Proseguendo il dibattito aperto su Contropiano sulla questione mutualismo e conflitto sociale, abbiamo rivolto alcune domande a Guido Lutrario che coordina l’attività della Federazione del Sociale della Usb, una esperienza innovativa sul piano sindacale che si interseca moltissimo sia con le figure sociali sia con le contraddizioni presenti in quel campo di intervento e conflitto sintetizzato, a torto o a ragione, come mutualismo. Il dibattito proseguirà nel prossimo periodo sulle pagine del nostro giornale e, ovviamente nelle assemblee, a partire dalla due giorni di Potere dal Popolo a Napoli.
Si parla spesso di mutualismo come terreno di autorganizzazione. Se è chiaro come il mutualismo nasca con il movimento operaio e contadino nell’Ottocento, appare meno chiaro cosa possa essere il mutualismo oggi, nel XXI Secolo. Cos’è oggi il mutualismo?
Il mutualismo è un concetto ambivalente, può rappresentare una forma di organizzazione sociale utile per chi lotta, vuole affermare diritti e veder soddisfatte rivendicazioni di giustizia sociale oppure costituire una modalità con la quale le classi dominanti scaricano su “soggetti terzi” il contrasto alle condizioni di povertà e di grave disagio sociale ed economico provocate dallo sfruttamento capitalistico. Questa ambivalenza ha attraversato tutta la storia delle esperienze mutualistiche e cooperative, anche se oggi hanno finito per prevalere quelle forme completamente distorte di cooperativismo che hanno perduto qualsiasi nesso con le esperienze originarie. Ultimamente assistiamo poi ad una operazione molto pericolosa di assoggettamento di tutto il mondo del terzo settore e delle cosiddette imprese sociali nella gestione della povertà, soprattutto dal punto di vista del controllo sociale. Le modalità in cui viene gestita l’accoglienza oppure il sistema che è stato introdotto con il REI, il reddito di inclusione, prevedono un utilizzo degli operatori sociali e delle agenzie del terzo settore in funzioni di “tutor”.
In sostanza assistiamo ad uno scambio: da un lato si prevedono finanziamenti crescenti per questi soggetti, dall’altro li si coopta in una politica di controllo, assegnando loro la funzione di “prendere in carico” il soggetto debole e controllarne i comportamenti, consentendo al terzo settore di erogare sanzioni e provvedimenti punitivi finalizzati all’educazione del soggetto. C’è dietro questi provvedimenti una logica razzista nei confronti dei poveri, considerati incapaci di decidere del proprio destino, e quindi da correggere e tenere costantemente sotto tutela. La stessa elaborazione del REI è stata concertata con un fronte di organizzazioni riunito sotto la sigla di Alleanza contro la povertà, alla quale aderiscono dalle Acli alla Caritas, dall’Arci a Cgil, Cisl e Uil che ne hanno accettato pienamente la logica, rivendicando maggiori risorse in una logica di puro accaparramento.
Molto spesso si associa il mutualismo all’autorganizzazione quasi spontanea nei territori. Non pensi invece che il mutualismo possa funzionare ed essere efficace solo se è fortemente organizzato e in qualche modo centralizzato, chessò vedi la distribuzione nei gruppi di acquisto solidali e popolari o l’intervento nelle zone colpite da catastrofi?
C’è un mondo di piccole realtà autorganizzate in Italia che si è andato diffondendo a seguito di diversi fattori. Innanzitutto la crisi di prospettiva delle organizzazioni della sinistra ha liberato energie che hanno abbandonato disegni e speranze di grandi cambiamenti ed hanno preferito dedicarsi all’azione locale, limitata sia nello spazio che nelle finalità. Si tratta di esperienze caratterizzate spesso da un’etica molto radicale ed improntata al “saper fare”, finalizzata a ricostruire legami sociali e senso di comunità. Un altro fattore che influenza questa dinamica è l’aumento della povertà e la crescente necessità di far fronte a bisogni primari che si vive soprattutto nelle grandi periferie del paese. Queste esperienze, per quanto diffuse, sono complessivamente una realtà ancora molto debole, caratterizzata dal bisogno comune di garantirsi la sopravvivenza. Servirebbe un salto di qualità, un progetto di organizzazione comune capace di rappresentare un’idea completamente diversa di mutualismo da quella in voga nel terzo settore, fondata sul sostegno alle lotte per i diritti e contro le disuguaglianze sociali.
In molte discussioni, si mette talvolta in contrasto il mutualismo con il conflitto sociale, nel senso che il primo affievolirebbe il secondo. Come interverresti in questa discussione?
