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19/05/2018

Il mini-bot grillin-leghista, ennesimo sintomo della necessità di “rompere la gabbia Ue”


Verrebbe voglia di dedicare queste righe a quei “sinistri” che usano argomenti dell’establishment (Repubblica, Pd, Cottarelli, Giavazzi e via elencando) per criticare l’immonda unione grillin-leghista. Non perché quest’ultima possa essere in qualche modo “difesa”, ma per il buon motivo che ogni tipo di argomento presuppone o allude a una soluzione. Insomma: se usi pensieri di un nemico per criticarne un altro diventi servo del primo, non certo “alternativo” ad entrambi.

Cosa che invece è indispensabile, se si vuol mantenere aperta almeno una finestra di possibilità al cambiamento rivoluzionario e popolare dell’esistente.

Negli scorsi giorni, le bozze del famoso “contratto” tra Di Maio e Salvini hanno visto apparire e scomparire alcune indicazioni “sovversive” (individuazione di procedure tecniche per l’uscita dall’euro, cancellazione del debito rappresentato dai titoli di stato italiani in mano alla Bce: 250 miliardi, ecc). Oscillazioni dei mercati e balzo dello spread hanno rapidamente convinto i promessi sposi a ripensarci, come ampiamente previsto persino da noi.

Ma le questioni sottostanti quei “punti programmatici” andati smarriti non scompaiono altrettanto facilmente. Un qualsiasi governo che voglia provare a fare qualcosa di quel che ha in testa (piddino, leghista, grillino, berlusconiano o comunista rivoluzionario che sia) deve affrontare il problema dell’enorme debito pubblico senza disporre della leva monetaria (l’euro è stampato dalla Banca d’Italia su indicazioni quantitative della Bce). Dunque, secondo le ricette neoliberiste, può soltanto innalzare la tassazione, ridurre la spesa pubblica, svalutare i salari o un mix non troppo a scelta di queste tre cose.

Si tratta insomma di uno Stato a sovranità limitata, ancor più di quanto non avveniva quando l’unico obbligo sovranazionale era rappresentato dalla Nato (che peraltro resta ben vivo). Siamo certi che tanti “sinistri” ricorderanno quanti problemi abbia creato quella condizione al movimento operaio e alla sinistra politica in questo paese, senza che nessuno osasse insultarli come “sovranisti”.

Le teste economicamente meno vuote della nuova alleanza di governo sanno benissimo che, senza inventarsi qualcosa di nuovo e di non previsto dai trattati europei, non hanno alcuna chance di mantenere o accrescere il loro consenso elettorale, né di soddisfare gli interessi sociali direttamente rappresentati (piccola e media impresa, soprattutto del Nord, e confuse aspirazioni reddituali al Sud).

Dunque dal loro faticoso pensare è spuntato uno strumento inatteso – i mini-bot – immediatamente sbeffeggiato dagli opinionisti mainstream. Tipo quell’Oscar Giannino beccato a vantare lauree e master mai conseguiti...

Ma, a chi si intende almeno un po’ di economia monetaria, quello strumento non appare affatto ingenuo. L’editoriale di Guido Salerno Aletta, su Milano Finanza, che qui sotto riproponiamo, illumina invece sull’esigenza vitale di un qualsiasi governo di rompere la gabbia dei vincoli. Ovvio che il modo di “rompere”, la direzione in cui farlo, gli interessi sociali che vuoi difendere o affermare, ecc, possono essere diametralmente opposti. L’unica cosa certa è che lo status quo favorisce il grande capitale multinazionale e finanziario. Dunque è indifendibile soprattutto per chi si propone di “cambiare il mondo”.

