Sarebbero oltre mille i manifestanti arrestati da un mese e mezzo in
Sudan. Ora il capo della potente Niss, l’agenzia di servizi segreti del
paese, Salah Abdallah Mohammed Saleh (noto come Salah Ghosh) promette di
liberarli. L’annuncio è di ieri: Ghosh, durante la visita a una
prigione della capitale Khartoum, ha detto ai giornalisti di aver ordinato il rilascio dei manifestanti arrestati nelle proteste anti-governative che stanno investendo tutto il paese.
Una decisione figlia, probabilmente, delle critiche internazionali
arrivate al governo sudanese che sta reprimendo con la violenza
(sarebbero oltre 40 i morti) le proteste popolari contro il presidente
Omar al-Bashir. Ma c’è un ma: Ghosh non ha dato numeri, un
bilancio effettivo degli arresti, né specificato cosa intende per
“eventi recenti”, termine usato per indicare le persone che saranno
coinvolte nel rilascio. Tra loro ci sono semplici cittadini,
giornalisti, leader delle opposizioni.
Intanto, fuori dalle carceri, le proteste continuano. Iniziate il 19
dicembre scorso a causa dell’aumento stellare del costo del carburante
(triplicato) e il conseguente incremento dei beni di prima necessità e
dei beni alimentari, in migliaia sono scesi in strada e ben presto la
rabbia per l’inflazione si è tradotta nella richiesta di dimissioni del
presidente Bashir, al potere con un golpe dal 1989 e ricercato dalla
Corte Penale Internazionale per crimini di guerra commessi nella regione
del Darfur.
Poche ore prima l’annuncio di Ghosh, ieri, altre
manifestazioni avevano avuto luogo a Khartoum e Omdurman, con i
manifestanti dispersi di nuovo con i gas lacrimogeni. “Non abbiamo
paura”, ha gridato la folla, “Libertà, pace e giustizia”, ha ripetuto
mentre commemorava le vittime della repressione dell’ultimo mese e mezzo
e ricordava quelle di Port Sudan, la strage governativa
compiuta il 29 gennaio 2005 nella città sul Mar Rosso (almeno 21
manifestanti uccisi). E le proteste, fa sapere la Spa, l’Associazione
dei professionisti sudanesi, la federazione organizzatrice delle
manifestazioni, continueranno fino alle dimissioni di Bashir.
Il partito di opposizione National Umma Party ha denunciato ieri
l’attacco contro la sua sede a Omdurman, con le forze sudanesi che hanno
circondato l’edificio e arrestato alcuni impiegati. La polizia ha bloccato le strade e le piazze per impedire i raduni e usato gas lacrimogeni, granate stordenti, proiettili e acqua sporca per disperdere la folla.
Esternamente a fare pressioni è la comunità internazionale, con gli Stati
Uniti in prima fila: il Dipartimento di Stato ha chiesto il rilascio di
tutti “i giornalisti, gli attivisti e i manifestanti pacifici
arbitrariamente detenuti” e un’inchiesta seria sulle violenze, per poi
minacciare Khartoum di una revisione dei rapporti bilaterali. Ma sono
proprio gli Usa il principale target del governo che imputa la crisi
economica alla “guerra” lanciata dalla comunità internazionale negli
ultimi due decenni: Washington ha imposto un embargo commerciale contro
il Sudan nel 1997, per sospenderlo nel 2017.
Critiche simile sono arrivate da mezza Europa, dal Canada e dalle
Nazioni Unite. Diversa la reazione di Egitto, Qatar e Arabia Saudita che
fin da subito hanno espresso solidarietà a Bashir. Il
presidente egiziano al-Sisi, dalla sua, teme che le proteste nel paese
vicino possano contagiare il suo, già interessato da una rivoluzione e
oggi governato con il pugno di ferro della repressione e misure di
austerity che stanno affamando la popolazione: domenica, mentre
i sudanesi manifestavano, Bashir era al Cairo dove ha discusso con
al-Sisi di quel che definisce un’esagerazione delle proteste
architettata dai media, definendo le manifestazioni un tentativo di
“copiare le primavere arabe”. Doha e Riyadh hanno più di un interesse
economico in Sudan e non intendono destabilizzare il ricco business
perdendo la pedina Bashir.
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