In una periferia sospesa e irriconoscibile, ma proprio per questo
immagine di ogni periferia di ogni latitudine, si trascina la vita di
una comunità umana che di comune non ha più niente. C’è il prepotente,
il bottegaro, il fancazzista, l’arricchito e il disperato; e poi c’è
Marcello, tolettatore di cani, attratto da questa piccola società
alienata di cui, al tempo stesso, prova repulsione. Il bisogno di
riconoscersi in una comunità lo rende effettivamente diverso, carico di
sentimenti in un contesto che ha dileguato ogni possibile esistenza in
comune. In questo microcosmo post-umano Marcello ricerca e subisce il
rapporto con Simoncino, ex pugile e coatto di quartiere. Il rapporto è
fondato esclusivamente sulla prepotenza, laddove in Marcello vorrebbe
esserci un po’ di sincera (?) amicizia. Non è così che però vanno le
cose nella periferia. Simoncino costringe Marcello a seguirlo
nei suoi piccoli furti, a rimediargli la cocaina, ad accompagnarlo nella
sua solitudine, odiato dal resto del quartiere ma al tempo stesso
“rispettato” perché violento. La legge della forza, intesa come
sopraffazione fisica, è l’unica legge della periferia, che annulla ogni
vera solidarietà tra esclusi. Provato dal continuo sadismo nei suoi
confronti e ormai espulso dalla “comunità” di quartiere, Marcello
esploderà nella sua vendetta contro l’ex pugile, sfogando tutta la sua
alienazione che si presenta anche come ultimo sussulto di umanità,
attraverso la catarsi della violenza estrema e irreparabile.
Si è spesso accostato Garrone a Pasolini, eppure anche stavolta sono
più le distanze che le similitudini. Se in Pasolini la speranza
risiedeva negli ultimi e nei diseredati, dove rimaneva quel briciolo di
vera umanità altrove dismesso, in Garrone non c’è alcun rifugio
sociologico: nel sottoproletariato della periferia occidentale non c’è
salvezza, perché partecipe in tutto e per tutto dell’alienazione sociale
di cui è vittima e complice. Le leggi della periferia non fanno che
replicare quelle della società liberista: egoismo sociale, parassitismo,
brutalità dei sentimenti e dei rapporti umani. Con un operazione oggi
più unica che rara, Garrone espelle ogni forma di pietismo cristiano dal
suo racconto. Decisamente opposto dalla torma degli insopportabili
pasoliniani minori che affolla oggi il racconto della periferia, pronti a
celebrare il “riscatto degli ultimi” di cui non conoscono né sociologia
né antropologia, Garrone è attento anche a non cadere nel racconto
borghese della subalternità come “pericolo”. La periferia è un luogo di
umanità devastata da leggi stabilite dalla società presunta alternativa.
C’è un rapporto simbiotico tra centro e periferia: l’uno è l’immagine
dell’altro. Ed è attraverso questa presa di coscienza, disincantata ma
pienamente partecipe dei destini dei subalterni, che prende forma quel
realismo che Garrone sa adattare ai tempi e alle circostanze.
In conclusione, è giusto celebrare Marcello Fonte, valorizzato
perfettamente da Garrone nella sue qualità personali e interpretative.
E’ una bella storia quella di Marcello, giunto alla Palma d’Oro dalle
baracche di Reggio Calabria, passando per il Cinema Palazzo di Roma. Un
luogo, il Cinema Palazzo, vissuto anche da Elio Germano, altra Palma
d’Oro a Cannes otto anni fa. Nonostante la crisi, anche culturale, che
distingue la sinistra, San Lorenzo continua a far sentire la propria
voce. Una piccola – piccolissima – forza da cui ripartire.
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