Se guardiamo alle difficoltà che si incontrano nella sindacalizzazione del mondo degli operatori delle cooperative sociali si capisce il senso di chi vede questo mondo come antitetico al conflitto. Tutto il terzo settore ha finito per diventare un ammortizzatore sociale ma anche una modalità efficace di gestione del disagio, al fine di prevenire tensioni sociali. Spesso gli operatori non si organizzano per rivendicare migliori condizioni di salario, rispetto del contratto, ecc. ed interpretano il loro ruolo professionale in modo da conservare e perpetuare il disagio, invece di stimolare l’organizzazione e la lotta dei soggetti in difficoltà. E’ un settore molto ampio che è destinato a crescere come numero di addetti, non solo perché il disagio sociale è destinato ad aumentare ma anche perché il settore della cura è uno dei pochi che ancora per diversi anni sfuggirà all’innovazione tecnologica sostitutiva di manodopera. Attraverso questo mondo abbiamo assistito in questi decenni alla privatizzazione morbida dell’assistenza. Se vogliamo invertire la rotta e rimettere il mutualismo in sintonia con il conflitto sociale dobbiamo contrastare la finanziarizzazione di questo settore, lavorare a dare all’operatore sociale un profilo completamente diverso, favorire una sindacalizzazione vera di questo settore di lavoratori. Da loro potrebbe venire un contributo di competenze e di idee molto importante.
Appunto, proprio per questo, secondo te lo strumento sindacale come può interagire con il mutualismo?
Questo credo che sia il tema centrale della questione: è proprio dalla rottura di ogni nesso tra mondo cooperativistico e mutualistico e mondo sindacale conflittuale che origina la grande deriva del terzo settore. Al centro dell’agire del terzo settore non ci sono più i diritti collettivi, così come non c’è un riconoscimento dei diritti di chi lavora in questo campo. Lo sfruttamento legato ai bassi salari, ad una forte precarietà, in molti casi anche al lavoro nero, ed una crescente dequalificazione vanno di pari passo con un’azione nei confronti di chi vive il disagio, che sia minore, migrante, tossicodipendente, anziano, ecc. che non mira al superamento del problema ma al suo mantenimento nei limiti della tolleranza sociale. Più in generale, il mondo della cooperazione in Italia è ormai indistinguibile da quello della grande impresa e come Usb siamo impegnati da anni a combattere per garantire i diritti minimi del lavoro a chi opera in queste aziende.
Ridare una prospettiva rivoluzionaria alle pratiche di mutualismo è possibile solo dentro una relazione forte con l’organizzazione sindacale di classe e dentro una rottura decisa con il sistema cooperativistico e del terzo settore, attualmente egemone in questo campo nel nostro paese. Costruire questo percorso è una sfida che USB ha già deciso di affrontare dando vita ad un ambito nuovo di organizzazione sindacale che abbiamo chiamato Federazione del Sociale. Non c’è un modello che possiamo perseguire ma dobbiamo inventare e sperimentare forme efficaci di connessione. Al centro c’è comunque la necessità di ricostruire l’organizzazione dei lavoratori al passo con le trasformazioni intervenute negli anni. Le tante pratiche di mutualismo, più in sintonia con il conflitto sociale, che si sono moltiplicate in questi anni ma che restano sparpagliate e sconnesse tra loro, hanno bisogno di un piano e di un progetto generali e il movimento dei lavoratori può rappresentare il loro collante. Un processo che costringa anche i delegati sindacali ad interrogarsi sul loro agire e ad introdurre modalità innovative per favorire il rapporto tra l’agire sindacale e le pratiche di solidarietà e di mutuo-aiuto dal basso.
Infine la questione più “rognosa”. Vorremmo evidenziare la preoccupazione che aleggia su molti compagni. A metà degli anni ’90, la stragrande maggioranza del movimento dei centri sociali si sbragò nell’accettazione dell’allora nascente settore no profit come possibile economia “fuori mercato” capace di produrre servizi e reddito sganciati dal lavoro salariato. I fatti ci dicono che fu un tragico inganno e che il terzo settore – o no profit – è stata una clava contro il welfare universale ed ha spianato la strada alla privatizzazione/esternalizzazione dei servizi. Non c’è il rischio che il mutualismo per l’organizzazione e gestione di servizi popolari di resistenza e sussistenza possa sembrare una capitolazione verso lo smantellamento del welfare?
L’antidoto sta nel rapporto con il movimento sindacale di classe. Questo è completamente mancato al movimento dei centri sociali e fin dai primi anni novanta diverse di queste realtà sono regredite verso forme più compatibili e meno conflittuali. C’è da dire che tra i centri sociali c’è stato e c’è tutt’ora chi cerca di misurarsi con i temi della precarietà e della sindacalizzazione del nuovo lavoro, provando a evolvere i centri autogestiti verso forme di moderne camere del lavoro. Sono tentativi interessanti anche se alcune volte risultano velleitari, che hanno il pregio di proseguire sulla strada della sperimentazione di nuove modalità di organizzazione sociale orientate al conflitto. La differenza spesso la fa la scelta di collegarsi ad un progetto generale, il desiderio di non indebolire le ambizioni, la spinta a non rinchiudersi in ambiti esclusivamente locali. Ma il salto di qualità si può dare solo nella saldatura tra questi esperimenti e le pratiche di mutualismo orientate al sostegno alle lotte e lo sviluppo di un moderno confederalismo sindacale di classe. Se ciò avvenisse ci sarebbe un balzo in avanti anche per tutto il movimento sindacale.
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