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16/01/2019

Il consumo di suolo distrugge i territori. L’impietosa analisi dell’Ispra


“E’ il clima che cambia.. non ci sono più le mezze stagioni”. Dai detti popolari siamo arrivati ad un punto in cui questa frase non è più un modo di dire simbolico, ma un dato di fatto. La comunità scientifica internazionale lo dice da anni, ma si sa, la scienza non è neutra, e molto spesso di fronte alle esigenze del mercato (e della politica), preferisce rimanere sul piano dell’enunciazione del pericolo. Conseguenza ne è che tutti gli accordi internazionali ad oggi siglati, da Kyoto in poi, sono a carattere volontario, e ogni Stato nel nome della sua sovranità nazionale può decidere se e come intraprendere misure che siano compatibili con i grandi problemi che il nostro Pianeta ci mette di fronte. Così accade, ad esempio, che al di là delle enunciazioni dell’UE sulla necessità di ridurre a zero il tasso di consumo di suolo, in Italia ancora una legislazione coerente non sia stata formulata, e ogni regione può formulare leggi più o meno peggiorative a tal proposito, e predisporre deroghe per acconsentire a nuove speculazioni sui territori.

Solo nel 2017, in Italia, a dispetto del consumo di suolo zero, sono andati distrutti 15 ettari di suolo ogni giorno, che per avere un idea, corrisponderebbero più o meno 2,5 Vaticani (città del Vaticano) ogni settimana!

E’ quanto emerge dal rapporto ISPRA 2018 sul consumo di suolo, che a volerlo leggere bene, presenta un quadro sempre più preoccupante rispetto alla situazione nel nostro Paese.

Premessa l’importanza di conservare il suolo, non solo perché su di esso si basa sia la produzione alimentare, sia l’esistenza di molte forme vegetali che “banalmente” ci servono per produrre ossigeno e carbonio (di cui tutta la materia vivente è fatta), serve dire, altrettanto “banalmente”, che impermeabilizzando il suolo si riduce la capacità di un territorio di assorbire l’acqua e quindi di resistere alle sempre più frequenti alluvioni, ma anche che ciò che prende il posto del suolo, negli ultimi decenni, diventa per la maggiore spazio privato che serve al profitto di qualcuno e allo sfruttamento di altri.

I vari scenari al 2050 presentati nel rapporto, parlano infatti di un consumo netto di suolo che va dagli 818 km2/anno nel caso si adottasse una strategia di riduzione progressiva di consumo di suolo, fino agli 8073 km2/anno nel caso in cui la ripresa economica portasse di nuovo la velocità del consumo di suolo a valori medi o massimi registrati negli ultimi decenni. Regioni come Veneto, Lombardia, Emilia Romagna e Piemonte, dove il PIL cresce di più, si registra per il 2017 un aumento da 0.2 a 0.5% del consumo di suolo. Tradotto in termini assoluti significa la perdita, in un anno, di 1134 ettari in Veneto, 603 in Lombardia, 456 in Emilia Romagna e 416 in Piemonte (in totale fanno un po’ più di 58 Vaticani).

Non sono risparmiate nemmeno le zone naturali protette, come i Monti Sibillini (+1.3) e il Parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga (+0.5), mentre nelle zone costiere nonostante un quarto del territorio sia già stato cementificato, il consumo di suolo registra un +1.1% in Friuli Venezia Giulia.

Queste tendenze, secondo ISPRA, sono supportate soprattutto da abbandono delle attività agricole, ma anche da processi di urbanizzazione diffusa (ex. Roma, con percentuali doppie rispetto alla media europea), trasformazione di aree industriali (ex. Milano, Foggia, Cremona, Bari) e costruzione di nuove reti di trasporto (ex. Venezia, Padova). È questo in buona sostanza, il significato del “consumo di suolo”: cementificazione al servizio dei palazzinari e dei costruttori in città metropoli che sono sempre più esclusive dal momento che si costruisce quasi esclusivamente per il mercato privato e non, ad esempio, per l'edilizia residenziale pubblica; oppure cementificazione al servizio di strade e autostrade per il trasporto di merci e la conseguente trasformazione del territorio (come ad esempio quello della pianura padana) in un grande snodo della logistica.

Altro rischio, emergente anche dal rapporto ISPRA, è quello di cercare di contrastare questo processo attraverso la monetarizzazione delle risorse naturali. Un tentativo, legato a quel filone della ricerca che indaga sui cosiddetti “servizi ecosistemici”, e quantificando in termini economici il valore d'uso di ogni risorsa. Quantificando ad esempio, quanti soldi vale l’ossigeno emesso da un bosco, l’anidride carbonica stoccata (e quindi non emessa) da un suolo, il valore turistico e ricreativo di un oasi naturale, il valore economico di una sorgente d’acqua pulita e quello di una sorgente inquinata, ecc. Un modo sicuramente efficiente di comunicazione, in un mondo in cui tutto può generare denaro e plusvalore. Ma in questo caso le cose stanno in modo un po diverso, in quanto il rapporto rischio/opportunità è molto alto.

Conclude l’ISPRA “la lezione rivoluzionaria del concetto di servizio ecosistemico, a volerla cogliere attentamente, sta nel mostrarci quanto potente è ogni singola risorsa in natura e quanto è vitale per l’uomo e l’ambiente. Ogni risorsa fa cose impensabili ai più e sempre senza chiedere nulla in cambio all’uomo. Davanti a tale vastità e al fatto che tutto è legato con tutto, all’uomo è chiesto di rivedere il suo approccio alla natura. Ma questa è la teoria, e, come ogni buona teoria, si affida alla buona volontà del destinatario” conclude l’ISPRA (non noi!). “Anche in questo caso non possiamo nascondere che il concetto è tanto rivoluzionario quanto a rischio di essere travisato da banali interpretazioni e astute minimizzazioni.”

“Il suolo sono io”, di Riccardo Mei, un monologo su cui riflettere:



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