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26/05/2018

Visioni Militant(i): Dogman, di Matteo Garrone

In una periferia sospesa e irriconoscibile, ma proprio per questo immagine di ogni periferia di ogni latitudine, si trascina la vita di una comunità umana che di comune non ha più niente. C’è il prepotente, il bottegaro, il fancazzista, l’arricchito e il disperato; e poi c’è Marcello, tolettatore di cani, attratto da questa piccola società alienata di cui, al tempo stesso, prova repulsione. Il bisogno di riconoscersi in una comunità lo rende effettivamente diverso, carico di sentimenti in un contesto che ha dileguato ogni possibile esistenza in comune. In questo microcosmo post-umano Marcello ricerca e subisce il rapporto con Simoncino, ex pugile e coatto di quartiere. Il rapporto è fondato esclusivamente sulla prepotenza, laddove in Marcello vorrebbe esserci un po’ di sincera (?) amicizia. Non è così che però vanno le cose nella periferia. Simoncino costringe Marcello a seguirlo nei suoi piccoli furti, a rimediargli la cocaina, ad accompagnarlo nella sua solitudine, odiato dal resto del quartiere ma al tempo stesso “rispettato” perché violento. La legge della forza, intesa come sopraffazione fisica, è l’unica legge della periferia, che annulla ogni vera solidarietà tra esclusi. Provato dal continuo sadismo nei suoi confronti e ormai espulso dalla “comunità” di quartiere, Marcello esploderà nella sua vendetta contro l’ex pugile, sfogando tutta la sua alienazione che si presenta anche come ultimo sussulto di umanità, attraverso la catarsi della violenza estrema e irreparabile.

Si è spesso accostato Garrone a Pasolini, eppure anche stavolta sono più le distanze che le similitudini. Se in Pasolini la speranza risiedeva negli ultimi e nei diseredati, dove rimaneva quel briciolo di vera umanità altrove dismesso, in Garrone non c’è alcun rifugio sociologico: nel sottoproletariato della periferia occidentale non c’è salvezza, perché partecipe in tutto e per tutto dell’alienazione sociale di cui è vittima e complice. Le leggi della periferia non fanno che replicare quelle della società liberista: egoismo sociale, parassitismo, brutalità dei sentimenti e dei rapporti umani. Con un operazione oggi più unica che rara, Garrone espelle ogni forma di pietismo cristiano dal suo racconto. Decisamente opposto dalla torma degli insopportabili pasoliniani minori che affolla oggi il racconto della periferia, pronti a celebrare il “riscatto degli ultimi” di cui non conoscono né sociologia né antropologia, Garrone è attento anche a non cadere nel racconto borghese della subalternità come “pericolo”. La periferia è un luogo di umanità devastata da leggi stabilite dalla società presunta alternativa. C’è un rapporto simbiotico tra centro e periferia: l’uno è l’immagine dell’altro. Ed è attraverso questa presa di coscienza, disincantata ma pienamente partecipe dei destini dei subalterni, che prende forma quel realismo che Garrone sa adattare ai tempi e alle circostanze.

In conclusione, è giusto celebrare Marcello Fonte, valorizzato perfettamente da Garrone nella sue qualità personali e interpretative. E’ una bella storia quella di Marcello, giunto alla Palma d’Oro dalle baracche di Reggio Calabria, passando per il Cinema Palazzo di Roma. Un luogo, il Cinema Palazzo, vissuto anche da Elio Germano, altra Palma d’Oro a Cannes otto anni fa. Nonostante la crisi, anche culturale, che distingue la sinistra, San Lorenzo continua a far sentire la propria voce. Una piccola – piccolissima – forza da cui ripartire.

Fonte

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