane. Le imprese italiane della manifattura (non quelle dei servizi) hanno raggiunto una maggiore competitività, ma non certo perché l’euro ha permesso di far ricorso, attraverso l’eliminazione delle svalutazioni, a strumenti competitivi più “sani”. La competitività è stata incrementata più che mediante l’innovazione e la tecnologia, soprattutto mediante una feroce ristrutturazione del tessuto imprenditoriale che ha distrutto, insieme al mercato interno, moltissime imprese e posti di lavoro.
Tra 2008 e 2015, nella manifattura il 15% delle imprese e il 18% dei loro addetti è stato eliminato dal mercato, mentre il valore aggiunto è rimasto quasi stabile (+0,6%), sebbene solo in termini nominali. In questo modo, cioè a causa della espulsione di massa di lavoratori dalla produzione, la produttività apparente per addetto tra 2007 e 2016 è aumentata del 20,6% (più che in Francia, Spagna e Germania)[vii]; le dimensioni aziendali – che vanno viste in termini di valore aggiunto più che in termini di addetti (dato il peso delle espulsioni dal lavoro e l’aumento dei settori ad alta intensità di capitale) – delle sopravvissute sono aumentate tra 2008 e 2015 del 18,8%.
Le esportazioni italiane dipendono solo dalla qualità e non dai costi e quindi dal prezzo? Non bisogna generalizzare. Alcuni settori hanno persino potuto aumentare i prezzi relativi dell’export, come l’abbigliamento e soprattutto la pelletteria, riducendo però la loro quota mondiale. I crescenti saldi della bilancia commerciale italiana derivano, oltre che dalla diminuzione della crescita dell’import, a causa della ridotta capacità di acquisto di famiglie e imprese, dall’incremento della crescita dell’export, a causa dell’aumento della produttività e della riduzione del costo del lavoro[viii]. Ciò ha permesso un aumento della competitività di prezzo, mediante una riduzione del valore unitario dell’export, il cui indice generale è sceso da 201 nel 2008 a 176,5 nel 2016[ix]. Il calo è evidente in alcuni settori decisivi, nel tessile, nell’elettronica (componenti e di consumo), nel chimico-farmaceutico e nei macchinari[x]. Proprio questi ultimi due settori, nel periodo considerato, hanno non solo ridotto il loro valore unitario relativo ma lo hanno fatto più della Ue, migliorando la rispettiva quota di mercato mondiale e contribuendo fortemente alla formazione e all’ampliamento dei surplus commerciali italiani (Fig. 5).
Fig. 5 – Variazione del valore unitario relativo dell’export di Italia e Ue (mondo=1)
Fonte, ITC, Trade competitiveness map
Inoltre, il calo del costo del lavoro ha permesso il miglioramento della redditività delle imprese sopravvissute; in quelle appartenenti alla manifattura e al di sopra dei 250 addetti il margine operativo lordo sul fatturato passa dal 5,8% del 2008 al 7,5% del 2015, rimanendo superiore a quello tedesco[xi].
Euro e crisi dell’accumulazione capitalistica
C’entra qualcosa l’euro con la dinamica descritta sopra? Con questa domanda veniamo a un’altra questione, che spesso è sollevata contro l’uscita dall’euro o almeno a depotenziare l’importanza dell’euro. Infatti, oltre a una sottovalutazione dell’impatto dell’euro sul ciclo economico, c’è un altro tipo di sottovalutazione: quella che, attribuendo le cause della crisi alla contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, secondo l’interpretazione marxista, riconduce le cause della crisi al capitalismo.
