di Roberto Prinzi
Gli Usa “devasteranno
l’economia turca” qualora Ankara dovesse attaccare le forze curde
alleate degli americani nella battaglia contro lo Stato Islamico (Is).
Ad affermarlo, in un tweet, è stato ieri il presidente statunitense
Donald Trump. Il leader repubblicano ha poi chiarito che il ritiro americano – annunciato dalla Casa Bianca a dicembre – è già iniziato, ma che Washington continuerà ad attaccare i jihadisti. Ha quindi parlato di una “zona cuscinetto di 20-30 km” senza fornire alcun dettaglio a riguardo (chi la creerà? Dove sarà collocata? Chi la controllerà?). Trump ha poi voluto mandare un messaggio anche ai curdi a cui ha chiesto di “non provocare la Turchia”.
Tornano dunque ad essere tesissime le relazioni tra i due alleati della Nato:
le Ypg curde, che sono le unità maggioritarie all’interno delle Forze
democratiche siriane (Sdf) e sono sostenute dagli americani nella lotta
all’Is, sono ritenute da Ankara nient’altro che l’estensione siriana dei
“terroristi” del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) contro cui
la Turchia combatte da oltre 30 anni sul suo territorio. Le relazioni
tra americani e turchi sono per la verità tese ormai da tempo non solo
per il sostegno dei primi alle Ypg. Ciò è apparso evidente lo scorso
anno quando Trump ha imposto sanzioni su due ministri turchi e ha alzato
le tariffe sulle esportazioni siderurgiche turche contribuendo così a far
registrare ad agosto un nuovo record negativo per la lira turca. Non
bisogna poi dimenticare il malcontento del presidente Erdogan per la
mancata estradizione del religioso turco Gulen (che Ankara ritiene la
mente del fallito colpo di stato del 2016 e che è in auto-esilio negli
Usa) e l’arresto da parte turca del pastore americano Andrew Brunson
(poi liberato) che hanno esacerbato le tensioni tra i due paesi. Ai tweet minacciosi di ieri di Trump (ma quanto si tradurranno concretamente?), ha
risposto stamane stizzito Ibrahim Kalin, il portavoce di Erdogan. “I
terroristi [curdi] non possono essere i vostri partner e alleati.
La Turchia si aspetta che gli Usa onorino la nostra alleanza strategica
e non vuole che questa sia offuscata dalla propaganda terroristica”.
Eppure si pensava che la calma tra Turchia e Usa fosse tornata definitivamente a dicembre quando
Trump, un po’ a sorpresa, aveva annunciato il ritiro americano dalla
Siria in seguito alla “sconfitta” dello Stato islamico. Erdogan si era fregato le mani e aveva prontamente dichiarato di voler annientare la presenza curda nel Rojava (nord della Siria), mettendo così fine al progetto del
confederalismo democratico e a qualunque speranza di autonomia per i curdi. Da
allora, però, è seguita una serie di messaggi contraddittori e vaghi da
parte della Casa Bianca. Come ci ha abituato l’Amministrazione Trump,
infatti, alle dichiarazioni roboanti sono seguiti passi indietro e
nebulosi annunci. La scorsa settimana John Bolton, il
consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, aveva fatto infuriare
Ankara chiedendo ai turchi di fornire rassicurazioni sui curdi
siriani prima che avvenga il ritiro americano. Una richiesta che è stata subito giudicata un “grave errore” da Erdogan.
Washington, inoltre, aveva dichiarato venerdì di aver cominciato il
ritiro salvo poi precisare in seconda battuta di aver ritirato non i
soldati, ma solo le attrezzature militari. In effetti il “califfato”,
per quanto “viva gli ultimi momenti” come ha dichiarato ieri un
ufficiale curdo delle Sdf, non è stato ancora del tutto sconfitto:
nell’est siriano, al confine con l’Iraq, in un’area che corrisponde
all’1% di quel che fu lo “Stato islamico”, sono operativi ancora 2.000
jihadisti. Sabato in questa zona la coalizione statunitense ha lanciato
più di 20 missili contro le postazioni dell’Is.
Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani (Osdi), due giorni fa più di 600 persone sono state evacuate da questo fazzoletto di terra dove le Sdf si preparano all’assalto finale. Rami Abdel Rahman, direttore dell’Osdi da sempre vicino alle opposizioni siriane, ha poi aggiunto che almeno
16.000 persone (tra cui 750 jihadisti dell’Is) hanno lasciato il nord
est della Siria dall’inizio di dicembre. Per l’Onu sono 25.000 negli
ultimi 6 mesi, ma restano 2.000 civili intrappolati nella città di
Hajin.
Intanto, in Turchia sembra aver dato i suoi frutti lo
sciopero della fame dalla parlamentare del partito di sinistra
filo-curdo Hdp Leyla Guven per protestare contro le condizioni di
detenzione del capo del Pkk Abdullah Ocalan. Sabato, infatti, il
leader curdo, posto in regime di isolamento nell’isola di Imrali dal
1999, è riuscito a incontrare suo fratello Mehmet a distanza di due anni
dal loro ultimo incontro. A dare la notizia è stata Pervin
Buldan, la co-presidente dell’Hdp. Ocalan, ha twittato la parlamentare, è
in “buona salute”. L’incontro è stato confermato anche dal nipote di
Ocalan, Omer, che tuttavia ha poi ricordato come lo zio resti in
isolamento. “Come suoi familiari – ha dichiarato – chiediamo che Ocalan
abbia gli stessi diritti di tutti gli altri prigionieri. E’ autorizzato a
incontrare la sua famiglia una volta a settimana”.
Non è chiaro se la parlamentare Guven terminerà ora il suo sciopero della fame iniziato l’8 novembre: il suo gesto, sostenuto da più di 150 prigionieri in Turchia, ha reso molto gravi le sue condizioni di salute. Guven è l’emblema della repressione turca contro le voci del dissenso, a maggior ragione se dell’Hdp:
la parlamentare è stata arrestata nel gennaio 2018 per la sua
opposizione all’operazione militare turca nell’est del Paese. Molti
altri suoi colleghi di partito sono in carcere: tra questi anche il
co-presidente dell’Hdp Selahattin Demirtas.
Sabato la polizia turca ha bloccato diverse manifestazioni che si
proponevano di marciare verso la prigione dove Guven è detenuta nella
città a maggioranza curda di Diyarbakir. Non è la prima volta che i
curdi protestano contro la repressione di Ankara nei loro confronti e
per le condizioni di detenzione di Ocalan rifiutandosi di mangiare il
cibo: nel 2012 centinaia di prigionieri curdi terminarono uno sciopero
della fame durato 68 giorni su suggerimento dello stesso leader
curdo.
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