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21/01/2019

La battaglia per l’amnistia, nella buia Italia del XXI Secolo

Il problema delle iniziative che intendiamo mettere in campo sull’amnistia è capire con che cosa abbiamo a che fare oggi sul piano del modello repressivo e come affrontarlo.

Innanzitutto, a differenza degli anni ’70 – e se volete anche del ventennio fascista – non è più un modello repressivo/redistributivo, oggi insomma c’è poca o niente carota da distribuire e tanto bastone. Le classi dominanti non vogliono redistribuire niente, al contrario concepiscono l’impoverimento e le disuguaglianze come una necessità per l’accumulazione delle risorse nei settori economici più integrati nel mercato, per sopravvivere dentro la crisi e la competizione globale. Siamo in presenza di un processo di concentrazione e centralizzazione brutale delle ricchezze, ispirato apertamente dalle classi dominanti che hanno dato vita all’Unione Europea come strumento nella competizione globale in corso.

Queste classi dominanti non hanno più la preoccupazione di contrastare un movimento operaio e sociale emergente che rivendica spazio politico e potere, al contrario è un modello repressivo che si abbatte contro chi si oppone ma in una fase di fortissimo arretramento dei conflitti sociali e sindacali.

Alcuni economisti registravano pochi anni fa come il livello di disuguaglianza della ricchezza nel nostro paese, sia tornata ai livelli del 1881.

In tal senso il modello Minniti prima ed oggi quello di Salvini, somigliano in molti aspetti più al modello autoritario sabaudo (quello della monarchia dei Savoia che impose la spoliazione del resto del paese per favorire l’accumulazione capitalistica nel Nord) piuttosto che al ventennio fascista. Diciamo che in esso c’è più il codice penale di Zanardelli (1889-1930) che il Codice penale fascista di Rocco. E la monarchia oggi non è quella sabauda ma quella europea, una sorta di “sovrano” invisibile che agisce con una governance multilivello (europea, nazionale, locale) e con un potere coercitivo che non ammette scostamenti, né in Grecia nel 2015, né in Italia nel 2018.

Di fatto agiamo sul piano politico, sindacale, sociale avendo ormai di fronte uno Stato “de-costituzionalizzato” non solo sulle materie strategiche in campo economico e sociale ma anche nel campo delle garanzie democratiche, delle libertà politiche, dello “spirito del tempo” e dell’ipoteca che questo clima esercita nelle decisioni dei tribunali, della magistratura e degli organi di polizia.

Ci troviamo a fare i conti con un sempre più palese modello politico autoritario di società, in cui i diritti di proprietà e quelli di impresa prevalgono brutalmente sui diritti costituzionali all’abitare, al lavoro, alla salute, alla dignità, colpendo preventivamente e repressivamente chi ritiene che l’ordine di tali priorità vada rovesciato e quindi oppone resistenza.

Gli articoli del Decreto Sicurezza che introducono pesanti pene per i blocchi stradali e l’occupazione di edifici sono perfettamente coerenti con questa logica, mentre il carattere razzista degli articoli del Decreto hanno a che fare con quella che possiamo definire come l’eliminazione della forza lavoro in eccesso rispetto alle esigenze della competizione, un inizio di distruzione di capacità produttive – in questo caso gli immigrati poi toccherà a quote di popolazione in esubero – non più funzionali ad un sistema produttivo che ha sempre meno bisogno di lavoratori e sempre più di lavoro servile e schiavistico.

L’Italia emersa in questi anni di restaurazione autoritaria sul piano sociale, giuridico, politico si va conformando poi come una vera e propria vendetta “di classe” contro ciò che rappresentano lavoratori e classi popolari, intellettuali progressisti e attivisti politico/sociali.

Sta in questo l’atteggiamento vendicativo dello Stato contro i protagonisti sopravvissuti alla guerra di bassa intensità scatenata alla fine degli anni Sessanta contro il movimento operaio e le forze della sinistra, sia riformista che rivoluzionaria. La gestione della vicenda Battisti ha reso evidente, per ora solo a piccole minoranze, questa filosofia della vendetta e dell’accanimento. Il mantenimento del 41 bis nelle carceri contro i pochi detenuti politici ancora in prigione ne è la dimostrazione concreta.

Su questo c’è da fare una difficilissima battaglia di memoria e giustizia storica che ricostruisca pienamente il contesto degli anni della guerra di bassa intensità, ne riconosca l’interezza e la legittimità politica dei soggetti coinvolti. Ci avevamo provato negli anni ’80, ma senza risultati, per responsabilità dell’avversario ma anche per le divisioni nel nostro campo. Una battaglia di verità storica in cui, ad esempio, non è possibile prescindere dal contesto internazionale in cui quella guerra si è combattuta. Con un mondo diviso e in conflitto con la guerra fredda, l’Europa euromediterranea in mano alle dittature militari e un settore della classe dominante che ha convertito la guerra fredda contro l’Urss in una guerra contro “il nemico interno” in Italia.