Sono senz’altro d’accordo che l’interpretazione dell’euro non vada in alcun modo scissa dall’analisi del modo di produzione attuale. Anzi, come ho evidenziato sopra, è solamente in relazione ai rapporti di produzione dominanti che è possibile capire la funzione e definire il percorso di uscita dall’euro. L’euro rappresenta, in questa fase storica, uno strumento decisivo nella riorganizzazione dell’accumulazione capitalistica, cioè della produzione di profitto, proprio a fronte della crisi strutturale del capitalismo. Lo stesso amministratore delegato di Fca, Sergio Marchionne, ha lamentato che la sovraccapacità produttiva dell’industria europea dipende dalle resistenze incontrate a eliminare impianti e imprese ridondanti e non competitivi nel corso delle crisi precedenti[xii]. Tali resistenze sono state favorite dai meccanismi di riequilibrio monetari e dall’intervento statale, compreso il welfare che ha attutito l’effetto depressivo sul costo del lavoro dei licenziamenti di massa nel corso delle ristrutturazioni precedenti. Invece, in occasione dell’ultima crisi, l’integrazione economica e monetaria ha permesso di realizzare quella “razionalizzazione” della produzione, mediante la chiusura di imprese, la riduzione di costi e la realizzazione di economie di scala, spesso nella forma di fusioni e acquisizioni, di cui il capitale aveva necessità.
In sintesi l’euro è servito a affrontare alcuni limiti competitivi del capitale italiano, ma nel modo sbagliato o meglio nel modo che ha favorito lo strato di vertice del capitale, quello di grandi dimensioni e multinazionale, scaricandone i costi sul lavoro salariato e sulle imprese ridondanti, specie quelle più piccole e non internazionalizzate, e aumentando gli squilibri tra aree del Paese, in particolare tra il Nord e il Mezzogiorno.
Purtroppo alcuni, forse temendo una sottovalutazione delle cause strutturali della crisi, cioè delle contraddizioni dell’accumulazione capitalistica, continuano a non considerare la questione in modo dialettico, cioè si rifiutano di individuare il nesso tra euro e crisi/riorganizzazione dell’accumulazione capitalistica.
Invece, il nodo da considerare è che l'integrazione economica e valutaria europea favorisce l’applicazione di tutte quelle misure che classicamente (secondo la teoria marxista) il capitale usa per contrastare la caduta del saggio di profitto, e che sono quelle accennate sopra: la creazione di un ampio esercito salariale di riserva (disoccupati), il taglio dei salari, diretti e indiretti, l‘aumento del saggio di sfruttamento della forza lavoro, le centralizzazioni di capitali, l’export.
Ciò che, però, rende decisivo per il capitale e storicamente “originale” l’apporto dell’euro è il fatto che l’applicazione delle suddette misure viene garantita attraverso la modifica dello Stato, o meglio dei rapporti di classe all’interno dello Stato, portando alla trasformazione del concetto stesso di sovranità. L’euro, aggirando i parlamenti e trasferendo certe funzioni economiche a organismi sovranazionali e a meccanismi automatici, slega la sovranità dello Stato dalle forme di controllo democratico e popolare maturate negli ultimi due secoli di storia europea, senza peraltro abolirle, come aveva fatto il fascismo. In questo modo, l’euro consegna al capitale una capacità di riorganizzazione non solo dell’accumulazione ma anche dei rapporti sociali mai vista nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale.
In conclusione, l’euro è sì conseguenza della crisi strutturale dell’economia capitalistica, ma è anche causa della sua soluzione in senso capitalistico, attraverso la riorganizzazione complessiva della società e la ridefinizione dei rapporti di forza complessivi fra le classi sociali.
L’inflazione: il male peggiore per i lavoratori?
Con la lira gli squilibri della bilancia commerciale portavano a un automatico deprezzamento valutario nei confronti dei paesi con cui si formava un deficit, rendendo più competitive le esportazioni e aiutando così a correggere gli squilibri commerciali. In assenza di cambi flessibili e di meccanismi di riequilibrio automatico, il riequilibrio è avvenuto mediante la riduzione del costo del lavoro. Ciò è stato molto più doloroso, per i lavoratori, perché il riequilibrio è avvenuto eliminando capacità produttiva e occupazione, soprattutto l’occupazione stabile e a tempo pieno, e con le controriforme del mercato del lavoro e delle pensioni, sollecitate dalla Commissione europea e dalla Bce, che spesso hanno erogato aiuti o permessi a sforare i vincoli in modo condizionato all’implementazione di dette “riforme”. Certamente è vero che un cambio flessibile porta alla svalutazione e questa può portare all’aumento dell’inflazione, che a sua volta pone il problema dell’adeguamento dei salari al costo della vita. Si potrebbe pensare che decidendo tra uscire e rimanere nell’euro si sceglierebbe tra la difesa del potere d’acquisto di chi un lavoro o una pensione ce l’ha e la difesa di chi un lavoro non ce l’ha o non ha un lavoro regolare, a tempo pieno e indeterminato.
