C’è qualcosina di vero e molto di falso, in questa autodifesa. Come spiega dettagliatamente l’editorialista di Milano Finanza, Guido Salerno Aletta, in realtà la Francia è stata quasi dentro i termini dei trattati di Maastricht, anche se sfruttando “buchi” lasciati appositamente disponibili al momento della stesura e approvazione dei singoli trattati. I quali erano stati naturalmente approvati dai governi italiani degli ultimi 30 anni, in cui sicuramente la Lega è stata presente a lungo insieme a Berlusconi e anche al Pd (ad esempio quando cadde il Berlusconi 1, poi sostituito da Lamberto Dini).
Emerge, dall’analisi dei fatti, che “l’europeismo fideistico” che animò tutti i governi e il Parlamento intero – almeno fino a quando l’Unione Europea reale non decise di intervenire direttamente, insediando Mario Monti a Palazzo Chigi ed Elsa Fornero a massacrare i pensionati – fu talmente cieco da “perdonare, prima, gli sforamenti di Francia e Germania, e di sottoscrivere, poi, le regole truccate che hanno salvato loro e punito questo paese.
Quando diciamo che la Lega non è affatto “euroscettica” o “no euro”, ma semplicemente l’espressione della piccola e media borghesia più reazionaria e in crisi, ci sembra di cogliere un dato importante.
Buona lettura.
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Già, la Francia! Curiosamente, in questi giorni si è riaperto il dibattito tra “noi e loro” anche perché, quando si tratta di finanze pubbliche in disordine, Parigi riceverebbe da Bruxelles un trattamento migliore di Roma: mentre noi siamo sempre accusati di essere cicale, loro non verrebbero mai messi all’indice. E così, si stilano le classifiche per stabilire chi stia messo meglio dal punto di vista economico e finanziario, cercando soprattutto di stabilire se il maggior deficit di bilancio che la Francia ha avuto in questi anni, le abbia giovato o meno.
Basta rileggere i giornali e studiarsi le carte per capire che le differenze ci sono state. Non contano solo gli equilibri politici, ma soprattutto le furbizie procedurali derivanti dalla intersezione temporale fra le regole del Trattato di Maastricht – che stabiliscono solo il tetto massimo del 3% al deficit – e quelle del Fiscal Compact, che invece richiedono un più rigoroso processo di aggiustamento verso il pareggio strutturale. La Francia ha sfruttato magistralmente entrambi, in suo favore.
E’ davvero fuori strada chi sostiene che siano state le istituzioni europee ad avere usato due pesi e due misure, anzi. Fu l’Ecofin, con l’Italia al suo turno di Presidenza dell’Unione, ad approvare il 25 novembre del 2003 un documento che sospendeva la procedura per deficit eccessivo nei confronti di Francia e Germania, opponendosi alle raccomandazioni formulate dalla Commissione che riteneva insufficienti gli sforzi promessi dai due Paesi per tenere sotto controllo i conti pubblici e applicare correttivi per mantenersi all’interno del patto di stabilità e di crescita.
La Commissione si disse profondamente rammaricata per il fatto che il Consiglio non avesse seguito lo spirito e le regole del Trattato e del Patto di stabilità e di crescita che erano state approvate all’unanimità dal tutti gli Stati membri: “solo un sistema basato sulle regole può garantire che gli impegni siano messi in pratica e che tutti gli Stati membri siano trattati in modo uguale”.
Alle parole seguirono i fatti: il ricorso della Commissione contro quella delibera fu accolto dalla Corte di Giustizia Europea, che nel settembre del 2004 la annullò per via del contrasto con le raccomandazioni adottate in materia dal Consiglio medesimo, ai sensi dell’art. 104 del Trattato.
La questione dello sforamento da parte della Francia dei parametri di bilancio si ripresentò nel 2009: dal 27 aprile di quell’anno, ed ininterrottamente per oltre nove anni fino al 22 giugno scorso, la Francia è stata sottoposta alla procedura di infrazione per deficit eccessivo. Doveva però rientrare solo entro il tetto del 3% nel rapporto deficit pil, ma non era invece tenuta agli aggiustamenti previsti dal Fiscal Compact: solo una volta usciti dalla procedura di infrazione per disavanzo eccessivo, si è soggetti alle regole del Patto di Stabilità e Crescita.
L’articolo 5 del Trattato fu scritto appositamente per creare questo cono d’ombra: “La parte contraente che sia soggetta a procedura per i disavanzi eccessivi ai sensi dei trattati su cui si fonda la Unione europea predispone un programma di partenariato economico e di bilancio che comprenda una descrizione dettagliata delle riforme strutturali da definire e attuare per una correzione duratura ed effettiva del suo disavanzo eccessivo...”.
La procedura di infrazione è stata per la Francia un comodo, ma legalissimo, alibi per non soggiacere alle regole del Fiscal Compact: se ne sono applicate solo le procedure di esame dei documenti.
Basta leggere il documento dello scorso 23 maggio con cui la Commissione ha effettuato la verifica del Programma di Stabilità della Francia: “Al Paese è stato raccomandato di correggere il disavanzo eccessivo entro il 2017. L’anno successivo alla correzione, la Francia sarà soggetta al braccio preventivo dell’SGP [scil. Fiscal Compact] e dovrebbe assicurare un progresso sufficiente verso il suo MTO [scil. Obiettivo a medio termine], nel presupposto che sia stata conseguita una tempestiva e durevole correzione del deficit eccessivo”. Una vera genialata.
