Con la scaltrezza tipica del giornalista medio italiano, l’inserto settimanale de Il Corriere della Sera (Sette) dedica la sua copertina all’ansiosa domanda: “Preferite una società aperta o una società chiusa?”, con tanto di finestre atteggiate alla bisogna.
L’ideologo-direttore, Beppe Severgnini, ha tranquillamente spiegato che in realtà sta parlando di politica: siamo pro o contro l’Unione Europea? Se rispondi “ok”, sei “aperto”, al contrario sei “chiuso”. Un modo esplicito di ridisegnare i campi politici in generale, in Italia, con Lega e Cinque Stelle tra i “chiusi” e tutti gli altri tra gli “aperti”, anche se sfortunatamente con minori consensi elettorali.
Un’operazione sbrigativa e pacchiana, visto che oltretutto i “meloniani” (i seguaci della Meloni) continuano a parlare male dell’“Europa” e a chiedere “orgoglio italiano” proprio come Salvini, anche se restano fuori dalla maggioranza di governo proprio come Berlusconi.
Ma per quanto giocata in modo sbrigativo e truffaldino, l’operazione ha un senso, per i poteri che editano il Corriere. Svuotata la “sinistra” delle sue ragioni sociali e quindi immolata sull’altare dell’europeismo a tutta austerità, quei poteri hanno il problema di costruire comunque un consenso intorno alla propria idea di governance. Dunque devono squalificare totalmente anche la destra (quella storica della Lega) e il neocentrismo acefalo dei Cinque Stelle, scatenando i propri cani. Le polemiche da quattro soldi sul curriculum di Giuseppe Conte (superate dalle precisazioni provenienti dagli Usa) e sul “pericolo Savona” sono manifestazioni deteriori di una prassi decennale, da parte del sistema mediatico, abituato a creare e distruggere – a comando – figure di improbabili “salvatori della patria” e di plausibilissimi Caimani.
Il senso è creare una nuova grammatica dei “campi” politici in grado di sostituire quella tra destra e sinistra, da tempo indistinguibili sul piano delle pratiche governative. Ma nel fare l’operazione si debbono anche mettere in atto degli slittamenti semantici. Per esempio, visto che è impossibile, ormai, convincere che l’Unione Europea è una buona cosa – il voto del 4 marzo ha certificato uno stato d’animo negativo dominante – allora bisogna ricorrere alla vecchia dicotomia tra “società chiusa” e “società aperta”, dove le parti del buono e del cattivo sono già assegnate insieme ai nomi. Chi mai potrà essere così stupido da rispondere “voglio una società chiusa”? Un po’ come avveniva ai tempi di Veltroni, che ci ha ammorbato per un decennio col “nuovo” contrapposto al “vecchio”...
Anche gli ideologi alla Severgnini fanno parte dello stuolo dei reazionari così intelligenti da “sollevare pietre e lasciarsele cadere sui piedi”. Perché, nel tentativo di camuffare il problema strategico principale, lo mettono involontariamente in grande evidenza.
E il problema è: chi comanda, qui?
La divisione aperti/chiusi è infatti tutta interna al “campo borghese”, si sarebbe detto una volta. E’ la divisione tra la parte del mondo imprenditoriale che ha avuto grandi guadagni da globalizzazione commerciale, delocalizzazione produttiva, finanziarizzazione dell’economia, e la parte che invece ha visto ridursi enormemente le proprie capacità “competitive” dentro un mercato di cui non controlla più le dinamiche.
Entrambe le parti hanno avuto vantaggi enormi dalla distruzione delle regole sul mercato del lavoro (precarietà, bassi salari, zero diritti, tagli delle pensioni, complicità dei sindacati “gialli”), il che ha permesso di tenere sotto traccia la divisione per molto tempo (dagli accordi di Maastricht ad oggi). Ma ora, dopo dieci anni di crisi e una “ripresa” che sta già finendo senza aver nemmeno permesso di ripianare le perdite, senza neanche una pressione efficace dei lavoratori organizzati, quella divisione è esplosa.
Attenzione. E’ una divisione che non riguarda solo l’Italia. E’ successo o sta succedendo in tutto il vecchio mondo occidentale. Negli Usa ha prodotto la vittoria di Trump, in Germania l’affermazione di Alternative fur Deutschland, nell’Est dei fasciorazzisti di ogni tipo, in Gran Bretagna la Brexit, ecc.