In realtà non è così. In primo luogo, in un contesto di stagnazione e di deflazione non sono molto probabili forti impennate dell’inflazione. Soprattutto, è più corretto affermare che, mentre l’inflazione può essere affrontata con le rivendicazioni salariali, specie se la domanda di lavoro e l’occupazione risalgono insieme agli investimenti, la perdita di capacità produttiva e di posti di lavoro sono molto più difficili da affrontare e compensare, se si disinveste massicciamente e si chiudono imprese. In presenza di una accresciuta massa di disoccupati e sottoccupati che premono sul mercato del lavoro, la capacità di mobilitazione e di negoziazione del lavoro salariato è drasticamente ridotta (come appare evidente in Italia negli ultimi anni) e anche i salari nominali e reali finiscono per ridursi, pur in assenza di inflazione elevata, come in effetti è accaduto negli ultimi anni. In conclusione, il timore di una redistribuzione a sfavore delle classi subalterne, dovuto proprio a una crescita dell’inflazione in caso di uscita dall’euro, desta qualche perplessità, considerando che proprio l’effetto combinato dell’euro (e dell’austerity) e della crisi ha condotto a un aumento, in misura mai registrata dopo la Seconda guerra mondiale, delle disuguaglianze sociali e dell’incidenza della povertà assoluta non solo in Italia e nei cosiddetti paesi periferici, ma in tutta Europa.
L’uscita dall’euro modificherebbe il ruolo della Banca centrale?
Spesso ci si richiama al cosiddetto divorzio del 1981 tra Ministero del Tesoro e Banca d’Italia per confutare l’idea che una uscita dall’euro possa di per sé modificare il comportamento della Banca d’Italia rispetto a quanto avvenga oggi con la Bce, in particolare per quanto riguarda la monetizzazione del debito. In realtà, non è corretto affermare che il ruolo della Banca d’Italia fosse, prima dell’euro, qualitativamente analogo al ruolo della Bce. Nel 1981 ci fu uno scambio di lettere tra il ministro del Tesoro Andreatta e il governatore della Banca d’Italia, Ciampi, che si misero d’accordo affinché la Banca d’Italia fosse esentata dall’obbligo di acquistare i titoli di stato che non avessero trovato collocamento sul mercato a certi tassi d’interesse. Tale decisione fece crescere il tasso d’interesse sul debito pubblico, conducendo al suo raddoppio in rapporto al Pil tra 1981 e 1992. Va, però, precisato che l’accordo fu di carattere informale e che non fu mai ratificato dal Comitato interministeriale per il credito e il risparmio (Cicr), l’organismo pubblico che definisce la linea di politica monetaria a tutt’oggi[xiii]. Soprattutto mentre l’accordo tra Andreatta e Ciampi diceva semplicemente che la Banca d’Italia non era obbligata a garantire il collocamento dell’intera emissione di titoli di debito, il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea all’articolo 123 vieta espressamente l’acquisto di titoli di debito emessi dalle amministrazioni pubbliche. La Bce ha ben più dell’autonomia a suo tempo riconosciuta informalmente dal ministero alla Banca d’Italia, essa è un organismo del tutto indipendente, in forza dei trattati europei, e la discrezionalità del suo potere è accentuata anche dal fatto che non ha come controparte un governo, ma un insieme di governi, che tendono a non offrire un fronte unitario. Inoltre, il ruolo del decisore politico sulle decisioni monetarie, in caso di uscita, sarebbe maggiore: malgrado l’azionariato della Banca d’Italia sia nelle mani dei principali istituti finanziari italiani (più Inps e Inail), le linee di politica monetaria sono definite dal Cicr, cioè dai ministri economici, senza contare che il governatore della Banca d’Italia, istituto di diritto pubblico, è nominato dal Presidente della Repubblica su indicazione del governo.
