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02/12/2018

I rapporti Mosca-Washington sullo sfondo ucraino

Com’era prevedibile, un “contatto”, ancorché “breve e informale” (così lo hanno definito entrambi i portavoce presidenziali, Dmitrij Peskov e Sarah Sanders) tra Vladimir Putin e Donald Trump, a Buenos Aires c’è stato. Non la vera e propria riunione a due inizialmente prevista; ma Trump ha detto di esser disposto a incontrare Putin “al momento opportuno”. “Ci dispiace per la decisione dell’amministrazione statunitense” aveva dichiarato Peskov giovedì scorso, all’improvviso annuncio di Trump di annullare il previsto summit; vorrà dire che Putin “potrà disporre di un paio d’ore in più per altri incontri”.

Insomma, almeno su questo punto, un effetto la provocazione nazigolpista di Kerč sembra averla avuta, nonostante nessuno, da cinque anni a questa parte, abbia mai nutrito o nutra alcun dubbio sull’identità dei manovratori d’oltreoceano di qualunque mossa ucraina. Una mossa che, come nota l’osservatore Valentin Vasilescu su Voltairenet, nei piani originali avrebbe dovuto comportare un dantesco “grande scempio che fece l’Azov colorato in rosso” di sangue ucraino.

Dunque, al momento, ci sono due aspetti principali degli avvenimenti del 25 novembre: interni e esterni.

Al momento, con la legge marziale in vigore, più che per un possibile scontro diretto con la Russia, sembra che gli ucraini siano terrorizzati per il possibile sequestro di beni, motivato con “le necessità militari”. Nonostante il vice capo di Stato maggiore Rodion Tiščenko abbia dichiarato che la legge marziale “non prevede la requisizione di proprietà private” e che se “qualcuno in mimetica si presenterà a casa vostra per requisire l’auto o la mucca, dovrete chiamare la polizia”, di fatto la legge marziale, tra gli altri punti, prevede proprio anche la possibilità di requisizione di beni privati “per necessità militari”. In alcune provincie delle 10 regioni interessate alla legge marziale, è stata già notata un’insolita frenesia a disfarsi dei fuoristrada, per timore che vengano requisiti. Alberghi, edifici turistici, colonie infantili lungo i 40 km della striscia di Arabat (la lingua di terra ucraina, separata dalla Crimea dal lago salato Sevaš) rischiano il sequestro “per le necessità militari”.

Meno “venalmente”, nella regione di Černigov sono in corso azioni di protesta contro la legge marziale che, secondo i manifestanti, è stata introdotta perché il regime teme un’insurrezione. Questa “farsa della legge marziale” affermano, “è nata per il fatto che la gente non è disposta a sopportare ulteriormente questo genocidio. Essi non hanno avuto paura per la collisione in mare, hanno paura della rivolta contro il prezzo del gas, le tariffe dei servizi pubblici, la politica fiscale. Ci sono proteste anche in altre regioni del paese”.

Nella Volinia – la regione tragicamente nota per le stragi della minoranza polacca compiute negli anni ’40 dai filonazisti di OUN-UPA – i familiari stanno bloccando gli autobus che dovrebbero condurre a Kiev le reclute, ricercate per renitenza. Il governo è stato costretto a prorogare al 31 dicembre la chiamata alle armi autunnale, che rimane comunque in forse: per ammissione degli stessi distretti militari, in tutte le regioni i giovani fanno di tutto per nascondersi o fuggire. Per completare i reclutamenti, è pratica corrente che la polizia catturi i giovani tra i 18 e i 27 anni per strada, nelle discoteche o sul posto di lavoro. Anche a Černigov, sembra che su 4.000 richiamati se ne siano presentati “volontariamente” solo 19.