Banalmente, le popolazioni dell’Occidente hanno visto svanire le conquiste sociali e salariali ottenute nel secondo dopoguerra, e – scomparsa “la sinistra” ammaliata dal cosmopolitismo del capitale (l’esatto opposto dell’internazionalismo dei lavoratori) – la direzione politica del malcontento popolare è stata temporaneamente assunta dalla parte di capitale in declino. Il quale ha guardato per un po’ alla destra classica (in Italia: Berlusconi) per poi preferire un ritorno al nazionalismo d’antan.
Il quale non ha alcuna possibilità – e neanche la volontà, basta guardare a come i Cinque Stelle mollano una posizione dopo l’altra – di rompere con i vincoli dei trattati, ma si limita a ripetere il classico mantra “riformista di sinistra”: bisogna ridiscuterli, correggerli, modificarli. Dimenticando che ogni cambiamento va approvato all’unanimità dai 27 paesi, dunque è di fatto impossibile (a meno che non sia l’“Asse franco-tedesco” a imporlo con la forza).
Si capisce, a questo punto, che la domanda di Severgnini su “società aperta” o chiusa è una presa per i fondelli. Dovrebbe essere semmai: ci hai guadagnato o ci hai perso con i trattati europei e la moneta unica?
I lavoratori dipendenti di ogni livello e tutte le figure sociali più deboli (pensionati, disoccupati, precari, ecc) ci hanno rimesso. E tanto. Dunque non hanno alcuna ragione di schierarsi a difesa dell’Unione votando le formazioni “europeiste”. Né hanno qualcosa da guadagnare da un governo grillin-leghista che ha promesso molto, ma non potrà né vorrà fare qualcosa per loro. Basta uno sguardo sui beneficati dall’ipotesi flat tax per rendersene conto.
Quella divisione tra settori del capitale evidenzia un problema strutturale, insomma, ma non suggerisce nessuna “alleanza”. Perché battagliano tra loro su come suddividersi i profitti, ma sono pronti ad azzannare uniti chiunque si opponga rappresentando gli interessi del nostro blocco sociale, del nostro “popolo”. Quando parlano di “sicurezza”, non a caso, fanno a gara a chi è più duro con scioperi, occupazioni, proteste, ecc. Insomma, polizia schierata contro il popolo, non a sua “protezione”.
Dunque? L’ideologo Severgnini ci ha fatto almeno un favore. Ha messo in primo piano la questione principale: l’Unione Europea si può soltanto rompere o obbedirle ciecamente, ma non ci sono alternative “morbide”, “riformatrici”, ecc. Anzi, come diceva anche la Thatcher, “non ci sono alternative” e basta.
Sarebbe ora che anche nella cosiddetta “sinistra radicale” la si smettesse di giocare con le parole e ci si misurasse con i fatti. Il giorno che una eventuale coalizione popolare raggiungesse il mitico “51%” alle elezioni, troverebbe un Mattarella o chi per lui che ci tratterebbe esattamente nello stesso modo: veti a questo o quel ministro (a tutti, presumibilmente), obblighi internazionali da mantenere (con la Nato, oltre che con la Ue e l’euro), abbandono pressoché completo del “programma elettorale”. Altrimenti entrerebbero in azione “i mercati”, lo spread, la Commissione, i Moscovici e i Dijsselbloem, i Draghi e gli Schaeuble.
E’ questa situazione strategica che rende inutile, risibile, preistorica l’idea di “allargare” i contenitori politici con pezzi di ceto politico sinistrese maciullato dalla prova di governo, odiato dalla nostra gente, visibilmente alla ricerca di un trampolino di rilancio individuale. L’unico allargamento possibile viene dal radicamento sociale, dalla conquista di un ruolo, dalla serietà delle proposte, dal realismo del programma, dalla coerenza dei comportamenti pratici, dall’univocità della comunicazione, dal dare risposta concreta ai problemi in primo piano e che tutti – anche i Severgnini – devono affrontare.
Dunque avere un “piano B”, qualcosa che assomigli almeno a quello della France Insoumise, e un’alleanza internazionalista alternativa, è il minimo della pena, per chi davvero crede di poter cambiare questa parte di mondo. Altrimenti fa chiacchiere in libertà. Il nostro popolo, ormai, se ne accorge anche da lontano. E ti molla.
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