In questa intervista, realizzata ieri dal giornale svizzero Ticinonline, spiega la sua posizione giudiziaria e la “stranezza” della giustizia italiana in questa particolare materia.
Salvini, tutti “i politici” ed anche tutta la stampa mainstream, ne parlano come un “latitante” mai assicurato alla giustizia. Un falso, puro e semplice falso. Lojacono è infatti un cittadino italo-svizzero – ha la doppia cittadinanza, visto che i suoi genitori erano dei due paesi – per il quale lo Stato italiano ha chiesto e ottenuto l’arresto e il riconoscimento delle condanne italiane.
Cosa avvenuta regolarmente, tanto che Lojacono ha scontato l’ergastolo in Svizzera, ovviamente con le regole e le leggi di quel paese. Una volta scontata la pena è stato rimesso in libertà – non dobbiamo dimenticare mai che da quel 16 marzo sono passati 41 anni! – vive e lavora nel paese, e non è ovviamente più incorso in alcun guaio con la giustizia. Ma sui contorti passaggi giuridici che si sono messi in moto nel suo caso è meglio lasciare la parola a lui stesso, visto che il diritto elvetico è abbastanza differente da quello italiano e soprattutto lo Stato italiano si è comportato spesso in modo, diciamo così, “disinvolto” sul piano giuridico.
La cosa importante da sapere e capire è che ha scontato già l’ergastolo per i reati di cui la giustizia italiana l’ha riconosciuto colpevole.
In più, per i non addentro alle questioni giudiziarie, c’è da capire e sapere che l’ergastolo – essendo la pena massima prevista dal codice penale italiano – assorbe al suo interno tutte le condanne (sia equivalenti, sia quelle “minori”, come partecipazione a banda armata, ecc). Il principio giuridico per cui ciò avviene è elementare: hai soltanto una vita, dunque non puoi scontare più condanne a vita, ma una sola, e una sola volta. Se anche subisci più processi e vieni condannato più volte all’ergastolo, il codice prevedere che tutte le condanne siano “cumulate”, diventando una sola. Ovviamente quella massima.
Anche il codice penale italiano prevede che la condanna all’ergastolo – tranne nel caso dell’incostituzionale “ergastolo ostativo” (che esclude qualsiasi sconto previsto dalle leggi dello Stato, in barba alla Carta che prescrive che la pena miri alla “alla rieducazione del condannato”) – possa prevedere una carcerazione più breve dell’intera vita; e dunque che anche i condannati a questa pena possano tornare in libertà prima della morte. Gli esempi potrebbero essere centinaia, ma c’è anche da rispettare il “diritto all’oblio”, cui spesso ci richiamano avvocati di diversi inquisiti per reati decisamente più frequenti (corruzione, ecc). Quindi niente nomi: né comuni, né di destra (pochissimi, rispetto al numero dei morti causati), né tanto meno di comunisti.
Dunque Lojacono ha scontato la pena massima inflittagli dall’Italia, e in nessun modo – nella civiltà giuridica degli ultimi secoli – si può pretendere che chiunque sconti più volte la stessa condanna. Tanto più quella “a vita”.
Ma alcuni governi di questo paese – quando hanno bisogno di un'”arma di distrazione di massa” – ritirano fuori questo e altri nomi nel modo che abbiamo detto. La “giustizia”, in questi casi, non c’entra ovviamente nulla. E ancora meno la “certezza della pena” (che, in quanto tale, vale per tutti: Stato, vittime, condannati). Ma nel paese degli “aggiusta-processi” diventati governanti, tutto sembra diventare possibile. Persino scontare più volte una condanna a vita.
Sulla serietà di questo atteggiamento lasciamo giudicare i lettori.
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Intervista esclusiva al cittadino svizzero Alvaro Baragiola-Lojacono, 63 anni, l’uomo con cui Salvini vorrebbe riaprire i conti degli anni di piombo.
Fonte Ticinonline
LUGANO/BERNA – Per l’Italia l’orologio della storia è sempre fermo alle 9 del mattino del 16 marzo 1978. Al giorno, cioè, del rapimento del presidente della DC Aldo Moro e Alvaro Lojacono, all’epoca 22enne, è un brigatista latitante all’estero che deve scontare un ergastolo per l’agguato di via Fani.
Per la Svizzera Alvaro Baragiola, che ora ha 63 anni (e da una vita ha preso passaporto e cognome della madre), è un cittadino elvetico. Oggi lavora, ha una famiglia e la sua fedina è pulita dopo aver scontato nel secolo scorso una pena di 17 anni inflittagli per analoghi fatti di sangue (già inclusi nella sentenza Moro1-bis).
A riaprire vecchie cicatrici è stato l’arresto e l’estradizione dalla Bolivia a Roma di un protagonista minore degli anni di piombo, Cesare Battisti. Ma tanto è bastato per far ripartire la caccia ai riparati oltre confine. Mediatica soprattutto. E non solo, come spiega in esclusiva per Ticinonline/20Minuti e dopo quasi vent’anni di silenzio, l’uomo finito nel mirino di Matteo Salvini & Co.
Anche la Lega dei ticinesi ha invitato il Governo federale a consegnarla alle autorità italiane. Come valuta lei questa richiesta?