Con la legge marziale, la Guardia nazionale, nelle cui file sono stati “legalizzati” molti ex appartenenti ai battaglioni neonazisti e che è alle dipendenze del Ministro degli interni, passa ora parzialmente agli ordini del Presidente. Nelle 10 regioni interessate al provvedimento (per ora, fino al 26 dicembre) sono già stati annullati 45 primi turni, 7 secondi turni e 19 elezioni locali di medio termine, fissati per il 23 dicembre. Da venerdì, è proibito l’ingresso in Ucraina a tutti i maschi russi tra 16 e 60 anni. In risposta, ieri Russia e Repubbliche popolari del Donbass si sono dette pronte ad accogliere tutti gli ucraini che fuggano dalla legge marziale.

Sul piano internazionale, in Russia i riflettori sono puntati soprattutto sulle dichiarazioni di Kiev per l’eventuale apertura di una base militare USA, nelle vicinanze della frontiera con la Crimea.

Le Izvestija citano un’anonima fonte diplomatica ucraina: “la Polonia sta conducendo consultazioni per l’apertura di una base americana a causa della minaccia di Mosca. L’estensione delle nostre frontiere con la Russia è di molto superiore, riteniamo perciò che anche da noi debba comparire una base militare USA”. Il deputato del “Blocco Porošenko”, Ivan Vinnik ha confermato che “la base è necessaria. A livello politico, è in corso il dialogo con gli americani”.

D’altra parte, il politologo dell’Istituto Hudson, Richard Weitz, sostiene che “ci sono ragioni militari e diplomatiche, per le quali gli Stati Uniti attualmente non considerano verosimile l’apertura di una base militare permanente in questo paese”. Militarmente, ha dichiarato, “qualsiasi base è estremamente vulnerabile a una potenziale risposta russa. E’ perciò più sicuro mantenere truppe e armamenti in un altro posto dove possano essere meglio protetti”. Il portavoce del Pentagono Eric Pahon ha dichiarato alla TASS che Washington non sta conducendo colloqui con Kiev per una base.

In risposta alla richiesta di Petro di inviare navi nel mar Nero, la portavoce della NATO, Oana Lungescu, ha detto che “la presenza NATO è già così abbastanza massiccia” in quel bacino e l’Alleanza “sta continuando a valutare la necessità della presenza per il futuro”. Lungescu ha ricordato che nel 2017 i vascelli NATO hanno incrociato nel mar Nero per oltre 80 giorni e 120 nel 2018, mentre l’aviazione atlantica sorvola regolarmente l’area. Ad ogni buon conto, giovedì scorso, Mosca ha schierato il suo quarto battaglione di batterie S-400 in Crimea.

Anna Sedova, su Svobodnaja Pressa, ricorda come Porošenko si sia vantato che il Segretario di stato USA, Mike Pompeo, avrebbe promesso di fornire a Kiev “pieno sostegno, anche militare”, per “difendere l’Ucraina dall’aggressione russa”. Forse questo include una base militare yankee, si chiede Sedova? A parere però del giurista Aleksandr Domrin, gli USA hanno bisogno di una zona cuscinetto tra loro e la Russia e quindi non sono interessati a una base alle immediate frontiere russe. Di contro, il politologo Aleksandr Šatilov ricorda quanto valessero le “promesse fatte a Gorbaciov sul non allargamento a est della NATO”. D’altronde “dispongono già di laboratori chimici in Ucraina, Georgia, Armenia: possono benissimo aprire una base militare; tanto più che l’attuale “geopolitica passiva” di Mosca potrebbe spingere Washington a passi ancora più decisi”.

Tra i quali ci sono un accentuato ammassamento di mezzi e uomini NATO alle frontiere russe e, nello specifico del Donbass, è stata individuata nei giorni scorsi a Kramatorsk, nella parte della DNR occupata da Kiev, una delegazione di militari USA a ispezionare le forze ucraine, mentre, poco più a sud, alla stazione di Kostjantinovka, una ventina di km a ovest della linea del fronte, sono giunti ieri tre convogli ferroviari carichi di corazzati ucraini. Le milizie parlano infatti da giorni con sempre maggior preoccupazione della preparazione di una grossa offensiva ucraina contro il Donbass, citando il concentramento di mezzi corazzati e batterie missilistiche a ridosso del fronte: “Kiev ha tutta l’intenzione di sfondare le nostre linee e portare le proprie forze a diretto contatto con le frontiere russe”, ha detto ieri il portavoce delle milizie della DNR, Eduard Basurin.

