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16/01/2019

Ungheria - Il cortile di casa dell’Europa a trazione tedesca


Almeno 15.000 persone hanno marciato il 16 dicembre 2018 in direzione del Parlamento e del quartier generale della TV di stato contro l’approvazione di due leggi e contro il governo del primo ministro nazionalista e nazional-populista Viktor Orbán. E’ stata una delle più grandi proteste mai realizzate nel paese. In testa alla grande manifestazione di Budapest c’erano delegati giovani e studenti che si battono contro la nuova riforma del lavoro ma anche contro l’istituzione di un nuovo tribunale amministrativo alle dirette dipendenze del governo e contro il ferreo controllo dei mezzi di informazione da parte governativa. Il lunghissimo corteo ha marciato verso il Parlamento, tenendo striscioni con la scritta “Non rubare” o “Tribunali indipendenti”.

Ci sono stati cortei anche in altre città, come ad esempio a Szeged (Seghedino, vicino al confine con Serbia e Romania), dove il sindaco socialista ha chiesto alle imprese di boicottare la nuova legge sul lavoro. Dopo la fine della manifestazione, verso le 19, alcune migliaia di manifestanti guidati da alcuni membri dell’opposizione, hanno bloccato alcune importanti strade della città e poi si sono recati presso la televisione pubblica per chiedere di leggere una dichiarazione ma la direzione ha opposto un netto rifiuto ed ha chiesto l’intervento dei reparti antisommossa della polizia conto i quali i manifestanti hanno lanciato oggetti e fumogeni ma dai quali sono stati poi dispersi con l’uso massiccio di lacrimogeni.

Il partito di governo, FIDESZ [1] ha cercato di sminuire le proteste accusando il solito George Soros [2] di aver pagato i manifestanti, definiti “provocatori” e “mercenari”. Addirittura il capo di gabinetto di Orbàn, Gergely Gulyás, parlando delle prime mobilitazioni cominciate il 12 dicembre, ha parlato esplicitamente di “fedeli di Soros che odiano apertamente i cristiani” in continuità con gli argomenti usati da FIDESZ in occasione della promulgazione delle famigerate leggi soprannominate “Stop Soros”, con le quali il governo aveva criminalizzato l’immigrazione clandestina e tutte le persone e/o le organizzazioni che si occupano di accoglienza in quel paese. Ma la manfrina su Soros e sul “complotto Pluto-giudaico internazionale” (argomento da sempre caro alle narrazioni naziste e fasciste), questa volta, ha avuto le gambe corte, anzi cortissime.

L’Ungheria si sta spopolando perché i suoi cittadini più qualificati emigrano e perché il tasso di natalità è tra i più bassi d’Europa. Inoltre i giovani diplomati e laureati vanno a vivere e lavorare altrove, sia perché trovano salari migliori in Austria e Germania, sia perché Orbàn ha impresso una svolta decisamente autoritaria che ha soffocato la vita civile ed ha ristretto, drasticamente, ogni spazio di libertà. La mossa anti-immigrazione del primo ministro è stata un vero boomerang peraltro previsto dagli stessi economisti polacchi, un tempo vicini al governo. Ma l’autocrate ungherese non ha voluto ascoltarli ed ha preferito imboccare la scorciatoia nazionalista e xenofoba.

Le proteste contro il regime di Orbàn non sono iniziate il 12 dicembre 2018. Già nel 2012 si erano svolte numerose manifestazioni studentesche. Poi, nel 2014 era seguita un’ondata di proteste contro la tassazione della rete internet. Infine, nel 2017, erano state raccolte più di di 250mila firme contro l’organizzazione delle olimpiadi a Budapest nel 2024.

Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata proprio l’approvazione della riforma sul lavoro – la così detta “legge schiavitù” – che allunga la settimana lavorativa da 5 a 6 giorni ed aumenta le ore di straordinario di modo che i datori di lavoro possono chiedere ai dipendenti ufficialmente 150 ore di straordinario in più all’anno che poi, nei fatti, possono estendersi fino a 400 ore in più perché la norma concede un potere enorme alle aziende. A ciò si aggiunge che le ore di straordinario svolte in applicazione della nuova norma potranno essere pagate entro 3 anni (non più entro un anno come prevedono le norme attuali). Dunque, se un lavoratore lascia o perde il lavoro prima di questo periodo, è possibile che non riceva quanto gli spetti per le ore di straordinario. Durante quei tre anni il lavoratore può essere licenziato, può decidere di lasciare l’azienda oppure è in scadenza di contratto a tempo determinato. E che cosa succede se il lavoratore non viene pagato? Il pagamento andrà sicuramente perduto. In teoria, secondo la norma, sarebbe necessario il consenso del lavoratore ma, nei fatti, sia nelle piccole che nelle medie imprese, quest’ultimo dovrà sottostare ai desiderata e agli abusi del padrone pena il licenziamento perchè non esiste in Ungheria una norma che tuteli la continuità del posto di lavoro.

Nei fatti la riforma del lavoro di Orbàn introduce in Ungheria il lavoro gratuito e priva i lavoratori ungheresi di ogni più elementare diritto applicando una forma di liberismo estremo ad esclusivo vantaggio delle aziende, sia di quelle ungheresi, sia di quelle straniere. E’ per questo che la legge sullo straordinario di Orbàn è stata subito ribattezzata dal movimento di protesta “legge-schiavitù” perché, nonostante il tentativo del governo di farla passare per una buona legge, è subito apparso ai più che si tratta di un attacco talmente violento e radicale ai diritti ed alle condizioni di vita dei lavoratori ungheresi da non avere precedenti non solo in Europa ma anche nei paesi dell’Europa dell’Est. Orbàn avrà certamente pensato di mantenere, in questo modo, attive le fabbriche e di continuare ad attirare investimenti dall’estero, a cominciare dall’industria automobilistica tedesca, approfittando del fatto che in quel paese il tasso di sindacalizzazione è bassissimo. Tuttavia, il primo ministro ungherese, questa volta, ha fatto male i propri conti sottovalutando la possibilità di una reazione popolare in relazione ad un argomento così delicato e sensibile come il lavoro. Una reazione che, poi, è arrivata e non intende fermarsi. Una reazione che può mettere in seria crisi lo strapotere che FIDESZ ha acquisito nel paese e nei confronti dell’Europa.

Per ora, Orbàn, non cerca alcun spazio di mediazione con il movimento ed, anzi, sta facendo di questo provvedimento un cavallo di battaglia sostenendo che si tratta di un provvedimento essenziale per l’economia ungherese ed ha confermato di volere continuare per la sua strada nonostante le proteste di massa. Dal primo canale della televisione pubblica, il primo ministro ungherese continua a ripetere che questa legge è per il bene dei lavoratori e che, a dispetto del testo stesso della legge, le “150 ore di straordinario” in più l’anno verranno pagate ogni mese. Ovviamente, non fa cenno al fatto che il pagamento nei tre anni successivi favorisce, soprattutto, le grandi aziende straniere, in primis, quelle automobilistiche tedesche che hanno delocalizzato, di recente, in Ungheria. Orbàn sostiene, invece, che la sua legge favorisce le piccole aziende ungheresi delle quali punterebbe “ad aumentare la competitività”.

La novità è che per la prima volta l’opposizione a questa norma sta vedendo uniti tutti i partiti di opposizione ed i sindacati ed è incentrata più che sulla mancata contrattazione e sul non riconoscimento dei sindacati, sui diritti soggettivi dei lavoratori. Alla protesta si sono subito uniti giovani e studenti perché capiscono che la riforma di Orbàn ha preso di mira principalmente loro. E sono proprio i giovani e gli studenti a protestare con maggior determinazione perché vedono nel loro futuro settimane lavorative di sei giorni e turni di dieci ore. La protesta si sta allargando anche a quella periferia del paese in cui Orbàn aveva stravinto le elezioni ottenendo una maggioranza quasi bulgara (85 seggi su 88).

