di Michele Giorgio – Il Manifesto
Tra minacce,
rivolte anche agli europei, anatemi e accuse a raffica, è partita ieri
la crociata dell’amministrazione Trump contro l’Iran, attesa dopo la
decisione presa a inizio mese dal presidente americano di far uscire
gli Stati Uniti dall’accordo internazionale sul nucleare iraniano
(Jcpoa, 2015).
Il segretario di Stato Mike Pompeo, nemico giurato
dell’Iran, parlando alla Heritage Foundation, ha annunciato sanzioni
durissime contro Tehran, «le più dure della storia». «Sono dodici
condizioni draconiane per un nuovo accordo sul nucleare», ha spiegato
il braccio esecutivo della politica estera di Trump, che ha
intimato all’Iran il ritiro totale dalla Siria – chiesto a gran voce
dal governo israeliano – se vuole evitare il collasso economico e
l’accerchiamento diplomatico. Parole che suonano come una sentenza in
una fase in cui anche la Russia, che pure non si muove in linea con
Washington in Medio Oriente, insiste, per ora dietro le quinte, per il
ritiro di tutte le forze straniere dalla Siria, quindi anche dei
combattenti libanesi di Hezbollah, della Guardia repubblicana
iraniana e delle altre milizie che fanno capo a Tehran.
Se gli iraniani non rispetteranno le 12 condizioni – messe su carta
con ogni probabilità assieme a Israele –, il segretario di Stato ha
lasciato capire che le conseguenze non saranno solo economiche e
diplomatiche. Sarà la guerra lo sbocco del confronto con Tehran. E
quanto chiede Washington è fatto apposta per non essere accettato
dall’Iran. La condizione madre è di «dismettere il programma
nucleare, chiudere i reattori, interrompere l’arricchimento
dell’uranio, consentire il totale accesso all’Agenzia internazionale
per l’energia atomica in ogni parte del Paese e fornire un dettagliato
e aggiornato resoconto del programma finora portato avanti».
L’interruzione del programma missilistico, rimasto fuori
dall’accordo del 2015, è un’altra condizione che l’Iran respingerà
perché, non avendo un’aviazione militare adeguata, lo lascerebbe
senza alcun potere di deterrenza nei confronti di un possibile
attacco militare israelo-americano o di altri suoi nemici in Medio
Oriente. Quattro condizioni riguardano il «sostegno» che
l’Iran garantirebbe ai suoi alleati. Tehran, ha detto Pompeo, deve
interrompere l’appoggio a Hezbollah, Hamas, il Jihad islamico
palestinese e i Taleban in Afghanistan. Un’accusa in quest’ultimo
caso inventata qualche giorno fa dal comandante delle forze
statunitensi in Afghanistan, il generale John Nicholson, visto che i
rapporti tra i guerriglieri sunniti e l’Iran sono sempre stati
conflittuali per motivi ideologici e religiosi. Teheran l’ha subito
respinta. Gli Usa inoltre pretendono il «ritiro totale delle forze
di Teheran dal territorio siriano», l’interruzione «dei
cyber-attacchi, delle minacce e della destabilizzazione del Medio
Oriente» e invocano la protezione del commercio.
Ma Washington ha nel mirino anche gli Stati dell’Ue che,
almeno in apparenza, stanno facendo un fronte comune per mantenere in
vita l’accordo sul nucleare firmato nel luglio 2015 a Vienna.
Pompeo ha spiegato che Washington si aspetta che ogni Paese prenda
parte alla campagna di sanzioni. Le aziende che fanno affari
con l’Iran, ha minacciato, «saranno ritenute responsabili». I
partner europei «conoscono qual è la nostra posizione», ha tuonato
il segretario di Stato. «So che i nostri alleati in Europa potranno
tentare di mantenere il vecchio accordo con Tehran. Questa è una loro
decisione. Sanno qual è la nostra posizione», ha concluso.
La reazione iraniana non si è fatta attendere. «Chi sei tu per
decidere per l’Iran e il mondo? Il tempo per queste azioni è finito, e
il popolo iraniano non ha prestato attenzione a queste dichiarazioni
centinaia di volte. L’amministrazione Trump ha riportato gli americani
indietro di 15 anni, all’era Bush. Ma oggi il mondo non accetta più
che gli Usa decidano per gli altri», ha protestato il presidente
iraniano Hassan Rohani.
Commentando l’annuncio americano, la Russia ha spiegato che
le condizioni poste dagli Usa rafforzeranno soltanto le correnti più
radicali all’interno dell’establishment politico e militare iraniano,
oltre ad avere un impatto negativo anche in Siria. Ma è proprio su
questo che punta Washington, facendosi portavoce della
soluzione israeliana del “problema” che passa anche per un attacco
militare, seguendo il filo conduttore dell’Iraq, ridotto alla fame da
12 anni di sanzioni economiche e infine invaso ed occupato da Usa e
Gran Bretagna.
La soddisfazione del governo israeliano è enorme. «Nessun
arricchimento di uranio; sanzioni severe, ed uscita dell’Iran dalla
Siria: questa a nostro giudizio l’unica politica che in fin dei conti
potrà garantire la pace», ha detto il premier Netanyahu nel corso di un
ricevimento con il presidente del Paraguay Horacio Cartes, poco dopo
il trasferimento a Gerusalemme dell’ambasciata del suo Paese.
«Facciamo appello a tutti i Paesi – ha aggiunto ancora Netanyahu –
affinché assecondino la leadership americana».
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