Quindi, se è vero che politiche fiscali espansive dipendono da decisioni politiche, che possono o non possono essere prese, in caso di uscita dall’euro quantomeno si determinano le condizioni affinché possano essere prese. Viceversa, la Bce non può, anche volendo, assumersi il ruolo di prestatore di ultima istanza, perché ciò autorizzerebbe implicitamente i singoli stati a ignorare la disciplina di bilancio, cozzando così con l’obiettivo primario di tenere sotto controllo l’inflazione e soprattutto generando un conflitto tra gli interessi della Germania e quelli di stati come l’Italia. La Banca d’Italia, svincolata dal sistema euro, sarebbe giocoforza costretta, in caso di necessità, ad assumere il ruolo di prestatore di ultima istanza, se non altro per difendere dalle conseguenze di shock esterni il sistema bancario che è suo azionista. Il Quantitative easing deciso da Mario Draghi, fra l’altro duramente contestato dai tedeschi, per quanto abbia contribuito a abbassare i tassi d’interesse sul debito e, in parte, i differenziali tra i titoli tedeschi e quelli periferici (lo spread), non può essere confuso con una vera politica fiscale espansiva né con l’assunzione di un ruolo di prestatore di ultima istanza. Il Qe ovviamente non poteva finanziare direttamente il deficit degli stati, ma ha permesso alle Banche centrali nazionali di acquistare titoli sul mercato secondario degli intermediari finanziari e ciò che è più importante in quantità e per un periodo di tempo limitati. Infatti, a settembre prossimo è prevista la cessazione degli acquisti di titoli di stato italiani da parte della Bce.
Immutabilità dei rapporti di forza fra lavoro salariato e capitale con l’uscita dall’euro
Pensare che una uscita dall’euro si limiterebbe a trasferire dal livello europeo a quello nazionale gli stessi rapporti di forza sfavorevoli al lavoro salariato non è corretto. Il ragionamento va rovesciato. I rapporti di forza sono stati modificati a favore del capitale proprio perché certe decisioni e funzioni dello stato nazionale sono state trasferite a livello sovranazionale. E sono state trasferite proprio perché a livello nazionale non si riusciva a risolverle nella misura e nel grado richiesti dal capitale, e soprattutto non si riusciva a risolverle in forma “risolutiva”. La natura e gli scopi del meccanismo europeo sono riconosciuti con disarmante chiarezza da una delle autorità economiche maggiori degli ultimi decenni, Guido Carli: “L’Unione europea ha rappresentato una via alternativa alla soluzione di problemi che non riuscivamo ad affrontare per le vie ordinarie del governo e del parlamento”[xiv]. Con questo non pretendiamo di sostenere che basti uscire dall’euro per ripristinare rapporti di forza favorevoli ai lavoratori o per risolvere i problemi dell’economia italiana. Ma sarebbe altrettanto ingenuo pensare che rimanendo nel contesto dell’euro si possa realizzare un cambiamento di rotta. Infatti, nel mio libro, La Gabbia dell’euro[xv], sostengo un’altra posizione e cioè che solo uscendo dall’euro si realizza un contesto in cui si possa lottare efficacemente per ribaltare i rapporti di forza a favore del lavoro salariato e per imporre politiche espansive di bilancio. Possibilità politica, quindi, e non automatismo o immediatismo politico e/o economico. Non è poco, se consideriamo quanto i meccanismi europei rappresentino una gabbia che inficia l’azione sindacale e rende praticamente velleitario qualunque programma politico genuinamente di sinistra.