A Donetsk temono una provocazione con l’impiego di armi chimiche: “le previsioni meteo” ha detto Basurin, “annunciano vento occidentale; così che Kiev potrebbe impiegare proiettili al cloro verso il proprio settore, incolpandone le milizie: proprio come fatto in Siria”. Dopo il mezzo fallimento della provocazione a Kerč, nota colonelcassad.com, se ne attende un’altra nel Donbass.

Nel merito dell’incidente del 25 novembre, Ruslan Khubiev ricorda come già lo scorso settembre navi ucraine fossero transitate sotto il ponte di Kerč, rispettando le procedure di preavviso e la salita a bordo del pilota russo. Il 25 novembre, invece, i battelli di Kiev hanno tentato di attraversare il corridoio che Kiev non riconosce quale bacino territoriale russo.

Kiev ha detto di basarsi sull’articolo 37 (“diritto di passaggio in transito”) della Convenzione ONU del 1982 sul diritto del mare. Il fatto è che, nota Khubiev, tale diritto si applica solo agli stretti in mare aperto. Ma lo status giuridico del mar d’Azov e dello Stretto di Kerč è determinato dall’Accordo di “cooperazione e sfruttamento condiviso” tra Ucraina e Russia, che lo rende un mare interno, cui non si applica l’art. 37.

Per quanto riguarda il mar Nero, dove si è verificato lo sconfinamento, il suo status è in effetti regolato dal diritto internazionale del mare; ma lì, le navi ucraine hanno attraversato le acque russe, violando gli articoli 19 e 21 della suddetta Convenzione, che stabiliscono il diritto dello stato costiero a garantire la sicurezza nel proprio spazio marittimo, ora temporaneamente chiuso. Hanno così violato il confine tracciato dopo il 2014, violando poi anche il confine marittimo del 1991, che era zona interna russa ancor prima dell’unione della Crimea.

In base all’art.21 e sulla scorta dei continui proclami golpisti di voler distruggere il ponte sullo stretto, Mosca aveva pieno diritto di adottare misure volte a scongiurare tale minaccia. Da notare, in aggiunta a quanto sostiene Khubiev, che l‘Accordo russo-ucraino per i mari Nero e d’Azov era direttamente collegato al Trattato di amicizia firmato dai due paesi nel 1997, da cui però l’Ucraina si è ritirata lo scorso settembre; dopo di che, in ottobre, Porošenko ha firmato una serie di decreti che stabiliscono i nuovi confini ucraini nei mari Nero e d’Azov.

Dopo l’incidente, Mosca ha chiesto la convocazione del Consiglio di sicurezza ONU, credendo, come scrive l’ex vice Ministro delle finanze USA, Paul Craig Roberts, che “in occidente regni la sovranità della legge: in questo modo la Russia si sta scavando la fossa. Dato che Washington controlla l’interpretazione del diritto internazionale, la salvaguardia dell’egemonia di Washington continua a rappresentare una sfida all’esistenza della Russia”. Al canale ucraino in lingua russa Ukraina.ru, il politologo Sergej Mikeev constata amaramente come a spingere Kiev nelle braccia dell’occidente sia stata la Russia: “noi per primi” ha detto, “siamo andati verso occidente. Dalla fine dell’URSS la Russia non ha condotto alcuna politica estera sovrana: l’unica direzione è quella verso occidente e là abbiamo spinto Ucraina, Bielorussia e le altre regioni. Nessun discorso sovrano sullo spazio postsovietico, ma solo la smania di essere accolti in occidente”. Non dissimile il commento dell’ex deputato alla Rada ucraina Oleg Tsarev, che ha detto che l’errore di Mosca è stato quello, a suo tempo, di non intervenire in appoggio a Janukovic, di riconoscere quindi l’attuale governo ucraino e di non aver permesso alle milizie del Donbass di arrivare fino a Kharkov e Mariupol: “il risultato è la situazione odierna”, ha detto.

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