Ci puoi raccontare il senso di questa iniziativa del 1° maggio?
Il 1 maggio a Lampedusa è stato voluto fortemente dall’USB. Noi del collettivo Askavusa abbiamo deciso di aprire uno sportello USB a Lampedusa e da più di due anni stiamo portando avanti alcune vertenze ma soprattutto stiamo cercando di aprire un percorso di conoscenza e collaborazione con i lavoratori dell’isola. Il 1° maggio per noi ha voluto dire prima di tutto intrecciare la questione del lavoro con quella della militarizzazione e dell’inquinamento dell’isola a partire dall’inquinamento elettromagnetico.
Più lavoro, per noi, non significa aumentare i posti di lavoro senza fare una riflessione sulla qualità del lavoro. Proprio il primo maggio i lavoratori dell’hotspot di Lampedusa proclamavano lo stato di agitazione ed hanno cercato anche dei contatti con il nostro sindacato. Quello che abbiamo chiarito sul palco è che noi non possiamo difendere quei posti di lavoro, noi non possiamo difendere il lavoro che è funzionale alla creazione di “nuovi schiavi”, alla privazione della libertà di altre persone, non possiamo difendere il lavoro che è strettamente legato alla militarizzazione dell’isola e del mediterraneo tutto, un lavoro che si intreccia agli interessi di politici e mafiosi. Quello che il sindacato può fare in questo caso è essere strumento per rivendicare lavoro che dia dignità, sia a chi lo svolge che a chi ne usufruisce in termini di servizi o di merci.
Per questo motivo stiamo cominciando a progettare delle attività economiche gestite direttamente dai lavoratori in maniera assembleare, ognuno con lo stesso stipendio ed ognuno con la stessa responsabilità. Speriamo entro un paio di anni di realizzare un ostello gestito con questi metodi. L’idea è di creare una serie di attività che creino reddito e coscienza di classe. Che possano nel piccolo e con le nostre poche risorse creare degli esempi e delle opportunità per chi vuole cambiare sistema di lavoro. Penso ai tanti lavoratori stagionali in nero che d’estate lavorano anche dieci ore al giorno, non hanno giorno di riposo e percepiscono paghe al di sotto delle loro prestazioni, spesso in una condizione di ricatto, o si accettano queste condizioni o si è condannati alla disoccupazione. Ora se noi riusciamo da un lato ad unire questi lavoratori ed insieme chiedere ciò che gli spetta e dall’altro dare la possibilità a chi vuole uscire da questo sfruttamento di accedere ad una nuova forma di lavoro abbiamo fatto un passo in avanti.
La militarizzazione dell’isola ha creato un indotto ed anche l’hotspot, per cui alcuni imprenditori isolani non hanno nessun interesse affinché l’isola si smilitarizzi.
Nella metà degli anni ottanta sull’isola cominciò un processo di sostituzione, un passaggio dall’economia legata alla pesca a quella del turismo. A partire dalla metà degli anni novanta, in maniera lenta e costante, l’economia lampedusana ha cominciato un’altra metamorfosi, quella dall’economia del turismo a quella dipendente dall’uso militare e di “carcere” che l’UE e la NATO hanno determinato per l’isola.
C’è bisogno di un lavoro diverso, un lavoro che abbia prima di tutto una prospettiva comunitaria, collettiva, di classe e che veda nelle risorse naturali non beni da sfruttare ai fini del profitto, ma tesori in sé, da salvaguardare e proteggere, non perché fanno fare soldi, ma perché sono già ricchezza e soprattutto ricchezza comune che va sottratta dalla “messa a valore”.
Più lavoro meno radar grosso modo voleva sintetizzare questi concetti.
Uno degli elementi che nessun media ha mai raccontato per davvero è il tema dei diritti negati, da quello ai trasporti a quello alla sanità ed all’istruzione. Qual è la situazione da questo punto di vista?
In realtà qualche giornalista ci ha provato ma questo aspetto rimane sempre subordinato alla questione delle migrazioni con la sua doppia retorica umanitaria/securitaria.
Per raccontare bene la mancanza di diritti sull’isola c’è bisogno di uno spazio che attualmente non è disponibile sui media, ma ci vuole anche la voglia e l’interesse di approfondire da parte dei lettori o dei telespettatori.
Ci vuole la forma dell’inchiesta con le sue caratteristiche che non sono vendibili al grande pubblico, è molto più facile fare un paio di foto a dei barconi che arrivano al porto, creare degli eroi rassicuranti e il prodotto è confezionato. Come collettivo colleghiamo l’assenza di diritti a Lampedusa con l’uso che il potere dominante fa dell’isola. Il discorso su Lampedusa per noi ruota attorno questo tema. I diritti vengono negati perché c’è una volontà di scoraggiare la vita sull’isola, o al massimo di subordinare la vita dei lampedusani alla funzione militare e di carcere. Questo processo senza la “collaborazione” più o meno inconsapevole di noi lampedusani, sarebbe impossibile. Noi ci lamentiamo di tutto, sempre, ma al momento in cui c’è da agire concretamente spariscono tutti. Si è tollerato qualsiasi cosa, spesso anche perché portava un tornaconto personale: dall’assenza di un piano regolatore, all’abusivismo selvaggio, alla distruzione del patrimonio archeologico e paesaggistico, all’assenza di strutture scolastiche adeguate ed agibili, all’assenza di collegamenti che garantiscano la continuità territoriale etc. etc.
