Se ne parla nelle assemblee, compare in molti documenti politici, in alcuni territori è in sperimentazione da anni. Ma sul mutualismo come strumento dell’autorganizzazione popolare ci sono ancora idee e visioni discordanti. In particolare dentro l’esperienza di Potere al Popolo (che a questo dedica uno dei workshop dell’assemblea nazionale di Napoli), si va aprendo un confronto di merito che configura un dibattito vero sugli strumenti dell’organizzazione e della resistenza di classe, incluso quello sindacale che sta sperimentando la dimensione “sociale” come terza gamba dell’organizzazione dei lavoratori del XXI secolo. Abbiamo rivolto alcune domande a Francesco Piobbichi che è stato un po’ il “pioniere” dell’ipotesi del mutualismo, contribuendo a costruire negli anni scorsi la Rete di Autorganizzazione Popolare (Rap). Nei prossimi giorni ci saranno altri contributi.
Si parla spesso di mutualismo come terreno di autorganizzazione. Se è chiaro come il mutualismo nasca con il movimento operaio e contadino nell’Ottocento, appare meno chiaro cosa possa essere il mutualismo oggi, nel XXI Secolo. Cos’è oggi il mutualismo?
Un modo per resistere alla solitudine sociale ed alla guerra tra poveri. Uno strumento di difesa per le classi popolari che non hanno più modo, con la politica di difendersi dall’attacco del capitale. Detto altrimenti un meccanismo che ci permette quanto meno di “pareggiare” nel quotidiano invece che continuare a prendere sberle in faccia mentre pensiamo che arrivi dal cielo il salvatore che ci liberi da tutti i mali. Oggi il mutualismo è un processo in divenire determinato dalla crisi e dalla ristrutturazione dello Stato, è chiaro che dobbiamo definirlo, ma questo lo possiamo fare soltanto se riusciamo a costruire lo spazio pubblico in cui riconoscersi, altrimenti rischiamo di parlarci addosso di quanto siamo ganzi mentre nelle strade avanza la barbarie. Il mutualismo è una pratica che impone verifica concreta, ci obbliga ad un “pensiero ruvido” perché non contano le parole che ricami sopra i processi ma se questi servono concretamente per resistere socialmente oppure no.
Molto spesso si associa il mutualismo all’autorganizzazione quasi spontanea nei territori. Non pensi invece che il mutualismo possa funzionare ed essere efficace solo se è fortemente organizzato e in qualche modo centralizzato, chessò vedi la distribuzione nei gruppi di acquisto solidali e popolari o l’intervento nelle zone colpite da catastrofi?
Il mutualismo deve essere un processo organizzativo strutturato, con regole chiare, con processi trasparenti, è un meccanismo fragile che si regge sulla fiducia reciproca. Se non facciamo questo salto di qualità il rischio che vedo è duplice. Da un lato con la riforma del terzo settore la creazione di un mutualismo di mercato, etico, e inserito dentro i processi di finanziarizzazione attraverso le fondazioni ed i progetti europei, dall’altro la dimensione spontanea delle pratiche a km zero, che anche se coraggiose rischiano di essere troppo deboli rispetto alla stagione che ci si prospetta davanti. Il rischio è che nel giro di un paio di anni queste pratichesiano spazzate via dal disciplinamento sociale neoliberista che ad esempio questo governo proverà ad affermare con sgomberi e repressione. Centralizzazione non vuol dire verticalizzazione dei processi sociali, ed organizzazione non vuol dire burocrazia. Senza la capacità di riconoscersi in regole e valori comuni, rimaniamo ad un livello di solidarietà “primitiva”, frammentata, che non è in grado di definire un noi collettivo sul terreno generale, e noi di quello abbiamo bisogno.
In molte discussioni, si mette talvolta in contrasto il mutualismo con il conflitto sociale, nel senso che il primo affievolirebbe il secondo. Come interverresti in questa discussione?
A Piacenza, senza una cassa di resistenza alimentare i facchini e le loro famiglie non avrebbero mangiato durante lo sciopero. Mi pare che non ci sia altro da aggiungere.
Lo strumento sindacale, ad esempio, come può interagire con il mutualismo?
