di Michele Giorgio – Il Manifesto
Rami sorride mentre
mostra gli smartphone più costosi ai clienti sauditi entrati nel suo
negozio. Parla un buon inglese e ci sa fare. Con un piccolo sconto e una
spiegazione tecnica particolareggiata convince senza fatica i due ad
acquistare il telefono di una nota marca che ha tra le mani.
«Sono del Kerala, la maggior parte degli indiani che vivono e
lavorano qui sono del Kerala», ci dice riferendoci che le recenti
inondazioni non hanno toccato il suo villaggio. Rami è uno dei
300mila lavoratori stranieri in Bahrain, circa un terzo della
popolazione totale del minuscolo arcipelago del Golfo. Quasi tutti
orientali. È raro incontrare i bahraniti arabi in via al Khalifa e a Bab
Bahrain e il centro di Manama appare un piccola India con qualche spruzzo di Pakistan, Sri Lanka e Filippine.
Il profumo delle spezie è penetrante. Tessuti, oggetti e alimenti
arrivati dall’Oriente sono il tema dominante nelle strette viuzze della
zona. E asiatici sono i commercianti di perle, anche se quella che un
tempo lontano era l’orgoglio dei pescatori bahraniti oggi è solo
un’attività marginale in un paese che pretende di essere un hub
finanziario e che nelle sue costruzioni più recenti imita i più ricchi
Emirati e l’alleata Arabia Saudita.
«Si guadagna bene. Di solito si resta qui 3-4 anni poi si
torna a casa. I sauditi sono i nostri migliori clienti, spendono
parecchio e questo ci aiuta a mettere da parte quanto serve per
comprare una piccola casa una volta rientrati in patria», ci spiega
Rami. Ma non è oro tutto quello che luccica.
«Purtroppo – aggiunge – tante ragazze orientali finiscono nel
giro della prostituzione, il motivo principale per cui tanti maschi
sauditi e di altri paesi del Golfo arrivano qui il giovedì sera è quello
di bere alcol e cercarsi una prostituta». Parole che trovano
conferma negli hotel del centro di Manama. Uomini in abiti tradizionali,
spesso anziani, giunti in gran parte dall’Arabia Saudita – grazie al
ponte che collega in due paesi – si accompagnano a ragazze asiatiche con
le quali, quasi sempre, finiscono in una stanza di hotel per sesso a
pagamento. E bevono tanto.
«Se non vuoi correre rischi allora non guidare a Manama la domenica e
il lunedì sulle tangenziali – ci avverte una conoscente – perché tanti
sauditi ancora alle prese con gli effetti della sbornia si mettono al
volante per tornare a casa». Il Bahrain, aggiunge accennando un
sorriso «è ormai da anni il luna park dei sauditi, quello che i sauditi
non possono fare a casa loro vengono a farlo qui, ciò che è proibito nel
loro paese è consentito qui».
L’accesso facile all’alcol e alla prostituzione contrastano con le
severe leggi in vigore nel paese. In Bahrain la minoranza sunnita, che
fa capo a re Hamad bin Isa al Khalifa, è wahhabita, corrente tra le più
rigide dell’Islam. Non meno severe sono le regole sociali che segue la
maggioranza sciita.
La prostituzione è vietata e i server locali di internet, come in altri Stati della regione, negano l’accesso a siti porno.
Nel 2008 è stata approvata una legge contro il traffico di esseri
umani, che prevede pene da tre a 15 anni di reclusione, e l’articolo 325
prescrive la reclusione da due a sette anni per la prostituzione
forzata e da tre a dieci anni se la vittima è un bambino. Ma
nella vita reale le cose sono ben diverse e negli hotel che si
affacciano sulle strade percorse da donne avvolte nell’abaya nero, tante
giovani orientali sono costrette a prostituirsi.
Sarebbero circa 15mila e in aumento le prostitute presenti a Manama e in altre località,
secondo i dati diffusi qualche anno fa dal Bahrain Youth Society for
Human Rights. Un numero elevato se si tiene conto della popolazione
totale. Per questo non impressionano le notizie, peraltro rare, di
operazioni della polizia che portano alla «liberazione» di donne tenute
in stato di schiavitù e costrette a prostituirsi.
Il Dipartimento di Stato americano nei suoi rapporti annuali indica
il Bahrain come uno dei paesi dove si aggrava il fenomeno del traffico
di donne destinate alla prostituzione forzata. E gli Usa chiedono alle
autorità locali di agire con fermezza per interromperlo. Eppure ad alimentarlo sono proprio i militari statunitensi che entrano nel paese.
Se di giorno Jufair – area residenziale dove ha sede il comando della V Flotta americana e
della Combined Maritime Forces composta da unità navali di 29 paesi,
inclusa l’Italia, che ufficialmente combattono la pirateria nel Golfo,
nel Mar Rosso e nell’Oceano Indiano – è nota per i suoi caffè e i costosi ristoranti alla moda, di notte si trasforma in un quartiere a luci rosse.
Nelle discoteche e nei club affollati di marinai e ufficiali
americani lavorano centinaia di prostitute cinesi e russe. Tutti lo
sanno, nessuno lo denuncia o agisce. Le autorità bahranite chiudono un
occhio, anzi tutti e due, su quanto accade perché nulla deve turbare il
divertimento dei militari Usa.
L’amministrazione Trump si è
impegnata ancora più di quelle precedenti a «proteggere» il regno dalle
presunte interferenze dell’Iran e a dare copertura politica alla feroce
repressione in corso da anni contro l’opposizione che chiede riforme democratiche e l’uguaglianza tra cittadini sunniti e sciiti.
Ai soldati americani si aggiungono quelli britannici. Nel porto di
Salman, sull’isola piccola del Bahrain, qualche mese fa è stata
inaugurata una base navale britannica di supporto che può ospitare fino a
500 marinai e aviatori di Sua Maestà.
D’altronde fu proprio il colonialismo britannico a creare nel 1935 la
base di Jufair di cui gli Stati Uniti presero il controllo nel 1971, in
seguito all’indipendenza del Bahrain. Londra continua a dare appoggio
alla monarchia bahranita invitata a tutte le occasioni che contano dei
reali britannici. «Nel nostro paese – commenta con amarezza la nostra
conoscente – tante cose sono permesse e gli occidentali sono i
benvenuti. Le uniche cose davvero proibite in Bahrain sono la libertà e
la democrazia».
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