Per cominciare tengo a precisare che l’Italia NON ha MAI chiesto la mia estradizione alla Svizzera (il fatto è accertato dalla sentenza del Tribunale federale del 9 aprile 1991), ed una “consegna” come la richiede la Lega equivarrebbe a una deportazione alla boliviana, che la Confederazione non prevede.
Lei ha scontato una pesante condanna in Svizzera per fatti che le sono imputati in Italia, ma sembra che le autorità italiane non ne tengano conto. Perché?
L’Italia non riconosce, né può riconoscere, la carcerazione sofferta in Svizzera per gli stessi fatti e reati perché non solo non ha chiesto alla Svizzera l’estradizione, ma neppure ha chiesto alla Confederazione di processarmi in Svizzera.
Ci risulta però che, nel 2006, l’Italia presentò alla Confederazione una richiesta di exequatur, cioè di esecuzione in Svizzera delle condanne italiane…
È vero, però la richiesta italiana riguardava solo la sentenza del processo Moro 4 – invece della decisione giudiziaria di cumulo delle pene dei diversi processi – e non garantiva che, una volta eseguita la pena in Svizzera, il paese richiedente l’avrebbe pienamente riconosciuta come scontata. Il rischio era che, una volta eseguita in Svizzera, l’Italia avrebbe poi proceduto per farla valere o eseguirla di nuovo, cosa illegale ma non sorprendente, o avrebbe chiesto l’esecuzione ulteriore delle altre condanne. Per questo motivo la richiesta italiana fu respinta dai giudici del Canton Berna.
Per quale motivo le autorità italiane (i diversi governi che si sono succeduti) hanno scelto di non chiedere l’estradizione e poi in caso di rifiuto il processo in via sostitutiva?
Questo bisognerebbe chiederlo a loro. Io non lo so e posso solo fare delle ipotesi, forse l’Italia non ha voluto che uno stato straniero mettesse il naso nel processo Moro. Sarebbe comprensibile. Qualunque sia la ragione, non sono le autorità svizzere, né una mia presunta opposizione, ad aver creato l’impasse attuale.
Come si spiega questa “storia sospesa”?
Forse perché è più facile non fare nulla e sbraitare contro la Svizzera e il sottoscritto; su un “latitante” si può dire qualsiasi cosa, perché non è in condizione di difendersi, vengono addirittura qui con telecamere nascoste, figuriamoci. O forse perché il dossier dell’exequatur è stato affidato a qualche funzionario cialtrone e incompetente; non lo so, ma è evidente che il problema sta da quella parte.
E se l’Italia presentasse una richiesta di exequatur corretta e completa (cioè per tutte le condanne italiane cumulate), con la garanzia che l’Italia non precederà più per gli stessi fatti. Lei come reagirebbe?
Sono passati 40 anni e l’Italia si è sempre mossa in una logica di vendetta, come si è ben visto anche nel caso Battisti, e non ha mai rinunciato a un quadro giuridico d’eccezione. In una giustizia normale la “certezza della pena” vale anche per il detenuto: io sono stato scarcerato quasi venti anni fa, e sto ancora come prima dell’arresto, senza sapere se un giorno o l’altro mi riarrestano o mi riprocessano per qualcosa. Se ora l’Italia decidesse di muoversi con una richiesta come quella che ipotizza, io l’accetterei senza obiezioni, almeno metteremmo la parola fine a questa vicenda.
Sta dicendo che accetterebbe l’ergastolo che un giudice svizzero, secondo le sentenze italiane, le dovrebbe infliggere?
Sì.
Ripensa spesso a quel mattino in via Fani?
Ogni volta che il tema è rilanciato dai media associandolo al mio nome ricevo insulti e minacce. È una pena supplementare, non ci posso fare niente. Ci sono memorie collettive diverse ed in conflitto tra loro, e nessuna sarà mai condivisa da tutti. Entriamo nel cinquantenario del lungo ’68; dopo mezzo secolo si dovrebbe poter trattare le cose storicamente, ma non è così, sembra che i fatti siano avvenuti ieri.
Cosa contesta nella lettura odierna dei fatti di allora?
All’epoca, erano passati 30 anni dalla fine della guerra e dei suoi drammatici strascichi di guerra civile, ma quella era già storia, nessuno lanciava stagioni di caccia grossa agli “impuniti”. Ho avuto un contatto con l’ultima commissione parlamentare italiana sul caso Moro, che ha purtroppo mancato l’occasione, scegliendo di dedicarsi alla ricerca di complotti.
Cosa ha detto a questi commissari?
Quello che penso, e che dico a chiunque – pur evitando di farlo in pubblico, perché so quanto l’apparizione anche solo di una foto possa irritare i parenti delle vittime. C’è stata una “linea della fermezza” lanciata dal PCI al tempo del sequestro Moro, continuata poi con le leggi d’emergenza e con la politica della vendetta, che in questi giorni ha raggiunto livelli impensabili con l’esibizione del detenuto-trofeo. Una catena che neppure la commissione ha voluto interrompere, lasciando la verità nella palude del sospetto.
Dunque resta un tema tabù?
Non vedo perché parlare con chi mi considera ancora oggi terrorista e nemico pubblico. Che non sono. Ma non è un tabù, ne parlo con storici e ricercatori con cui si può discutere, solo lontani dalla propaganda e dalle fake-news si può ritrovare un senso storico.
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