Cosa spiega Salerno Aletta?

a) Che la moneta – qualsiasi moneta – non è più convertibile in oro dalla banca centrale che l’ha emessa; e dunque che il suo valore come “equivalente universale” non si fonda più su una solida base materiale metallica, ma sulla “fiducia” nell’emittente quella moneta. Gli Usa o l’Unione Europea possono stampare dollari o euro a volontà, e farli accettare da tutti, con l’unico limite di non compromettere la stabilità dei prezzi (inflazione), perché rappresentano potenze economiche e/o militari per il momento abbastanza solide.

b) Che gli obblighi europei sui singoli stati dell’Unione rendono impossibile una gestione del debito che non sia distruttiva per le capacità produttive del paese (sorvolando ampiamente su tutte le questioni connesse alla giustizia sociale e alla redistribuizione della ricchezza).

c) Che una “moneta alternativa”, in fondo, è uno dei modi per sottrarsi alle rigidità dell’austerity ordoliberista, creando quella massa monetaria che altrimenti bisognerebbe cercare sui mercati internazionali, avvitandosi nel circolo vizioso del “più debito fai, più interessi devi pagare, peggio stai, meno puoi riprenderti”.

d) Che le stesse criptovalute (Bitcoin, Ethereum, ecc) sono un sintomo di questa necessità a livello globale, altrimenti sarebbero soltanto delle volgari truffe escogitate da “privati” che creano denaro dal nulla, presto scoperte ed evitate. E invece vengono comprate, scambiate, usate per pagare, tanto da innescare reazioni dei mercati finanziari tese a “comprenderle” progressivamente nel circuito delle attività ammesse e regolate.

Come si vede, questo tipo di “rottura” della gabbia è completamente interna alla logica e alla dinamica dei capitali e delle imprese. Ma proprio il fatto che emerga anche all’interno del “capitalismo reale”, sebbene ai livelli più bassi, è il sintomo più evidente di un sistema di trattati (e persino di assetti economici globali) ormai incompatibile con il normale “sviluppo economico”.

A maggior ragione, dunque, la necessità della rottura di quei trattati dovrebbe diventare al più presto una prospettiva concreta anche per quelle forze che vogliono superare e rivoluzionare l’esistente. O no?

*****

Quella bomba mini-bot

Guido Salerno Aletta

Dibattito politico infuocato, questa settimana, sulla ipotesi di uscire dall’euro e sulla possibilità di ridurre il debito pubblico con misure straordinarie. Nella serata di martedì, a sorpresa, è stata diffusa una bozza di Contratto per il Governo di Cambiamento elaborata dai delegati del Movimento 5 Stelle e della Lega, in cui si auspicavano «specifiche procedure tecniche di natura economica e giuridica» che consentano ai singoli Stati di uscire dall’euro e di «recuperare la propria sovranità monetaria», e si proponeva il congelamento-cancellazione dei titoli acquistati dalla Bce con il Qe, che valgono per l’Italia circa 250 miliardi di euro (10% del pil). A latere, c’era la costituzione di fondi immobiliari da vendere prioritariamente alle famiglie, impacchettando quote di patrimonio pubblico per un importo di circa 200 miliardi.

Il debito pubblico italiano, ormai di poco superiore ai 2.300 miliardi (131,5% del pil) si sarebbe attestato a 1.850 miliardi (105%), tornando ai livelli del 2008, quando fu del 102,4%.

La cancellazione dei titoli comprati con il Qe, avrebbe implicazioni enormi: la Bce dovrebbe effettuare un write-off del proprio attivo accusando una perdita corrispondente, che in questo caso sarebbe superiore al proprio capitale netto. Sulle conseguenze di questo evento straordinario, non c’è unanimità di vedute neppure tra i più esperti: c’è chi sostiene che la Bce deve comportarsi come qualsiasi altro soggetto economico, e dunque chiedere alle Banche centrali aderenti al Sebc il ripiano delle perdite e la ricostituzione del capitale; ma c’è anche chi afferma che una Banca centrale, finché mantiene il monopolio legale della moneta circolante, può benissimo avere un capitale netto negativo. Anzi, non avrebbe neppure bisogno di un capitale proprio. A differenza dei vecchi sistemi monetari con base aurea, infatti, oggi la circolazione è esclusivamente fiduciaria: chi detiene la moneta non può chiederne la conversione in oro alla banca centrale che l’ha emessa. L’unico limite alla emissione di moneta sarebbe invece rappresentato dalla stabilità dei prezzi.

