La melma di governo sale prima ancora che questo nasca. Una tentazione va evitata come la peste: quella di giudicare il pasticcio presente con le etichette del lontano passato.
Scriviamo “etichette”, e non “categorie”, perché le seconde sono una cosa seria, durano nel tempo e identificano campi di valore stabili. Le prime, invece, vengono buttate lì tanto per fermare un’immagine, ma si possono spostare a piacimento. Basti pensare al concetto di “sinistra”, che nel linguaggio politico attuale non indica assolutamente nulla che sia almeno lontano parente del movimento operaio, socialista, comunista e persino socialdemocratico.
Quello che va componendosi è infatti un quadro piuttosto originale, in senso ovviamente negativo, formato dall’azione contemporanea di forze e processi tra loro contrastanti. Il voto del 4 marzo ha segnato un terremoto strutturale nel panorama politico italiano, premiando le forze che meglio fingevano di rappresentare la necessità di cambiamenti radicali e di contrasto con le politiche di austerità obbligate dall’Unione Europea. E di riflesso ha annientato le “forze europeiste” – Forza Italia e Partito Democratico, col codazzo inutile di LeU, tutti destinati a rapida dissoluzione – giustamente ritenute complici o esecutori di scelte che hanno impoverito la popolazione ben oltre i limiti di una crisi globale ancora irrisolta.
La coalizione grillin-leghista, per quanto improbabile sotto molti profili, è comunque l’unica combinazione in grado di partorire una maggioranza e un governo. Le alternative sono state bruciate rapidamente: il “governo del presidente” per andare di nuovo al voto, ma con calma, e un governo di centrodestra che ramazzava un po’ di parlamentari “responsabili” pronti a cambiare casacca in cambio di soldi e/o poltrone.
Le attese popolari inutilmente riposte nei “vincitori” richiedono comunque quantomeno un atteggiamento “nazionalistico” nei confronti dei mercati finanziari e delle autorità europee. Atteggiamento, non contrapposizione; retorica, non passi concreti; maggiore rigidità contrattuale nelle trattative internazionali (basta poco per far meglio del passato, quando si firmavano all’unanimità – Lega compresa – trattati vincolanti senza neanche leggerli), non “rottura” dei vincoli e degli impegni comunitari.
Ma anche questa minima postura “euro-tiepida” appare pericolosa a mercati, multinazionali, istituzioni continentali. I quali non hanno mancato di produrre il solito spettacolo – moniti autorevoli, minacce esplicite, aumento dello spread, oscillazioni di borsa, dubbi sul rating futuro, ecc. – che accompagna ogni scadenza importante per la tenuta dell’establishment. Naturalmente non tutti, nell’establishment, si accorgono che ogni loro intervento nelle dinamiche nazionali si traduce – sempre – in rafforzamento dell’ostilità popolare, finendo così per produrre proprio il risultato che si voleva impedire (basti pensare ai casi della Brexit, del referendum costituzionale in Italia, del referendum in Catalogna o, andando indietro nel tempo, al voto di Francia e Olanda contro il testo di “costituzione europea,” poi abbandonato).
Fissato il quadro, vediamo le mosse di giornata dei nostri piccolissimi “eroi”.
Salvini e Di Maio hanno finalmente fatto il nome del presidente del consiglio proposto per mediare tra movimenti diversi. Giuseppe Conte, già indicato nella “squadra di governo” grillina, un paio di mesi fa, un civilista abbastanza quotato da entrare in consigli di amministrazione, commissioni (quella della cultura, in Confindustria), diverse facoltà universitarie. A riprova della tempesta che l’attende, dagli Stati Uniti già si mettono in dubbio alcuni suoi titoli.
La reazione di Sergio Mattarella – richiamare per un inutile giro di consultazione i due presidenti di Camera e Senato – è stata subito considerata da tutti come un prendere tempo, se non altro per sbollire la rabbia e ricordare fisicamente che il suo ruolo non è quello del notaio che approva e basta il “contratto” tra le parti. E soprattutto che il quadro dei vincoli internazionali è prevalente su qualsiasi programmino elettorale.
Anche la lettura – somministrata ai due capipartito – dell’articolo della Costituzione che descrive i poteri del presidente del consiglio appare per un verso singolare (dobbiamo pensare che Salvini e Di Maio non li conoscessero bene?), per un altro un preavviso di ostacoli posti dallo stesso presidente della Repubblica. Rimane insomma aperta, sullo sfondo, l’ipotesi di scioglimento delle Camere e ritorno al voto.
Il nodo formale è chiaro: un primo ministro è il capo del governo, non “l’esecutore” di un contratto steso da altri soggetti. E’ insomma uno che deve decidere, determinare le scelte dei “suoi” ministri, fare scelte per affrontare problemi imprevisti o imprevedibili. L’essenza “politica” di queste scelte richiede insomma un notevole margine di autonomia, che mal si attaglia a un semplice “esecutore” tecnico. Per non dire, infine, della sua autorevolezza nei consessi internazionali, dove dovrebbe apparire come soggetto decidente anche in solitario, se serve, e non certo come un ambasciatore di istanze altrui.
Altri problemi ancora si annunciano sui nomi dei ministri in alcuni posti chiave, come quello dell’Economia, per cui viene indicato Paolo Savona, ex direttore generale di Confindustria (e due!), passato con gli anni dall’europeismo senza se e senza ma all’idea di fuoriuscita dalla moneta unica e, di conseguenza, anche dall’Unione.
Fuori dalle “etichette”, dunque, appare evidente il conflitto sordo tra istanze (e soggetti) di allentamento della rigidità iscritte nei trattati e forze che spingono per lo status quo, rappresentate ormai istituzionalmente dal solo Sergio Mattarella.
Al di là delle chiacchiere, si tratta di una situazione che mette in tensione le residue maglie forti della Costituzione. Con un presidente della Repubblica che agisce in nome dei trattati internazionali (agganciati in Costituzione tramite la modifica dell’art. 81 che ha introdotto l’obbligo all’“equilibrio di bilancio”) e una strana coppia di leader politici costretti a barcamenarsi tra attese popolari sovradimensionate, strumenti operativi di dubbia consistenza e “isolamento internazionale” tutt’altro che innocente o disinteressato.
In questa contesa in altri tempi risibile – una forma di “compromesso” con i mercati finanziari e la Troika, alla fine verrà trovata, alle condizioni peggiori – si va consumando ciò che resta del legame tra popolazione e “classe politica”. Un gorgo che trascina con sé anche la Costituzione, come si diceva, che ormai sembra un abito troppo stretto sia per chi deve farci i conti da fuori (“troppo socialista”, diceva un report di JpMorgan), sia per i neofiti di governo, che ritengono “normale” agire come se non ci fosse.
Ciò non impedisce e non impedirà ai rappresentanti più fidati dell’establishment occidentale – Berlusconi e il Pd, con Renzi o senza – di proporre un’opposizione demenziale tutta fondata sul rispetto dei parametri di Maastricht, del pareggio di bilancio e dunque dell’austerità regressiva.
Il campo d’azione per un movimento popolare diretta espressione delle non poche situazioni di conflitto sociale e territoriale è praticamente infinito. Che questo movimento si metta finalmente a correre è compito nostro. Di questo e non altro parleremo a Napoli, sabato e domenica prossimi.
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