In maniera fondamentale e servirebbe per ridefinire il sindacato stesso, peccato che nessuno, se non Usb, ci stia mettendo la testa. Sembra quasi che il tema del lavoro non debba misurarsi con il territorio, con la generalità dei bisogni dell’individuo, con l’organizzazione della solidarietà popolare. Eppure è stata proprio questa la forza dei primi sindacati ad insediamento multiplo, quella di dare risposte su tutti gli ambiti della vita e legare le forme della difesa economica e della produzione collettiva al conflitto sociale nei luoghi di lavoro. I forni delle cooperative che davano il pane gratis agli operai che scioperavano tanto per intenderci. La capacità di usare il territorio come strumento per l’organizzazione di tutti gli sfruttati, in particolar modo quando i lavoratori erano dispersi è stata la forza di quel modello sindacale. Nel partito operaio italiano le Case del Popolo e le Camere del Lavoro erano legate tra loro, tutti erano parte di questo processo e tutti si riconoscevano in esso, garantiti e non, occupati, artigiani e disoccupati. Quel modello aveva poi una forza che in ambito municipale generava forme di contrattazione sociale che raggiungevano risultati tangibili. Pensate al libro di Valerio Evangelisti dove si racconta di come i braccianti contrattavano il lavoro e la messa in sicurezza degli argini. Una suggestione questa che andrebbe ripresa per quanto riguarda il tema della messa in sicurezza del territorio come grande opera contro la disoccupazione. Il sindacato che verrà o avrà nella sua anima la dimensione del mutuo soccorso come strumento di difesa collettiva oppure diventerà un patronato il cui scopo principale sarà più quello di difendere la sua struttura burocratica invece che le classi popolari. In ambito metropolitano questo è un tema da aprire con una certa urgenza misurandoci con la complessità della nuova composizione di classe che attraversa la città e le sue contraddizioni.
Infine vorremmo evidenziare la preoccupazione che aleggia su molti compagni. A metà degli anni ’90, la stragrande maggioranza del movimento dei centri sociali si sbragò nell’accettazione dell’allora nascente settore no profit come possibile economia “fuori mercato”, capace di produrre servizi e reddito sganciati dal lavoro salariato. I fatti ci dicono che fu un tragico inganno e che il terzo settore – o no profit – è stata una clava contro il welfare universale che ha spianato la strada alla privatizzazione/esternalizzazione dei servizi sociali. Non c’è il rischio che il mutualismo per l’organizzazione e gestione di servizi popolari di resistenza e sussistenza possa sembrare una capitolazione verso lo smantellamento del welfare?
Si certo, è un rischio concreto che deve servirci come monito collettivo, ma al tempo stesso anche un campo di lotta di classe nel quale ricomporre il blocco sociale. Noi a differenza dell’800 ci muoviamo su un terreno inverso, allora le classi popolari non avevano nulla, e si sono inventate il mutuo soccorso come generatore di risposte alla condizione di miseria dei proletari. Poi è arrivato Bismarck, lo STATO sociale, la socialdemocrazia che si modella sulla presa del potere e diventa essa stessa parte dello stato, ed infine il welfare europeo dentro la cornice delle Costituzioni nate dalla resistenza. Noi siamo nella parte discendente di questo capitolo della storia, a noi il welfare ce lo stanno cancellando mentre le prime forme di mutuo soccorso non avevano nulla e se lo costruivano da sole. Questo vuol dire che noi dobbiamo difendere i diritti sociali e la Costituzione con le forme di mutualità e non usarle per privatizzare come accaduto negli anni '90, ma vuol dire anche che noi dobbiamo porci il tema di come difendere le condizioni di tutto il nostro blocco sociale concretamente e con quali istituzioni e strumenti farlo. Dobbiamo in poche parole costruire una piattaforma di lotte e pratiche che difenda i “nostri” su tutti i livelli. Sia sul terreno istituzionale che su quello del mutualismo, il che vuol dire come concretamente possiamo aiutare uno sfrattato, un clandestino, un operaio in cassa integrazione, una piccola partita iva o una persona che non ha i soldi per il dentista. Per questo, se da un lato il terreno del mutuo soccorso deve essere legato dai processi di controllo popolare, ovvero dalla lotta di classe intesa come processo per difendere e rendere trasparenti i servizi pubblici, dall’altro occorre giocarsi la partita sul terreno della costruzione della nostra organizzazione di difesa economica, ovvero una organizzazione strutturata ed efficace di mutuo soccorso popolare fortemente territorializzata. “Se lo stato non lo fa lo facciamo noi, ma se lo facciamo noi perché non lo fa lo stato?” questa secondo me è la retorica che dobbiamo sviluppare, le pratiche di mutuo soccorso devono servire per rafforzare le vertenze non per indebolirle, ma devono servire anche a se stesse per resistere, per costruire il potere popolare. Dobbiamo essere “dinamici” rispetto a questa fase, sapere che anche quando difendiamo lo Stato sociale ci può essere il rischio che su questo terreno di lotta si aprono processi di welfare etnico che usano la cittadinanza come un muro per dividere la classe, o che nelle pratiche di mutualismo ci sia il rischio di processi di mercato o altre derive. L’unico modo per evitare tutto questo è avere principi e valori chiari, e come dicevo prima un metodo organizzativo condiviso. Oggi vedo una nuova generazione di militanti che può giocarsi questa partita, camminiamo al loro fianco e diamogli fiducia. Il mutualismo è l’opposto di quello che abbiamo fatto come sinistra in questi decenni, ci permette di fuggire dal cretinismo parlamentare e di avere una nuova generazione di militanti che si seleziona e si legittima nelle pratiche invece che dandosi coltellate nei congressi di partito, non penso sia una cosa di poco conto.
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