Il dibattito accademico è sterile: le polemiche, invece, hanno immediatamente sortito il loro effetto, con una netta marcia indietro. E stato comunicato che la questione dell’euro era già stata espunta e che per i titoli acquistati con il Qe si sarebbe chiesto in sede europea di escluderli dal calcolo del rapporto debito/pil. Alla fine, anche questa ultima questione è stata espunta: non si fa più alcun cenno né alla possibilità di uscire dall’euro, né all’abbattimento del debito con misure straordinarie, quali che siano.

Le polemiche, che sembravano placarsi, sono divampate ancora più violentemente sulla questione dei mini-bot. Il responsabile economico della Lega, Claudio Borghi, in una intervista ha dichiarato che il nuovo governo rimedierebbe in modo radicale ai ritardi nei pagamenti della Pa corrispondendo «titoli, con un valore equivalente, che potranno essere spesi ovunque, per comprare qualsiasi cosa. E lo Stato non dovrà fare debito aggiuntivo, perché si darà semplicemente forma a un debito che già c’è». Né si violerebbero i Trattati europei, che individuano nell’euro l’unica moneta a corso legale, in quanto non si tratta di moneta. Secondo Borghi, «tecnicamente e un debito cartolarizzato. L’alternativa sarebbe non pagare i creditori dello Stato, quello si sarebbe un default».

Le cifre in ballo sono colossali: I’Eurostat, in una nota di aprile scorso redatta sulla base di informazioni ufficiali provenienti dall’Italia, ha comunicato che nel 2017 i soli debiti commerciali della Pa sono arrivati a 40,4 miliardi di euro (2,8% del pil). Si tratta di un debito potenziale: alla contabilizzazione formale come debito si procede solo quando il pagamento avvenga a fronte di emissione di titoli. A questa somma vanno aggiunti i crediti fiscali, per i quali vigono limiti ferrei alle compensazioni, per evitare evasioni fiscali. Nella Contratto per il Governo si prevede di ampliare le forme di compensazione tra debiti e crediti fiscali e di procedere alla «cartolarizzazione dei crediti fiscali, anche attraverso strumenti quali titoli di stato di piccolo taglio, anche valutando nelle sedi opportune la definizione stessa di debito pubblico».

E’ una prospettiva rivoluzionaria; lo Stato si libererebbe dei propri obblighi verso i fornitori accreditando loro dei mini-bot. La moneta perderebbe la esclusività in quanto strumento legittimamente liberatorio della obbligazione: lo Stato non dovrebbe più ricorrere previamente al mercato per procurarsi la moneta che gli occorre. La reazione è stata immediata, e feroce: il Financial Times, con un articolo a firma John Dizard in cui si ricorda l’esperienza del Patacon argentino, ha rilevato che «banchieri centrali e ministri delle finanze sono stati equilibrati nella loro reazione. Un equilibrio tra lo sdegno e il colpo apoplettico».

Non si tratterebbe, a suo avviso, solo di titoli di debito che anticipano, in termini ricardiani, la tassazione futura: «Se fossero introdotti su larga scala, le pressioni politiche con il tempo forzerebbero o l’Italia o la Germania fuori dall’euro, e avendo prodotto il danno questo strumento sarebbe alla fine liquidato».

Siamo a un nuovo snodo nella storia della moneta, dopo la fine dell’ancoraggio all’oro, di cui il florilegio delle criptovalute è un chiaro sintomo: le banche centrali, rese autonome dai governi negli anni Ottanta per bilanciare le spinte inflazionistiche indotte dalla spesa pubblica in disavanzo, che falcidiavano i risparmi e gli investimenti obbligazionari mentre i salari recuperavano potere di acquisto con la contrattazione, dopo la crisi del 2008 sono divenute istituzioni sovrane. Non si limitano a fornire liquidità al sistema bancario, ma effettuano veri e propri investimenti in titoli di debito pubblico, in obbligazioni di privati e talora anche in azioni. L’aumento dei corsi azionari, suscitato dalla immensa liquidità immessa, non rappresenta lo stato di salute delle imprese ma un fenomeno inflazionistico: è la moneta con cui si acquistano che vale di meno, non i titoli che valgono di più. Le Banche centrali si sono sostituite cosi agli Stati nella creazione e nella distribuzione di reddito e ricchezza.

La partita dei mini-bot vale dunque, in via di principio, più dell’intero debito pubblico: deciderà chi è sovrano, se lo Stato o la moneta.

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