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24/05/2018

La lunga attesa della sinistra elettorale

Dal 4 marzo, non appena ha iniziato a prendere forma l’abbraccio populista fra i 5 stelle e la Lega, buona parte della sinistra elettorale si è seduta sulla riva del fiume convinta di veder passare da li a breve il cadavere di quanti, pur convinti progressisti, avevano votato per il movimento di Di Maio. Il refrain con cui molti commentavano il successo grillino era che quei voti “erano nostri”, che “fossero solo in prestito” e che prima o poi “ce li saremmo ripresi”. Eppure, anche adesso che il governo con Salvini sembrerebbe in dirittura d’arrivo (Mattarella e UE permettendo) non si scorge all’orizzonte nessun figliol prodigo intento a ritornare dalla diaspora, anzi. Se dovessimo prendere per buone le ultime rilevazioni sulle intenzioni di voto dell’Ipsos pubblicate giorni addietro dal Corsera (vedi) noteremmo che i 5 stelle restano praticamente stabili al 32,6% (con la Lega che schizza al 25%), mentre Leu cala al 2,4% e la sinistra radicale non viene nemmeno presa in considerazione. Lo stesso si dica per la base grillina, che nel voto online dello scorso weekend ha plebiscitato un 94% di consensi al contratto di governo. Come mai questo disvelamento della “reale natura reazionaria” del 5 stelle non ha prodotto gli smottamenti che si attendevano tanto nella loro base quanto nel loro elettorato? Eppure nelle scorse settimane la stessa Repubblica aveva provveduto con diversi articoli a dar voce alla delusione di quella parte dell’intellighenzia di sinistra che, prima del voto, aveva fatto outing, dichiarando il proprio sostegno a Di Maio.

Il fatto è che tutti questi ragionamenti poggiano su un equivoco di fondo e su un conseguente ribaltamento del rapporto di causa ed effetto. La sinistra (più o meno radicale) non scompare elettoralmente perché cannibalizzata dai 5 stelle e il successo del movimento fondato da Grillo, e più in generale del populismo, non è la causa del suo fallimento quanto piuttosto una conseguenza, più o meno diretta, della sua inadeguatezza. La rottura elettorale tra la sinistra e il suo popolo avviene ben prima che i 5 stelle prendano forma ed ha radici materiali e politiche con cui si continua a non voler fare i conti e su cui evitiamo di tornare per brevità. Bisognerà però finalmente prendere atto che quello grillino non è “il nostro popolo che sbaglia”, e non lo sarà più per un bel pezzo. Perché il popolo non esiste in quanto tale, non è un’entità oggettiva né una comunità organica, ma una costruzione politica frutto di una battaglia per l’egemonia dei subalterni e fra i subalterni. E se questa battaglia nemmeno la si combatte, difficilmente la si potrà vincere.

L’esempio più emblematico al riguardo è forse quello del reddito di cittadinanza. Una delle chiavi di interpretazione del voto del 4 marzo è stata infatti che i 5 stelle avessero vinto al Sud perché avevano messo nel loro programma il reddito per tutti. Quindi sarebbe bastato fare altrettanto per replicarne il successo. Il risultato è stato che nemmeno un giorno dopo erano già tutti impegnati a tentare di scavalcare i grillini a sinistra, criticando la “moderazione” della loro proposta e indicando la necessità di misure più drastiche e assegni più sostanziosi. Senza domandarsi perché una delle rivendicazioni storiche della sinistra post-marxista, e che in oltre 40 anni non era stata capace di mobilitare alcunché se non i militanti più stretti, fosse diventata improvvisamente una proposta credibile per milioni di italiani. Scriveva Karl Kraus che “le buone opinioni non hanno valore, ciò che conta è chi le ha”, ed in questo caso è esattamente così. La credibilità non sta nella proposta in sé (qui e qui cosa ne pensiamo) ma in chi la propone e, soprattutto, nella sua capacità di intercettare, anche se in forma alienata, quella domanda di “protezione” che proviene da ampi strati della società impoveriti e impauriti dalla crisi e dalla globalizzazione. E il fatto che agli occhi dei subalterni oggi risulti più credibile di noi “un così piacevole miscuglio di ciarlatano e di profeta” è esattamente la misura della crisi politica in cui siamo immersi.

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