Nel tentativo di salvaguardare il rispetto dei vincoli europei da parte
dell’Italia ieri sera Mattarella ha fatto un favore enorme tanto a
Salvini quanto a Di Maio, traendoli d’impaccio e regalando loro un
capitale politico che, se non sono stupidi (e, ahinoi, non lo sono),
potranno agevolmente incassare di qui a qualche mese, quando il paese
sarà nuovamente chiamato alle urne. E quando il frame entro cui si
giocherà la partita elettorale sarà quello dello scontro verticale
(ovviamente fittizio) tra popolo ed élite, tra sovranità democratica e
diktat europei, con buona pace di quanti vorrebbero ricondurlo sull’asse
orizzontale centrodestra vs centrosinistra.
Scampati alla prova dei fatti ai due ora non resterà da far altro che
cannibalizzare ciò che resta del blocco europeista già in via di
sfaldamento. Sinceramente le ricostruzioni dietrologiche che in queste
ore riempiono le pagine dei giornali ci appassionano poco, così come il
fatto che Salvini sia riuscito ad imporre o meno ai cinque stelle la sua
linea oltranzista, o il clamore suscitato dal curriculum di Conte,
oppure dall’insistenza nel voler affidare ad un keynesiano di destra il
ministero dell’economia.
Quello su cui dovremmo interrogarci è invece
perché un moderato di 82 anni sia improvvisamente assurto a feticcio
dello scontro contro l’Europa dei Trattati nell’assoluta latitanza della
sinistra di classe. Infatti, se c’è una cosa che emerge con estrema
chiarezza da tutta questa vicenda, è che la vera natura dell’Unione
Europea si sta finalmente imponendo come questione centrale nel
dibattito pubblico senza che vi sia una forza di classe che abbia la
stazza o l’autorevolezza per far sentire autonomamente la propria voce
in merito, per indicare un proprio punto di vista. Anzi, a giudicare da
alcune reazioni, il rischio è che volenti o nolenti ci si ritrovi
addirittura allineati dietro Mattarella quale ultimo baluardo della
democrazia, visto che in questi giorni abbiamo letto e sentito definire
il mai nato governo giallo-verde come “quello più a destra della storia
d’Italia”.
Potremmo stare qui a discutere per ore su quanto sia più di
destra comprimere i salari, precarizzare il lavoro, disarticolare la
contrattazione collettiva, imporre il sistema previdenziale
contributivo, alzare l’età pensionabile, privatizzare i servizi
pubblici, distruggere il welfare, abbandonare a se stesse le periferie,
fare accordi per i lager in Libia, bombardare a destra e a manca, ecc,
ecc. Tutte cose fatte con il centrosinistra, e alcune anche con la
sinistra radicale, al governo. Ma il fatto è che non è questo il piano
su cui si produce lo scontro agli occhi dei subalterni e, purtroppo, il
non averlo capito per tempo ci costringerà nei prossimi mesi a non poter
essere altro che spettatori di questi balletti politici.
Per paura di
essere tacciati come “sovranisti” o nostalgici dello stato nazione ci si
rifiuta di assumere una posizione netta ed inequivocabile sulla gabbia
dell’Unione Europea, senza comprendere che entrambe i termini del
discorso sono fuorvianti, oseremmo dire per certi versi addirittura
sballati. Nella complessa (e approssimativa) architettura istituzionale
europea non c’è alcuna sovranità nazionale da recuperare, quella non è
mai stata messa in discussione, quanto piuttosto la possibilità di poter
decidere della politica economica di un paese in un ambito in cui i
rapporti di forza tra le classi siano meno svantaggiosi per i salariati.
Ci sembra di poter dire quindi che quello che muore, in questo
passaggio, non è lo stato nazione, coi suoi confini e il suo monopolio
della forza (come ci insegna la vicenda della gestione dei flussi
migratori) ma lo stato sociale come strumento della mediazione tra le
classi.
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