Latrano, ancora, gli sciacalli del Venezuela. Latrano a Caracas, nei
quartieri residenziali, nelle stanterie delle lobby filoamericane, nelle
ambasciate che producono intrighi e golpe, nelle redazioni dei
numerosissimi network televisivi privati – tutti legati alle oligarchie e
“resilienti” alla Rivoluzione – nelle armi e nelle maschere antigas dei
giovani (appartenenti alle classi privilegiati, pagati da queste ultime
oppure semplicemente confusi) che ancora cercano di replicare una
Piazza Maidan a queste latitudini, gli
stessi che Valerio Evangelisti quasi nobilita quando li definisce, in un
bell’articolo di un anno fa (ri-postato da questo blog) “termidoriani”,
mentre sono semplicemente i protagonisti di un movimento
contro-rivoluzionario che conferma come in Latino America la lotta di
classe non soffra di infingimenti né di compromessi: il popolo
venezuelano era con Chávez, adesso è con Maduro, è comunque con il Psuv
perché si riconosce in una coalizione che ha assicurato diritti,
cittadinanza politica e dignità. L’oligarchia, la classe
imprenditoriale, i lacchè delle multinazionali, quindi gli affamatori
dei poveri e dei subalterni, sono per il cambio di regime: a chi
attribuisce, con sufficienza, la loro attuale pervicace insistenza al
minor carisma che Maduro avrebbe, rispetto a Chávez, ci basta ricordare
come i suddetti escuálidos arrivarono a organizzare un violento colpo di Stato, nel 2002, in pieno periodo chavista. Già all’epoca le anime belle
della sinistra riformista e i soliti giornalisti prezzolati si
affrettarono a leggere gli eventi esattamente al contrario, attribuendo
al Presidente in carica la responsabilità della sommossa. Solo una
inoppugnabile contro-informazione reindirizzò il corso della verità, ma
non risolse definitivamente la malevola sorte a cui la sinistra
occidentale sembra destinare il bolivarismo venezuelano e tutte quelle
correnti politiche che non rispecchiano totalmente i suoi parametri e,
soprattutto, che hanno l’ardire di vincere.
Ammettiamo che sia difficile, in fondo, parlare del Venezuela, prima
di Chávez, poi di Maduro: è fuori, di fatto, dagli itinerari degli zapaturisti,
è un Paese complesso, che non ha mai fatto mistero delle sue
contraddizioni, ma ha cercato di usarle – negli ultimi venti anni – come
piedistallo per una rivoluzione che cambiasse le sorti di milioni di
diseredati che nessuna elezione liberal-democratica avrebbe mai
riscattato. Anche perché non avevano accesso alle urne, tra l’altro.
Neanche per il militante di sinistra è automatico andare in Venezuela:
non lo era quando il bolivarismo era in espansione, contagiava l’intero
sub-continente e pareva fornire un modello di socialismo esportabile a
ogni latitudine, lo è ancora meno adesso, quando i media mainstream
dipingono un Paese stremato economicamente, socialmente e soprattutto
politicamente. Per dire, persino un Renzi qualsiasi – quindi un vero
“impresentabile” della politica attuale – commenta l’inutile
manifestazione del PD del 30 settembre come necessaria a evitare la
“deriva venezuelana” del Paese. Eppure Renzi di derive dovrebbe essere
esperto, avendo portato il PD sull’orlo della sparizione, come il dodo
(e di questo lo ringraziamo). In mezzo a tanta melma, a volte esplicita,
altre volte mascherata nell’ambiguità delle formule “Chávez sì, però...”
un intervento diretto e continuato in Venezuela è prezioso, tanto per le
sorti bolivariane, quanto per quelle della sinistra di classe italiana
che vive un momento – è sempre bene ricordarlo – rispetto al quale il
Presidente Maduro potrebbe dormire tra quattro guanciali.
