Stanno per compiersi i 100 anni della “Vittoria Mutilata” e sicuramente ci si appresta a ricordare, con grande sfoggio di retorica, “L’Italia di Vittorio Veneto”.
In questi giorni, invece,ricorrono i 103 anni dalle “radiose giornate di maggio” e dell’ingresso dell’Italia nella “inutile strage” come la definì Benedetto XV.
In 3 anni e mezzo circa di guerra su di un fronte di 420 km all’Italia sacrificarono la vita 650.000 soldati e 1.000.000 furono feriti: la più grande concentrazione di spargimento di sangue tra tutti i fronti del conflitto.
Un massacro determinato, prima di tutto, dalla tattica del Comando Italiano che considerava i soldati di fanteria, asserragliati in una assurda guerra di trincea e in gran parte contadini meridionali analfabeti, come pura carne da macello.
Questi fatti debbono essere ricordati, così come devono essere tenute sempre presenti le incancellabili responsabilità di Casa Savoia che poi si macchierà anche dei crimini del fascismo e della responsabilità di aver condotto l’Italia in un altro conflitto mondiale in alleanza con il nazismo e nel quale furono coinvolte come mai prima d’allora le popolazioni civili e il suolo italiano fu invaso da eserciti di invasione.
Inoltre deve essere sottolineato sempre come la scelta di trascinare il nostro popolo nella tragedia fu attuata attraverso un colpo di stato che vide protagonista all’epoca quella che si autodefiniva “classe politica liberale”.
Dunque il 24 Maggio 1915: “mormorò il Piave” e gli italiani furono gettati, grazie ad un vero colpo di stato militar-monarchico, nella fornace divoratrice della prima guerra mondiale.
L’Italia non era obbligata a entrare in guerra dagli stessi trattati internazionali sottoscritti fin dal 1882 con la Triplice Alleanza.
Infatti il fatto che l’Austria non avesse consultata l’Italia prima di dichiarare guerra alla Serbia alla fine del luglio 1914 aveva significato che a rigore l’Italia era sciolta dai suoi obblighi.
Così mentre l’Europa mobilitava i suoi eserciti e nel corso dell’Agosto 1914 prese a scivolare verso la catastrofe, l’Italia annunciò la sua neutralità.
E molti, compresi Giolitti e una maggioranza di deputati, pensavano dovesse rimanere neutrale. Erano convinti che il Paese fosse economicamente troppo fragile per sopportare un conflitto di grandi dimensioni, tanto più a così breve distanza dall’invasione della Libia (1911).
Giolitti suggerì che l’Italia aveva da guadagnare “parecchio” contrattando con entrambe le parti la sua rinuncia a combattere.
Ma il Presidente del Consiglio del momento, Salandra, e il suo ministro degli Esteri, Sonnino, condussero negoziati segretissimi con i governi di Londra e Parigi da un lato e di Vienna e Berlino dall’altro (nello spirito di quello che Salandra chiamò “sacro egoismo”) con l’intenzione di accertare quale prezzo l’Italia poteva spuntare per il suo intervento nel conflitto.
Gli interventisti costituivano un fascio di forze eterogenee che agivano per motivazioni diverse.
C’era una minoranza di idealisti liberali. C’era il Re, che aveva ricevuto un’educazione militare e che voleva ridurre l’influenza di Giolitti, così come suo nonno aveva tentato di liberarsi di quella di Cavour.
La maggior parte dei massoni e degli studenti universitari dotati di più viva coscienza politica erano interventisti, e gli irredentisti naturalmente lo erano “in toto”.
Il partito nazionalista, non appena cominciò a svanire la sua originaria speranza di una guerra contro la Francia, fece fronte comune contro la Germania, dato che per esso una guerra qualsiasi era meglio che nessuna guerra.
I futuristi pure erano decisamente per la guerra, vista come un rapido ed eroico mezzo per raggiungere potenza e ricchezza nazionale: nel settembre del 1914 interruppero a Roma un’opera di Puccini per bruciare sul palcoscenico una bandiera austriaca.
Marinetti dichiarò che i futuristi avevano sempre considerato la guerra come l’unica fonte di ispirazione artistica e di purificazione morale e che essa avrebbe ringiovanito l’Italia, l’avrebbe arricchita di uomini d’azione e l’avrebbe infine costretta a non vivere più del suo passato, delle sue rovine e del suo clima.
Strani compagni di viaggio di questi elementi d’avanguardia erano i conservatori che continuavano la tradizione francofila di Visconti Venosta e di Bonghi, ma anche Salvemini e i socialisti riformisti, i quali volevano una guerra condotta con generoso idealismo, nel nome della libertà e della democrazia, contro la Germania che aveva invaso il Belgio violandone la neutralità.
I socialisti rivoluzionari con a capo Mussolini furono sorpresi di essersi venuti a trovare nello stesso campo neutralista in compagnia dei loro tre principali nemici, Giolitti, Turati e il Papa.