Nell’Ungheria che chiude le frontiere ai migranti e che ha il reddito pro capite tra i più bassi dell’Est Europa, la percentuale dei lavoratori che vanno all’estero in cerca di un miglioramento delle proprie condizioni di vita è in costante crescita con un dato segnalato dall’OCSE del 16%. Inoltre la disoccupazione è stimata al 3,7% da fonti governative ma il dato è drogato dal numero enorme di occupazioni saltuarie e malpagate volute dal governo nel settore che chiama dei “lavori sociali”.

In risposta alle critiche alla legge “schiavitù”, tra una dichiarazione e l’altra, messo alle strette il governo ha dovuto ammettere, a mezza bocca, che la “legge-schiavitù” è stata richiesta dalle grandi imprese. Ma quando i sindacati hanno chiesto alle imprese come e da chi era nata quella legge, nessuno ha risposto. Tuttavia, la convinzione generale è che la richiesta sia stata avanzata innanzitutto dalle grandi case automobilistiche tedesche che hanno delocalizzato, di recente, in Ungheria come, ad esempio, Mercedes e BMW. E quando è stato chiesto espressamente a queste imprese se erano state loro a chiedere quella legge, queste non hanno voluto rispondere.

Tra i paesi del gruppo Visègrad[3] l’Ungheria è quello che ha le retribuzioni più basse. Lo stipendio medio è di 600/700 euro circa e lo stipendio medio minimo garantito per 1/4 della popolazione lavorativa (4 milioni) è di circa 300/400 euro circa a fronte di prezzi allineati quasi alla media europea.

Ma in Ungheria non c’è solo un problema economico perché anche sul piano sociale la situazione è drammatica. Le giovani coppie non riescono a trovare alloggi a Budapest ed in tutto il paese è totalmente inesistente l’edilizia popolare mentre altissima è la speculazione edilizia a causa del boom immobiliare trascinato dalla supervalutazione delle abitazioni di alto livello. Altissimo poi è il numero di minori che crescono lontano dalle loro famiglie perché costretti a emigrare più o meno come avviene in Romania e in Ucraina.

In seguito alle giornate di protesta le opposizioni unite chiedono a gran voce di andare al più presso alla convocazione di uno sciopero generale con l’obiettivo di un cambio di sistema politico e questo è un altro elemento di novità se si considera che, in Ungheria, è dal 1956 che non viene convocato uno sciopero generale.

L’altra legge contestata è quella che introduce un nuovo tribunale amministrativo che poi sarebbe una sorta di tribunale privato e speciale alle dipendenze dell’esecutivo. Questa legge tuttavia non è arrivata come un fulmine a ciel sereno perché tutte le principali istituzioni sono, da tempo, cadute nelle mani esclusive del partito di governo come la Corte Costituzionale e la Commissione Elettorale in cui Orbàn ha inserito amici, parenti e membri fedeli del partito FIDESZ.

Ma FIDESZ è membro del Partito Popolare Europeo, come avevo spiegato in un precedente articolo pubblicato da Contropiano il 29 agosto 2018[4] e, a parte qualche mal di pancia, il partito di Orbàn continua ad esserne, nonostante tutto, un membro stabile, e la chiave di questo inossidabile rapporto tra PEP e FIDESZ è da ricercarsi nell’intreccio tra dato economico e dato politico.

L’Ungheria, negli ultimi anni 2/3 anni ha avuto una notevole crescita economica (4,5%) soprattutto grazie ai fondi europei evidenziando, tuttavia, una forte carenza di forza-lavoro, sia qualificata che non, in ogni settore: dall’industria automobilistica, alla sanità, all’agricoltura. A questo deficit il governo ha cercato di sopperire mediante il richiamo massiccio di manodopera dall’Ucraina ma anche da altri paesi, compresa l’Italia. Tuttavia, il rifiuto di qualsiasi forma d’immigrazione si è rivelato un’arma a doppio taglio per Viktor Orbán.