Eppure c’è chi ci riesce a intervenire politicamente, chi lo fa: solo
la combinazione tra la disciplina rivoluzionaria e la curiosità
scientifica possono produrre un lavoro come Dopo Chávez. Come nascono le bandiere,
con cui Geraldina Colotti aggiunge un altro tassello ai suoi lavori
sulla Rivoluzione bolivariana. Un “processo”, si dice a proposito di
quest’ultima, utilizzando un termine che, negli ultimi anni, viene
associato invariabilmente a una pluralità di progetti politici,
ovviamente assai più vacui di quello chavista: in Italia si preferisce
usare, spesso in maniera inopportuna, termini che evocano liquidità,
precarietà, mutamento, essenzialmente perché si teme la solidità del
potere, la determinazione del dominio di classe, l’essenzialità della
produzione. In Venezuela, invece, il termine “processo” è corretto
perché “contiene il senso di un cammino orientato verso una direzione
precisa” (p.10) e ben si adegua a un rivolgimento sociale che non ha
potuto travolgere completamente le facoltà e le indennità dei nemici di
classe, scegliendo di smussare “gli angoli più acuti e gli spigoli più
taglienti”. Non sta a noi dire se tale scelta sia la causa delle attuali
difficoltà oppure la chiave per la riuscita di una ferita, che dopo
venti anni continua comunque a durare, inferta a una delle periferie
produttive del polo imperialista statunitense (e non solo). In Venezuela
il termine “processo” è tecnicamente esatto perché corrisponde
all’eterogeneità della sinistra venezuelana – al netto della parte che
ha tradito – e alla sua capacità di unire teorie e pratiche diverse
trovando un punto di equilibrio nella figura e nella biografia dello
stesso Chávez, che prese il potere dopo le elezioni del 1998, ma solo
perché – come ricorda l’Autrice – poteva vantare il credito sociale e
politico dell’insurrezione armata di sei anni prima. Come nel caso di
Fidel. Per questo motivo l’utilizzo del termine “processo”, in
Venezuela, è razionale e opportuno, contrariamente agli abusi lessicali
della sinistra occidentale, in cerca di scorciatoie e di disimpegno.
“Quando perciò i venezuelani si sentono rimproverare dalle sinistre
europee l’uso moderatissimo della forza nel contenimento delle violenze
di strada organizzate sfacciatamente dalla borghesia, quando si vedono
ingiungere le dimissioni anticipate di Maduro per soddisfare il
temporaneo cambiamento di proporzioni rappresentative intervenuto nelle
elezioni parlamentari del 2015, non riescono a reprimere un moto di
autentica e persino ingenua costernazione. Questo ci consigliano gli
eredi di Gramsci e di Rosa Luxemburg? Questo è il modo di aiutare un
esperimento di trasformazione sociale che cerca di mettere a tema la
democrazia integrale e la partecipazione politica delle masse? Come si
fa a storcere il naso davanti al progetto della nuova Assemblea
Nazionale Costituente? Come sono possibili gli altri mondi possibili con
cui un po’ tutti si sono bagnati la bocca dopo la sconfitta delle
rivoluzioni del XX secolo?” (p.217).
Il termine “processo”, inoltre, si addice anche al libro di Geraldina
Colotti, che narra la resistenza di una rivoluzione attraverso un
diario quotidiano scritto da una testimone diretta degli eventi, anzi da
una rivoluzionaria che agisce un’altra rivoluzione. Come un John Reed,
spostato però ai tempi della guerra civile e del “comunismo di guerra”,
quando scrivere, scavare e procedere dal particolare al generale è
ancora più difficile. È un “processo”, infine, la storicità della stessa
Geraldina nelle rivoluzioni del XX e del XXI secolo, quelle tentate,
quelle fallite, quelle riuscite, quelle difese. Lo aveva scritto la
stessa Autrice, per altre pagine: “La lotta di classe non si processa/
non si friggono polpette nel greto del fiume/ dice il matto che parla
agli stormi/ e beve l’acqua da una finta sorgente/ state attenti,
compagni,/ grida il matto che parla agli stormi/ triangolo scaleno!
Ipotenusa!/ non portate alle ascisse le ordinate”.
Fonte
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