Lampedusa è un’isola in cui si ricevono medaglie, onorificenze, prime pagine, visite illustri, ma se ti devi curare devi pagarti tutto da solo, se devi studiare devi pagarti tutto da solo, se uno dei tuoi cari muore fuori dall’isola devi pagare il viaggio di ritorno della bara, non hai edifici scolastici agibili, hai sul tuo piccolo territorio otto radar, antenne di tutti i tipi e svariate caserme e nessuno dice o fa niente, non hai l’acqua potabile e paghi il carburante carissimo, uno dei prezzi più alti d’Europa, e potrei continuare, quello che mi viene da sottolineare in forma di domanda è “tutte queste medaglie a chi servono?”
Voi avete fatto una serie di battaglie che trovando molto consenso tra la popolazione, siete stati i primi a denunciare le condizioni dell’hot spot chiedendone la chiusura, la vicenda del depuratore e dell’acqua, avete chiesto il registro epidemiologico per vedere se nell’isola esisteva un legame tra l’inquinamento elettromagnetico e la salute a che punto siete? Avete ottenuto dei risultati?
E’ un processo che è in corso e che senza la partecipazione degli altri isolani non ha la forza necessaria. Per noi la questione centrale è creare azioni collettive, dialogo, conoscenza, obbiettivi comuni.
Il lavoro all’interno dello schema istituzionale lo abbiamo fatto e lo continuiamo a fare perché crediamo che tutti debbano essere chiamati in causa sulle proprie responsabilità ma con la consapevolezza che le attuali istituzioni sono permeate dalla logica neoliberista che sappiamo bene ha come unico obbiettivo l’accumulazione di capitale in poche mani e la distruzione dei diritti e della dignità dei lavoratori e in generale delle classi più deboli. L’UE, il FMI e gli interessi che rappresentano, stanno plasmando a loro uso e consumo le nazioni e istituzioni importantissime come i comuni, a partire dallo smantellamento delle costituzioni nate dall’antifascismo e garanti della democrazia, con tutte le contraddizioni interne che si possono rilevare nelle costituzioni e nelle istituzioni “democratiche”.
Per questo bisogna creare altre istituzioni che partano dalle esigenze degli sfruttati e che siano partecipate da quello che generalmente viene chiamato “popolo”. In questo senso possiamo dire di stare ottenendo una maggiore comprensione e collaborazione dal resto degli isolani. E’ un lavoro che ha bisogno di tanto tempo e di esempi concreti ma che alla lunga porta ad ottenere risultati.
Nell’isola voi avete lanciato il tema di un piano del lavoro, legandolo alla rivitalizzazione dell’isola, di che si tratta?
Si tratta di alcuni interventi che se realizzati porterebbero al miglioramento della vita dei lavoratori dell’isola che al momento vivono una condizione di sfruttamento, ad esempio, con il sindacato USB stiamo cercando di offrire ai lavoratori stagionali dell’isola, strumenti che possano portare ad una vita lavorativa che non sia fatta da orari di lavoro di 10/12 ore, senza giorno libero, senza pausa etc. etc.
Anche qui però il punto centrale mi sembra quello detto prima: noi dobbiamo fare uno sforzo maggiore e creare quello che non esiste. Il posto di lavoro è concepito come un favore che ti fanno e a cui deve corrispondere l’accettazione di ogni condizione imposta accompagnata da gratitudine per chi “ti ha fatto entrare” o ti ha assunto.
Le istituzioni hanno smantellato ogni garanzia per i lavoratori e si è imposta la logica della mercificazione, della valorizzazione di ogni aspetto della vita e di ogni bene materiale o no. Pensiamo che la risposta sia creare forme diverse di lavoro, anche in questo caso collettive, paritarie, responsabili con la volontà di dare al lavoro una valenza sociale che vada oltre il salario. Stiamo studiando alcuni piccoli progetti come un ostello e una cooperativa agricola ma verosimilmente ci vorranno un paio di anni.
Nello stesso tempo stiamo programmando un periodo da ottobre a novembre in cui insieme alle BSA (brigate di solidarietà attiva) si facciano dei campi di volontariato per la pulizia straordinaria dell’isola che serva come esempio per aprire il terreno della “reinternalizzazione” dei lavoratori che tutelano il territorio, un esempio questo utile anche al resto d’Italia dove il tema della messa in sicurezza ecologica ed ambientale del territorio è l’unica grande opera necessaria.