L’atteggiamento d’inflessibile chiusura ha inizialmente rafforzato la popolarità del primo ministro, in declino prima della crisi del 2015, permettendogli di conquistare più del 49 per cento dei voti alle legislative di aprile ed assicurarsi, così, una maggioranza dei due terzi in parlamento, sufficiente per modificare la costituzione. L’Ungheria rifiuta l’immigrazione ma non sa conservare la sua manodopera qualificata (una situazione molto simile a quella dell’Italia) ed è per questo che il primo ministro ha fatto approvare una legge che permette ai datori di lavoro di chiedere ai dipendenti fino a 400 ore di straordinario l’anno, tra l’altro pagabili entro 36 mesi.

Il fatto è che l’Ungheria riceve ogni anno il 7% del proprio PIL dall’Unione Europea attraverso il fondo di coesione. E poi ci sono le rimesse di circa 350.000 ungheresi che lavorano in Europa occidentale e che vanno ad incrementare il PIL di un ulteriore 3%. Se si tiene conto che fino a tre anni fa il PIL dell’Ungheria era stabile al 2,5%, ciò vuol dire che il “miracolo economico ungherese” è in realtà essenzialmente il prodotto del combinato disposto del fondo di coesione europeo più le rimesse dei lavoratori emigrati. Il modello ungherese voluto da Orbàn è, dunque, in buona sostanza, un modello di dipendenza economica gravido di contraddizioni e pronto ad esplodere da un momento all’altro.

Va detto che, quando era all’opposizione, Viktor Orbàn aveva un programma di stampo socialista e aveva promosso un referendum per il rilancio sociale. Ma una volta al governo se n’è dimenticato ed ha accarezzato, da subito, i propositi padronali (ed anche in questo si ravvisano facilmente delle chiare analogie con quanto sta avvenendo in Italia).

Fino ad ora Orbàn, nel rapporto con la protesta di massa che lo ha investito nelle ultime settimane, è riuscito ad evitare atti di repressione violenta per non dare la possibilità all’opposizione di dimostrare il vero volto del regime. L’unico episodio in cui si è manifestata violenza è stata l’espulsione coatta di due deputati dalla televisione di Stato che avevano tentato di farsi intervistare dalla TV pubblica controllata rigorosamente da Orbàn che, durante le manifestazioni di piazza, stava trasmettendo documentari sui piccioni. I due deputati sono stati trascinati fuori con la forza e le scene sono state subito rilanciate dai social che così hanno dato risalto alla protesta. Il video sulla cacciata dei due deputati è diventato subito virale ed ha mostrato, sia alla maggioranza degli ungheresi sia al resto del mondo, cosa sta avvenendo in Ungheria. Peraltro, l’Ungheria è un paese in cui Facebook ha una diffusione enorme e il social network statunitense ha avuto un impatto ampissimo non solo nelle manifestazioni di Budapest, ma anche nelle tradizionali roccaforti di FIDESZ nella profonda provincia ungherese in cui si sono svolte manifestazioni molto partecipate.

Nel 2019, oltre alle elezioni europee di fine maggio, si svolgeranno, in autunno, le elezioni amministrative che vedranno il rinnovo dei consigli comunali in tutto il paese. A quelle scadenze punta l’opposizione per ribaltare la situazione a suo favore e riprendersi quote di potere per gestire pezzi di territorio iniziando, così, un percorso di smantellamento del sistema di potere instaurato da Orbàn in tutto il paese.

Ma Orbàn non è solo in Europa; Orbàn è saldamente dentro i meccanismi dell’Unione Europea e può contare sulla sua appartenenza al più forte raggruppamento politico europeo, ovvero, il Partito Popolare Europeo che non hai mai preso in considerazione la possibilità di sospendere o, tanto meno, di espellere il FIDESZ dal PEP. In cambio Orbàn ha appoggiato, ad occhi chiusi, la candidatura di Manfred Weber a presidente della Commissione Europea.