Inoltre, appare contraddittorio affermare che, poiché la questione dell’uscita dall’euro è in realtà una questione di gestione politica dell’uscita stessa e non prettamente economica, la sinistra non deve assumerla. Esistono molte buone ragioni affinché la sinistra debba occuparsi dell’uscita dall’euro. In primo luogo, perché, come abbiamo cercato di dire, rimanendo all’interno dell’Uem non si possono combattere l’austerity, la disoccupazione, il calo dei salari reali, e l’aumento della povertà, e soprattutto non si possono affrontare le crisi economiche con la necessaria flessibilità. I meccanismi economici e monetari europei impediscono quelle politiche di bilancio espansive che permetterebbero i necessari investimenti produttivi, riassorbendo così la disoccupazione e rilanciando l’economia. In secondo luogo, perché sul piano politico non si può lasciare alla destra la lotta contro l’euro, permettendogli di egemonizzare la lotta contro l’austerity europea e di rafforzarsi proprio attraverso di essa. In terzo luogo, è proprio perché l’uscita dall’euro è una questione anche di governo del processo di uscita stesso, che la sinistra deve occuparsi dell’uscita dall’euro, definendo il come e il quando ciò debba essere fatto. L’uscita dall’euro va fatta, anziché da destra, da sinistra, cioè garantendo e facendo gli interessi del lavoro salariato e più in generale delle classi subalterne.
Ciò comporta anche la necessità di inserire il processo di uscita dall’euro all’interno di un programma economico che preveda determinati punti fermi in termini di intervento statale, come la possibilità di investire direttamente nella produzione di beni e servizi, fare nazionalizzazioni di imprese, costituire una banca d’investimento pubblico per il Mezzogiorno. L’errore, quindi, sta proprio nel lasciare alla destra, nella fattispecie alla Lega, la critica radicale all’integrazione europea e la definizione di un percorso di uscita dall’euro. La mancanza di una posizione sufficientemente netta rispetto all’integrazione europea da parte della sinistra ha generato l’identificazione diffusa a livello di massa della sinistra tout court (senza distinzione tra “sinistra” neoliberista del Pd e sinistra antiliberista) con il fronte europeista. È stato proprio questo a creare i presupposti, insieme all’austerity e all’ampliamento dei divari economici tra Stati nazionali e tra classi, per l’ascesa della destra radicale.
Domenico Moro
Note
[i] Jared Diamond, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Einaudi, Torino 2014.
[ii] Imf, Germany. Country Report n. 14/216. July 2014.
[iii] Elaborazioni su dati Eurostat, General government expenditure by function (COFOG).
[iv] Con sovraccumulazione di capitale si intende un eccesso di accumulazione di capitale sotto forma di mezzi di produzione (impianti, capacità produttiva) rispetto alla redditività che questo capitale riesce a determinare.
[v] Elaborazioni su dati Eurostat, Annual enterprise statistics for special aggregates of activities (NACE Rev. 2).
[vi] Istat, Annuario 2017, cap. 15, Tav. 15.2.
[vii] Istat, Rapporto annuale 2018, Cap. 1, Fig. 1.31.
[viii] Istat, Rapporto sulla competitività dei settori, 2017, p. 6. “A partire dal 2014 si osserva un sostanziale recupero della competitività di prezzo attraverso il costo del lavoro, favorito anche dai provvedimenti di decontribuzione attuati nel 2015. Ciò ha portato a una parziale riduzione del cospicuo differenziale con la Germania accumulato negli anni precedenti. Nell’ultimo biennio, la crescita del valore aggiunto manifatturiero (quasi +5 per cento) è stata la più sostenuta tra le economie Eur4.”
[ix] Indice 2000=100. Unctad, Merchandise: Trade value, volume, unit value, terms of trade indices and purchasing power index of exports, annual, 1980-2016.
[x] ITC, Trade competitiveness map, Trade performance index, Relative unit value of export.
[xi] Eurostat, Industry by employment size class, (Nace Rev.2, B-E).
[xii] J. Ewing and B. Vlasic, Europe’s auto industry has reached day of reckoning, “The New York Times”, July 25 2012.
[xiii] I. Visco, Una riflessione a trent’anni dalla lettera del ministro Andreatta a governatore Ciampi, Banca d’Italia, interventi del Governatore 15 febbraio 2015.
[xiv] G. Carli, cit. in P. Ginsborg, L’Italia del tempo presente. Famiglia, società civile, stato 1980-1996, Einaudi, Torino.
[xv] D. Moro, La gabbia dell’euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra, Imprimatur, Reggio Emilia 2018.
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