L’unico che ha avuto il coraggio di approssimarsi a questa visione è stato l’uomo di Stato che pure ha combattuto con maggiore ferocia e spregiudicatezza quella guerra: Cossiga. Il resto della classe politica – di destra o di sinistra – è stata muta o rabbiosa, pronta a prendere la parola solo per invocare vendetta e accanimento. Il partito della fermezza, di cui pure Cossiga faceva parte, ha continuato negli anni ad agire in nome della vendetta impedendo qualsiasi soluzione politica al conflitto. La nuova classe politica poi ha uno spessore storico e culturale infinitesimale, motivo per cui si è arruolata quasi automaticamente in questa campagna forcaiola.

Questa logica di guerra oggi viene evocata e applicata contro i poveri e ad essa sono state conformate le nuove leggi in materia di ordine pubblico, decoro urbano, immigrazione. Le scene che abbiamo visto questa estate ne sono la conferma più brutale. Da un lato la destra ha perso i freni inibitori e lascia in libertà gli spiriti animali di un insopportabile razzismo, dall’altro c’è chi ha fatto proprio il comportamento delle “tre scimmie” – non vedo, non sento, non ne parlo – accettando di convivere con quanto sta avvenendo ai migranti in mezzo al mare o sull’altra sponda del Mediterraneo, dove tra l’altro stiamo vedendo in azione il colonialismo del XXI Secolo con i soldati e le multinazionali europee che si consolidano in Africa con il pretesto di “aiutarli a casa loro”. Una azione di cui, se non agiremo per tempo e con forza, dovremo sentire vergogna per le generazioni a venire.

Una campagna per l’amnistia oggi

Il problema con cui dobbiamo misurarci è fare in modo che tale modello politico-repressivo di uno stato ormai de-costituzionalizzato venga contrastato e se possibile costretto alla ritirata. Con le iniziative che stiamo discutendo vogliamo discutere il come mettere in campo un percorso inclusivo ed efficace a tale scopo.

Non possiamo nasconderci che proprio mentre “la notte si fa più buia”, abbiamo l’ambizione di volerci opporre a questa situazione, a cominciare dalla denuncia del carattere anticostituzionale del Decreto Sicurezza di cui va chiesta l’abrogazione, l’abolizione del 41bis e dell’ergastolo, per finire con la richiesta di una amnistia per i reati commessi durante le lotte e le manifestazioni in difesa della giustizia sociale.

Dal 2011, l’anno in cui è diventato operativo il “pilota automatico” cioè il commissariamento della Bce e delle istituzioni europee sul nostro paese, il numero di attivisti sociali, sindacali, politici, lavoratori, occupanti di case colpiti da provvedimenti repressivi, ha subito una impressionante escalation.

L’Osservatorio contro la repressione ha reso noti i dati tra il 2011 e la prima metà del 2017.

In manifestazioni, picchetti, resistenza a sfratti e sgomberi, azioni di protesta, blocchi stradali, ci sono stati 852 arresti; 15.602 denunce; 385 fogli di via; 221 decreti di sorveglianza speciale; 139 obblighi di firma; 71 obblighi di dimora. Sui decreti di condanna penale, praticamente senza processo, i dati della sola prima metà del 2017 parlano di 46 attivisti condannati. Tra gli attivisti colpiti troviamo soprattutto molti disoccupati organizzati napoletani, attivisti del movimento No Tav, lavoratori dei servizi e della logistica, occupanti di case, attivisti No Border, attivisti del No Muos e antimilitaristi sardi.

Il 2018 ha aggiunto a questi numeri altre denunce. I lavoratori della logistica sono stati denunciati addirittura per “sabotaggio industriale”. Solo a Roma – per fare un esempio recentissimo – ne sono arrivate una settantina per gli studenti del Virgilio che avevano occupato la scuola e una quarantina per una manifestazione popolare e antifascista a Tiburtino III in cui l’unico sangue che si è visto è quando i fascisti – assediati e presi dal panico – si sono menati tra loro.

Si tratta di un carico penale enorme accumulatosi sulle spalle di migliaia di attivisti che sta diventando una ipoteca pesantissima sulla agibilità politica e le libertà democratiche nel nostro paese. Con il nuovo Decreto Sicurezza e la pesante criminalizzazione di forme di lotta come i blocchi stradali e le occupazioni di edifici, questo carico è destinato a farsi assai più pesante.

Il problema di una amnistia per i reati connessi e commessi nell’esercizio di conflitti politici, sindacali, sociali va messa all’ordine del giorno.

Come è stato scritto anche dal costituzionalista Paolo Maddalena in occasione degli sgomberi delle case occupate a Roma, i diritti sociali costituzionali sono prevalenti rispetto agli interessi privati, ma solo questi ultimi hanno creato a propria tutela una legalità che si vuole imporre con ogni mezzo. Minniti prima e Salvini poi hanno ribadito questa linea come quella che conformerà il rapporto tra esigenze/lotte sociali e le leggi dello Stato in questa fase.

Questa contraddizione tra la legalità del diritto della proprietà privata, dell’impresa e della circolazione delle merci che invoca l’ordine pubblico contro le esigenze naturali – addirittura previste dalla Costituzione – di giustizia sociale contro cui vanno a impattare quasi quotidianamente, merita di diventare una battaglia generale, politica, ideologica, culturale e diffusa nei sindacati, nelle organizzazioni sociali e tra i residui di un mondo democratico oggi intimidito e disorientato dalla brutalità dei tempi.

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