Queste attività saranno accompagnate da una serie di incontri con realtà che in questi anni hanno difeso il territorio dall’attacco del capitale sotto forma di grandi opere civili o militari. Ritornando al tema del lavoro in questo senso vogliamo mettere in luce come questa attività di pulizia non vuole e non deve sostituirsi a quella prevista da parte della “nettezza urbana” ma al contrario vuole essere uno stimolo a municipalizzare il servizio e dimostrare che anche se apparentemente sembra la scelta più difficile per l’amministrazione comunale, in realtà è l’unica via possibile che deve avvalersi in un primo momento anche del lavoro dei volontari che noi siamo in grado di organizzare.
Ancora una volta la protezione del territorio deve passare attraverso forme di organizzazione e istituzione che superino il modello statale vigente ma che in questa fase devono assolutamente dialogare con le forme di amministrazione esistenti, principalmente con l’amministrazione comunale che rimane, nel bene e nel male, espressione di una volontà “popolare” e forma controllabile di governo.
Nel progetto “demilitarizza rivitalizza” avete anche inserito il tema di una campagna da condurre insieme ai pescatori locali per mettere al bando la plastica nel mediterraneo, pensate di coinvolgerci anche altre realtà?
Assolutamente si. Noi presenteremo questo progetto entro agosto e da lì cercheremo di coinvolgere tutte le realtà che si riconoscono nei metodi e negli obbiettivi esposti.
In tutti i vostri interventi emerge con forza l’idea di costruire come comunità lampedusana un processo di autorganizzazione sociale nel quale il municipio torna ad essere protagonista insieme alle forme di partecipazione. Che volete per caso fare una Marinaleda nel mezzo del Mar Mediterraneo?
Marilaneda è un bell’esempio ma ha una storia completamente diversa da quella di Lampedusa, loro hanno una tradizione legata alla terra e alle lotte sociali che è diametralmente opposta a quella di Lampedusa, che per quanto abbia degli esempi come quello di Angelo Gallo: sindacalista e comunista che ha lottato insieme a pochi altri per i diritti e la dignità dei lavoratori di Lampedusa, c’è ben poco. In ogni caso si tratta di storie che non hanno continuità e che sono state rimosse.
Ci sono altri esempi in America Latina molto importanti ma noi abbiamo una storia ed una posizione militarmente strategica che sono uniche al mondo e per questo nonostante gli esempi sono utili e necessari stiamo immaginando e percorrendo un sentiero nuovo che ha una dimensione mediterranea ed una specificità molto forte. Quello che immaginiamo è molto difficile perché ha bisogno necessariamente di una partecipazione attiva di tutta la comunità e personalmente credo che ci vogliano delle generazioni per questo.
In questa ottica è fondamentale creare una continuità, essere incarnati nella storia e non fermarsi ad azioni autoreferenziali.
Come artista e cantautore hai fatto diverse cose e recentemente è uscito il tuo ultimo album Arrispigghiativi, vuoi dirci qualcosa rispetto alle tue attività culturali e artistiche?
Sul mio ultimo album, dedicato a Pasquale De Rubeis “U Pachinu”, intanto invito all’ascolto a questo indirizzo e ricordo che scaricandolo si contribuisce alla stampa del CD.
Per la realizzazione dell’album è stata fondamentale la collaborazione con Jacopo Andreini e tutti gli altri musicisti e artisti che hanno collaborato tra cui la grande pittrice siciliana Alice Valenti e anche tu Francesco con la realizzazione per ogni brano di un tuo disegno di cui si possono acquistare le stampe per sostenere il fondo sociale di Lampedusa gestito dal Forum solidale di Lampedusa per i bisogni di chi vive e di chi passa dall’isola.
In particolare per le cure mediche visto che molti lampedusani sono costretti a partire non essendoci un’ospedale sull’isola ed avendo a proprio carico le spese di viaggi, vitto e alloggio. Per ordinare una delle stampe si può scrivere a fpiobbichi@hotmail.com
Un altra attività che credo sia importante è PortoM realizzato sempre con il collettivo Askavusa luogo di memoria e laboratorio politico in cui sono esposti gli oggetti delle persone migranti passati dall’isola e le opere che ho realizzato con questi oggetti (guarda qui la galleria).
Per chi volesse approfondire quello che faccio può visitare il mio sito www.giacomosferlazzo.it
Talìula è un’opera dell’artista lampedusano Gianfranco Rescica che ha collaborato con Giacomo Sferlazzo inserendo nella sua composizione il brano ARRISPIGGHIATIVI. Le opere di Gianfranco Rescica si focalizzano sul recupero della memoria dell’isola di Lampedusa utilizzando diversi “media”. In particolare Rescica, ricerca e utilizza foto pescate dagli archivi familiari che poi ricompone ridando senso e profondità ad “effetti personali” ricollocandoli in una prospettiva comunitaria e storica.
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