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14/01/2019

Siria - Trump minaccia ritorsioni economiche se Erdogan attaccherà i curdi

di Roberto Prinzi

Gli Usa “devasteranno l’economia turca” qualora Ankara dovesse attaccare le forze curde alleate degli americani nella battaglia contro lo Stato Islamico (Is). Ad affermarlo, in un tweet, è stato ieri il presidente statunitense Donald Trump. Il leader repubblicano ha poi chiarito che il ritiro americano – annunciato dalla Casa Bianca a dicembre – è già iniziato, ma che Washington continuerà ad attaccare i jihadisti. Ha quindi parlato di una “zona cuscinetto di 20-30 km” senza fornire alcun dettaglio a riguardo (chi la creerà? Dove sarà collocata? Chi la controllerà?). Trump ha poi voluto mandare un messaggio anche ai curdi a cui ha chiesto di “non provocare la Turchia”.

Tornano dunque ad essere tesissime le relazioni tra i due alleati della Nato: le Ypg curde, che sono le unità maggioritarie all’interno delle Forze democratiche siriane (Sdf) e sono sostenute dagli americani nella lotta all’Is, sono ritenute da Ankara nient’altro che l’estensione siriana dei “terroristi” del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) contro cui la Turchia combatte da oltre 30 anni sul suo territorio. Le relazioni tra americani e turchi sono per la verità tese ormai da tempo non solo per il sostegno dei primi alle Ypg. Ciò è apparso evidente lo scorso anno quando Trump ha imposto sanzioni su due ministri turchi e ha alzato le tariffe sulle esportazioni siderurgiche turche contribuendo così a far registrare ad agosto un nuovo record negativo per la lira turca. Non bisogna poi dimenticare il malcontento del presidente Erdogan per la mancata estradizione del religioso turco Gulen (che Ankara ritiene la mente del fallito colpo di stato del 2016 e che è in auto-esilio negli Usa) e l’arresto da parte turca del pastore americano Andrew Brunson (poi liberato) che hanno esacerbato le tensioni tra i due paesi. Ai tweet minacciosi di ieri di Trump (ma quanto si tradurranno concretamente?), ha risposto stamane stizzito Ibrahim Kalin, il portavoce di Erdogan. “I terroristi [curdi] non possono essere i vostri partner e alleati. La Turchia si aspetta che gli Usa onorino la nostra alleanza strategica e non vuole che questa sia offuscata dalla propaganda terroristica”.

Eppure si pensava che la calma tra Turchia e Usa fosse tornata definitivamente a dicembre quando Trump, un po’ a sorpresa, aveva annunciato il ritiro americano dalla Siria in seguito alla “sconfitta” dello Stato islamico. Erdogan si era fregato le mani e aveva prontamente dichiarato di voler annientare la presenza curda nel Rojava (nord della Siria), mettendo così fine al progetto del confederalismo democratico e a qualunque speranza di autonomia per i curdi. Da allora, però, è seguita una serie di messaggi contraddittori e vaghi da parte della Casa Bianca. Come ci ha abituato l’Amministrazione Trump, infatti, alle dichiarazioni roboanti sono seguiti passi indietro e nebulosi annunci. La scorsa settimana John Bolton, il consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, aveva fatto infuriare Ankara chiedendo ai turchi di fornire rassicurazioni sui curdi siriani prima che avvenga il ritiro americano. Una richiesta che è stata subito giudicata un “grave errore” da Erdogan.

Washington, inoltre, aveva dichiarato venerdì di aver cominciato il ritiro salvo poi precisare in seconda battuta di aver ritirato non i soldati, ma solo le attrezzature militari. In effetti il “califfato”, per quanto “viva gli ultimi momenti” come ha dichiarato ieri un ufficiale curdo delle Sdf, non è stato ancora del tutto sconfitto: nell’est siriano, al confine con l’Iraq, in un’area che corrisponde all’1% di quel che fu lo “Stato islamico”, sono operativi ancora 2.000 jihadisti. Sabato in questa zona la coalizione statunitense ha lanciato più di 20 missili contro le postazioni dell’Is.

Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani (Osdi), due giorni fa più di 600 persone sono state evacuate da questo fazzoletto di terra dove le Sdf si preparano all’assalto finale. Rami Abdel Rahman, direttore dell’Osdi da sempre vicino alle opposizioni siriane, ha poi aggiunto che almeno 16.000 persone (tra cui 750 jihadisti dell’Is) hanno lasciato il nord est della Siria dall’inizio di dicembre. Per l’Onu sono 25.000 negli ultimi 6 mesi, ma restano 2.000 civili intrappolati nella città di Hajin.

Intanto, in Turchia sembra aver dato i suoi frutti lo sciopero della fame dalla parlamentare del partito di sinistra filo-curdo Hdp Leyla Guven per protestare contro le condizioni di detenzione del capo del Pkk Abdullah Ocalan. Sabato, infatti, il leader curdo, posto in regime di isolamento nell’isola di Imrali dal 1999, è riuscito a incontrare suo fratello Mehmet a distanza di due anni dal loro ultimo incontro. A dare la notizia è stata Pervin Buldan, la co-presidente dell’Hdp. Ocalan, ha twittato la parlamentare, è in “buona salute”. L’incontro è stato confermato anche dal nipote di Ocalan, Omer, che tuttavia ha poi ricordato come lo zio resti in isolamento. “Come suoi familiari – ha dichiarato – chiediamo che Ocalan abbia gli stessi diritti di tutti gli altri prigionieri. E’ autorizzato a incontrare la sua famiglia una volta a settimana”.

Non è chiaro se la parlamentare Guven terminerà ora il suo sciopero della fame iniziato l’8 novembre: il suo gesto, sostenuto da più di 150 prigionieri in Turchia, ha reso molto gravi le sue condizioni di salute. Guven è l’emblema della repressione turca contro le voci del dissenso, a maggior ragione se dell’Hdp: la parlamentare è stata arrestata nel gennaio 2018 per la sua opposizione all’operazione militare turca nell’est del Paese. Molti altri suoi colleghi di partito sono in carcere: tra questi anche il co-presidente dell’Hdp Selahattin Demirtas.

Sabato la polizia turca ha bloccato diverse manifestazioni che si proponevano di marciare verso la prigione dove Guven è detenuta nella città a maggioranza curda di Diyarbakir. Non è la prima volta che i curdi protestano contro la repressione di Ankara nei loro confronti e per le condizioni di detenzione di Ocalan rifiutandosi di mangiare il cibo: nel 2012 centinaia di prigionieri curdi terminarono uno sciopero della fame durato 68 giorni su suggerimento dello stesso leader curdo.

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