Per l’Italia, essere uscita con malcelato orgoglio dalla procedura per deficit eccessivo sin dal giugno 2013, dopo esservi entrata nel 2009 a causa delle conseguenze della crisi americana, ha significato infilarsi subito nel tritacarne del Fiscal Compact. Pestata prima dai mercati, e poi dalle manovre dei governi sulla base delle nuove regole.
C’è da fare, naturalmente, anche i conti con la realtà dei mercati: è stato il ricatto sui titoli di Stato che ha costretto l’Italia ad assumere misure draconiane sin dalla primavera del 2008 e poi senza soste successivamente, che ne hanno abbattuto il pil e l’occupazione, scassando le banche. L’impennata del debito non si è fermata, tutt’altro.
La Francia, diversamente dall’Italia, gode sin dal 1992 dell’ombrello protettivo tedesco, una gratitudine mai venuta meno per via dell’assenso dato alla Riunificazione: allora, la Bundesbank protesse il franco francese dagli attacchi speculativi che svenavano di riserve la Banca d’Italia, che si ostinava a tenere fermo il cambio della lira. A dicembre scorso, le detenzioni di portafoglio della Germania verso la Francia erano di 427 miliardi di euro. Ammontavano a 74 miliardi nel 2001, ed a 212 miliardi nel 2008: crescono in modo esponenziale. All’Italia è stato riservato un trattamento tedesco ben diverso: gli 81 miliardi del 2001 sono diventati 274 nel 2014, crollati a 171 alla fine del 2017.
Nonostante i deficit più elevati rispetto all’Italia, i dati relativi all’indebitamento della Francia non sembrano affatto più sfavorevoli: sono stati riassorbiti attraverso la maggiore crescita economica. Fra il 2008 ed il 2017, Parigi ha infatti accumulato deficit per 937 miliardi di euro, pari al 45,2% del pil degli anni di riferimento, mentre l’Italia ha accumulato deficit per 520 miliardi, corrispondenti al 31,9%. Parigi ha accumulato 13,3 punti di deficit in più, in media l’1,3% l’anno. Ha condotto quindi una politica economica diametralmente opposta a quella dell’Italia, con un indebitamento complessivo del tutto analogo soprattutto per via del vantaggio derivante dal minor onere per interessi che ha dovuto sostenere.
La Francia ha conseguentemente aumentato il debito di 848 miliardi di euro, mentre il rapporto debito/pil è cresciuto di 28,3% punti percentuali. L’Italia ha registrato un aumento del debito di 585 miliardi, con il rapporto debito/pil innalzatosi di 29 punti percentuali. L’Italia ha fatto meno deficit della Francia, e per questo ha avuto una crescita del pil anche nominale assai più bassa. Ma soprattutto ha pagato interessi sul debito enormemente più elevati.
Sotto quest’ultimo profilo, la differenza tra Francia ed Italia è stata abissale. Fra il 2008 ed il 2017, la Francia ha pagato interessi per 489 miliardi di euro, mentre l’Italia ha sborsato 731 miliardi. In rapporto al pil, l’onere medio per l’Italia nei dieci anni è stato del 4,5% mentre è stato del 2,3% per la Francia.
La differenza nello sforzo fiscale è palesato anche dal dato relativo al saldo primario: l’Italia ha registrato un attivo complessivo del 12,9%, assai vicino al 14,5% della Germania, mentre la Francia ha avuto un saldo negativo cumulato pari al 21,8% del pil.
La differenza sostanziale tra Italia e Francia sta nella crescita economica: da noi è stata abbattuta dalla austerità, mentre in Francia è sostenuta dal deficit di bilancio. Tra il 2008 ed il 2017, il pil reale francese è aumentato del 7,1% mentre quello italiano è caduto del 5,4%. Il pil reale francese del 2017 è stato di 142 miliardi di euro superiore a quello del 2008, mentre quello dell’Italia nel 2017 è stato ancora di 74,5 miliardi inferiore a quello del 2008.
C’è di vero che il saldo delle partite correnti francesi è strutturalmente passivo, mentre quello italiano ha virato in attivo a partire dal 2013. Nel 2017, quello di Parigi è stato negativo per l’1,4% del pil, mentre per Roma è stato del positivo per il 2,9%. Il crollo della domanda interna italiana, conseguito alle misure fiscali draconiane del 2012, ha fatto cambiare di segno al saldo estero, abbattendo sostanzialmente le importazioni.
Una ulteriore differenza cruciale è rappresentata dal fatto che in Italia non c’è stato alcun bilanciamento sul piano fiscale del saldo estero corrente, strutturalmente positivo: sommandosi alla continua riduzione del deficit pubblico, ha contribuito a rallentare la crescita.
Ci sono state quindi tre ragioni che hanno consentito alla Francia di continuare a crescere in questi anni: la disapplicazione del Fiscal Compact, avendo come unico vincolo legale quello concordato con la Commissione ai sensi del Trattato di Maastricht, di rientrare entro il 2017 nel limite del 3% per il deficit pubblico; il saldo primario negativo, che ha immesso liquidità aggiuntiva nella economia reale derivante dall’indebitamento; un costo del debito praticamente dimezzato rispetto a quello pagato dall’Italia.
Per il 2019, Parigi prevede un rapporto deficit/pil al 2,8%. Scenderà poi, ma molto gradualmente: 2,6% nel 2020; 2,4% nel 2021; 2,3% nel 2022. Sotto la minaccia dello spread che vola alle stelle, in Italia abbiamo fatto sacrifici del tutto inutili. A Parigi, di dare legnate alla loro economia, continuano a non pensarci affatto.
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