Ma nell’ottobre 1914 Mussolini modificò il suo atteggiamento in “neutralità condizionata” per abbracciare infine nel novembre la tesi opposta dell’interventismo dichiarato.
Può darsi che questo sconcertante cambiamento fosse dovuto al denaro francese, ma senza dubbio influì su Mussolini la convinzione che la guerra avrebbe potuto preparare il terreno alla rivoluzione e abituare le masse alla violenza e alle armi.
De Ambris, Corridoni e gli altri superstiti del sindacalismo rivoluzionario aderirono a questa visione.
Arrivarono poi, nella primavera del 1915, quelle poi definite “le radiose giornate di maggio”: il contributo offerto in quei giorni da D’Annunzio con i suoi infiammati discorsi di Genova e di Roma e da De Ambris e Corridoni con le agitazioni suscitate in quel centro nevralgico che era Milano risultavano decisive per il colpo pensato dalla minoranza interventista.
Per la propaganda il governo fece ricorso ai fondi segreti, e la polizia aveva da lungo tempo imparato sotto Giolitti l’arte di organizzare “manifestazioni popolari spontanee”.
Come poi osservò Salandra, queste manifestazioni erano guidate in massima parte da studenti universitari che, poi, nell’immediato dopoguerra tornati dal fronte come ufficiali avrebbero formato il nucleo più importante degli Arditi e delle squadre d’azione fasciste, educati come erano stati nella violenza e nell’idea della sopraffazione dei subalterni che aveva rappresentato la caratteristica più evidente dei rapporti gerarchici vigenti nell’esercito italiano dove si erano verificati fenomeni di decimazione della truppa in caso di insubordinazione.
D’Annunzio, tornato dalla Francia dove si era nascosto per sfuggire ai creditori, fu informato preventivamente del Trattato di Londra e adeguatamente retribuito per la sua opera di propaganda concluse i suoi discorsi di Genova (4 Maggio, allo scoglio di Quarto) e di Roma (12 e 13 Maggio) con questa proclamazione:
“O compagni, questa guerra che sembra opera di distruzione e di abominazione, è la più feconda matrice di bellezza e di virtù apparsa sulla terra”.
Tale fu la carica emotiva di quel maggio 1915 che alcuni guardarono poi a esso come a un momento di rigenerazione, il momento nel quale l’Italia aveva deciso di combattere per la giustizia e di vincere per la democrazia.
Un abbaglio colossale.
Il 20 maggio la Camera concesse al Governo i pieni poteri con una maggioranza di 407 voti contro 74 (Giolitti era già rientrato in Piemonte).
Il Partito Socialista votò contro, diventando l’unico partito europeo di estrema sinistra fuori dalla Russia a non dare il suo appoggio al conflitto. Una posizione originale, di grande coraggio, rispetto al cedimento che, nell’estate precedente, aveva caratterizzato la posizione della socialdemocrazia tedesca e del partito socialista francese che avevano votato i crediti di guerra cedendo di fatto alla spinta nazionalista.
Il Partito Socialista italiano poi fu l’unico partito socialista occidentale a partecipare ufficialmente alle conferenze di Zimmerwald (1915) e Kienthal (1916), dove si cercò di trovare una posizione comune dei socialisti europei riguardo la guerra. A Zimmerwald passò come risoluzione un documento di Trockij per una pace senza annessioni. Non vi furono conseguenze organizzative rilevanti, ma l’ala bolscevica poté farsi conoscere e riconoscere a livello internazionale portando una posizione di intreccio tra pace e rivoluzione che poi avrebbe rappresentato la base della rivoluzione in Russia.
Tornando a riprendere il filo del nostro discorso non rimane che da rammentare che il 24 Maggio 1915 l’Italia aveva dichiarato guerra all’Austria.
Una nazione lacerata nel suo tessuto morale si apprestava a sostenere uno scontro che sarebbe durato più di 3 anni lasciando, come abbiamo già ricordato, sul terreno 650.000 morti e un milione di feriti.
I fanti, che presto si sarebbero trovati a morire nelle trincee, non avrebbero certo potuto non sentire tutta la brutalità e tutto il cinismo di chi li aveva trascinati alla guerra attraverso una simile mistificante retorica.
Così come nel Paese si sviluppò un sentimento di vera e propria “estraneità” e di rivendicazione culminata nelle eroiche giornate della “rivolta del pane” dell’agosto 1917 in cui furono protagoniste soprattutto le donne.
Una lezione della storia, da non dimenticare mai.
Le porte ad una delle più grandi tragedie della storia erano ormai aperte e, alla fine, in fondo al tunnel di un tumultuoso dopoguerra mentre stava cambiando la mappa politica del mondo, la resistenza delle masse operaie e popolari sarebbe stata travolta e si sarebbe aperta la via alla dittatura fascista.
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