Non c’erano dubbi in proposito, ma la direzione politica intrapresa
dalle sinistre nell’accanita lotta al populismo ha dileguato come niente
fosse il significato elettorale dello scorso 4 marzo. Prosegue, questa
accolita al momento definitivamente espulsa dalla società, come se
niente fosse cambiato rispetto a dieci o venti anni fa. Insiste
nell’assoluta mancanza di coraggio nel sottoporre a critica radicale i
motivi di fondo della sua esistenza. Fa luce su tutto questo un articolo
di Gianpasquale Santomassimo, pubblicato lo scorso 29 giugno sul Manifesto. Nel
pezzo, che qui riprendiamo, viene sottolineata l’apatia generale di
questo insieme di sinistre che continuano a sottrarsi alla resa dei
conti intellettuale e ideologica che pure sembra necessaria. Dal 5
marzo, come prevedibile, si è tornati a farneticare di fronti
antifascisti, strillando al ritorno del fascismo, ignorando le scosse
telluriche alla radice di un risultato elettorale che, a saperlo
leggere, ci racconta di un mondo nuovo che finalmente ha trovato anche
una sua rappresentanza politica capace di arrivare in prossimità del potere. Una
rappresentanza che non ci piace (come potrebbe piacerci?), ma che piace
a chi non ha alcuna alternativa materiale a cui affidarsi. Non è poco.
Nel momento in cui la società reale, quella formata da milioni di
proletari vinti alle logiche populiste, decreta l’espulsione del Pd dal
governo, pezzi di sinistra residuale tornano a proporre strampalate
alleanze antirazziste al fianco di chi, in questi anni, ha assolto il
compito di promuovere un razzismo diffuso e dal volto umano verso i ceti
popolari in generale e i migranti in particolare. Si agita il mito di
un Pd “derenzizzato” a cui non crede più neanche Cuperlo, per dire; si
favoleggia di “ripartenze dai territori”, come se la cinghia di
trasmissione tra centro e periferia del partito della stabilità
liberista fosse in qualche modo attaccabile in qualche suo punto debole.
Nell’istante in cui il Pd muore, un pezzo di sinistra si offre come
stampella ideologica nella lotta al razzismo leghista. E tutto questo in
attesa del passaggio di consegne tra Renzi e Zingaretti. A quel punto i
fuochi d’artificio saranno assicurati: finalmente il Pd verrà rimesso
al centro di ogni possibile alleanza progressista contro il fascismo. Ma
la mancata analisi del 4 marzo sta producendo molti più danni di quanto
fosse lecito aspettarsi.
Proprio nel momento in cui finalmente si procede all’attacco
frontale contro l’ongizzazione delle questioni sociali, di cui quella
migrante è la più evidente, la sinistra – tutta – viene costretta dentro
una logica binaria di difesa di quelle stesse Ong, che costituiscono da
decenni lo strumento attraverso cui disattivare qualsivoglia
conflittualità politica riguardante le contraddizioni generate dal
liberismo in crisi. Nel momento in cui si diviene, volenti o nolenti,
espressione politica dell’ideologia Ong, viene persa per strada la
natura sociale del voto del 4 marzo, cioè il contraddittorio rifiuto
della stabilità liberista fondata sui dogmi del pareggio di bilancio e
della riduzione del welfare. La questione migrante smette i panni della
problematica sociale per indossare quelli, pacificati, della questione
culturale: razzisti contro antirazzisti, come se, di punto in bianco,
quegli stessi milioni di proletari si siano automaticamente convinti
della difesa della razza (mentre se avessero votato Pd, Leu e
accozzaglia varia, sarebbero rimasti illuminati umanisti).
A forza di sballare paragoni col passato ripetendoli meccanicamente
ad ogni cambio di governo (c’era il fascismo con la Dc, con Berlusconi,
con Prodi, con Monti, con Renzi...), ci ritroviamo a braccetto con chi ha
tutto l’interesse a declinare la lotta al populismo come questione
antirazzista. Un tema che è centrale, ovviamente, ma solo ed
esclusivamente in quanto sociale, cioè espressione e lotta al
risentimento piccolo borghese verso i lavoratori poveri. Eppure è
proprio la questione sociale ad essere scomparsa dai radar della
sinistra dopo il 4 marzo. Prova ne è la (non) reazione delle sinistre
verso il “decreto dignità” in corso di approvazione dal governo. Per la
prima volta – ripetiamo: per la prima volta – da decenni viene approvato
un decreto che va (parzialmente nd Re-carbonized) contro gli interessi di Confindustria, che infatti ha
scatenato subito la contraerea ideologica guidata da Repubblica. Un
decreto ultra-mediato, ovviamente, dal sapore propagandistico,
certamente. Una misura più da campagna elettorale che materialmente
efficace. Non può essere il nostro orizzonte, neanche volendoci
attestare a una visione riformista dell’azione di governo. Eppure rimane
il segnale: in assenza di opposizione sociale, nel deserto di qualsiasi
spinta dal basso, popolare, verso misure di redistribuzione del
reddito, il governo vara una di quelle misure per cui è stato per
l’appunto votato dai proletari di cui sopra. Un decreto immediatamente
contrastato dal partito unico di Repubblica.
La (non) reazione delle sinistre esemplifica il punto morto a cui sono
giunte: sghignazzamenti sui social network, sbeffeggiamenti,
disinteresse generale. Eppure è proprio attorno alla questione sociale,
cioè all’azione di destituzione delle controriforme liberiste del Pd,
che si gioca la partita complessiva tra governo e sua possibile
opposizione. Solo da qui è possibile immaginare una lotta al razzismo
economico che sia al tempo stesso guerra senza quartiere a ogni ipotesi
centrosinistra, nonché in grado di recuperare un rapporto con chi si è
rassegnato all’egemonia populista. Poi, certamente, una posizione
politica non “vive” per il solo fatto di essere giusta. Andrebbe anche,
soprattutto, declinata nelle lotte di classe. Non c’è alcuna soluzione a
portata di mano al momento. Ma reiterare l’orrore di una sinistra
succube del liberismo democratico non può che approfondire la distanza
abissale tra sinistra e classi popolari del paese.
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