Orbàn punta a portare la sua pattuglia di deputati nel Parlamento Europeo e nelle file del PEP perché la sua strategia ha messo al centro proprio i meccanismi dell’Unione Europea ed è legata a doppio filo all’alleanza con la Germania. Ma si tratta soprattutto della Germania dei centri produttivi (Stoccarda, Monaco di Baviera, Dusserdolf) che poi sono quelli che fanno funzionare l’economia ungherese e da cui quest’ultima è totalmente dipendente. La Germania, dal canto suo, nel rapporto con l’Ungheria, ha scelto di fare un raffinatissimo e calcolato doppio gioco che prevede, da un lato, critiche pubbliche all’operato di Orbàn, e dall’altro, in privato, un sostanziale incoraggiamento a proseguire sulla strada del contenimento salariale e dell’innalzamento dei tassi di sfruttamento dei lavoratori ungheresi. Cose che i tedeschi non si sognerebbero mai di applicare in patria pena una rivolta sindacale che farebbe saltare tutto il sistema di relazioni sindacali tedesco basato sul così detto “modello partecipativo” (un mix di cogestione, alti salari ed una sorta di articolo 18) mentre in Ungheria i sindacati non hanno quasi nessun potere contrattuale.

L’abilità di Viktor Orbàn, fin qui, è stata indubbiamente, quella di sfruttare a suo favore tutte queste contraddizioni per proseguire ed allargare il suo progetto di potere non solo nel suo paese ma anche nello scenario europeo. Tuttavia, Orbàn, non aveva messo nel conto che si sarebbe sviluppato così velocemente e così massicciamente un movimento di opposizione al suo regime. Un regime che molti analisti annoverano tra le “democrature”, ovvero, tra le così dette “democrazie illiberali” che stanno affermandosi tanto in Europa quanto ai suoi confini.

Certo, il FIDESZ può contare sui 2/3 dei deputati del Parlamento ma le opposizioni hanno convocato uno sciopero generale che, in caso di successo, potrebbe suonare come una campana a morte per il governo, sebbene non immediata. Da qui alle prossime elezioni europee e fino alle elezioni amministrative del prossimo autunno, si svolgerà in Ungheria una guerra di logoramento tra governo ed opposizioni dagli esiti, tuttavia, incerti e non si intravedono, al momento, punti di mediazione. Da un lato Orbàn deve registrare un calo deciso dei consensi al suo governo, che tuttavia si fa ancora forte dei legami tra FIDESZ ed Unione Europea al punto di chiudere a qualsiasi possibilità di dialogo; dall’altro c’è un vasto e trasversale movimento di protesta che chiede un cambio radicale di sistema politico.

Note
[1] FIDESZ(Unione Civica Ungherese) è un partito politico ungherese conservatore, populista e cristiano. È membro del Partito Popolare Europeo, dell’Unione Democratica Internazionale e dell’Internazionale Democratica Centrista

[2] George Soros, miliardario ungherese naturalizzato statunitense, presidente del Soros Fund, dell’Open Society Foundations e fondatore e consigliere del Quantum Group. Da molti considerato un burattino dei Rotschild, oltre che un avido speculatore e pertanto associato alle teorie complottiste

[3] Il gruppo Visègrad riunisce Ungheria, Polonia , Repubblica Ceca e la Slovacchia tenutesi nel castello-città ungherese di Visegrád il 15 febbraio 1991. Visegrád fu scelto come luogo dell’incontro nel 1991 come allusione al Congresso medioevale di Visegrád nel 1335 tra Giovanni I di Boemia, Carlo I d’Ungheria e Casimiro III di Polonia. Tutti e quattro i membri del gruppo Visegrád hanno aderito all’Unione europea il 1º maggio 2004

[4] Oops! Orban è democristiano… di Sergio Scorza, Contropiano del 29/08/2018

Fonte

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