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20/01/2019

Più salario, meno orario. Ma in Cina, mica qui

La Cina si è offerta di fare uno sforzo straordinario di sei anni per aumentare le importazioni dagli Stati Uniti, in una mossa che riconfigurerebbe la relazione tra le due maggiori economie del mondo. E’ ancora una indiscrezione, raccolta però da Bloomberg, tra i funzionari Usa incaricati dei negoziati con Pechino.

Aumentando le importazioni di beni dagli Stati Uniti per un valore combinato di oltre 1 trilione di dollari in questo periodo, la Cina proverebbe a ridurre il suo surplus commerciale – che lo scorso anno era pari a $ 323 miliardi – a zero entro il 2024.

L’offerta, presentata durante i colloqui a Pechino all’inizio di questo mese, è stata accolta però con scetticismo dai negoziatori statunitensi che tuttavia hanno chiesto ai cinesi di fare ancora meglio, chiedendo che lo squilibrio venga liquidato nei prossimi due anni.

Gli economisti che hanno studiato le relazioni commerciali sostengono che sarebbe difficile eliminare il divario in così poco tempo, a loro avviso sostenuto in gran parte dalla domanda statunitense di prodotti cinesi.

Questo tipo di anticipazioni accompagnate dalla volontà manifestata da Trump di ridurre i dazi appena imposti sulle importazioni dalla Cina sta tra l’altro sostenendo le piazze finanziarie asiatiche e statunitensi, nonostante il vistoso calo della crescita globale.

Appare così evidente che le mosse Usa fatte fin qui hanno – sì – rotto gli equilibri della “globalizzazione”, ma non riescono a produrre gli effetti per cui erano state pensate. Quindi Washington torna indietro rispetto ai rapporti economici con la Cina – pur confermando il blocco per le società tecnologiche come Huawei – e utilizza questa svolta per premere pesantemente nei confronti di una Unione Europea ingessata dalle politiche di austerità.

La Cina, dal canto suo, sta mostrando di voler diventare nel giro di pochi anni la nuova locomotiva dei consumi mondiali. Dopo aver varato, alla fine dello scorso anno, un taglio drastico alle tasse sui salari dei lavoratori (praticamente azzerate), oltre a un piano di incentivi fiscali da 600 miliardi di dollari e infrastrutturali per altri 125, sta mettendo a punto un gigantesco taglio all’orario di lavoro settimanale per i dipendenti pubblici (a parità di salario, naturalmente).

Perché? Come si può leggere nel progetto della provincia dello Hebei (quella che comprende Pechino, con una popolazione di 72 milioni di persone, 12 in più dell’Italia): «Bisogna accelerare la disaggregazione degli ostacoli sistemici più diretti e marcati che restringono i consumi locali e spingere le aree per la crescita di nuovi consumi».

Tra questi “ostacoli” l’orario di lavoro troppo lungo (e ormai inutile, visto che l’informatizzazione del lavoro impiegatizio procede anche più velocemente di quello operaio) è uno dei principali, perché riduce il tempo libero a un periodo troppo breve, dedicato più al riposo che ai consumi. Lavorando invece solo quattro giorni e mezzo su sette si crea il circuito positivo che può far crescere i consumi e sostenere la crescita tramite il mercato interno.

Inutile dire che la Ue, andando con ostinazione in direzione opposta (salari più bassi, nessun limite all’orario di lavoro reale, compressione dei consumi interni, crescita orientata alle esportazioni), si sta suicidando da sola. Per la gioia di Cina e Usa, e creando l’odio popolare che – prima o poi – la travolgerà.

P.s. E’ spassoso, e indicativo, il tono usato dal corrispondente del Corriere da Pechino, nel riferire la notizia. “questo progetto paradisiaco non è disinteressato e non è tanto per il bene dei dipendenti, quanto per spingerli a consumare di più in questi tempi di rallentamento dell’economia”. Anche ammettendo che l’intenzione non sia “pura”, è davvero singolare non accorgersi che un “beneficio per i lavoratori” si traduce – laggiù – anche in un beneficio per l’economia. Mentre da queste parti si sostiene da 40 anni il contrario!

Ma il ridicolo viene superato quando Santevecchi prova a mettere – come in Italia – lavoratori pubblici contro lavoratori privati con il suo tocco finale: “Un ulteriore privilegio per i dipendenti pubblici», dicono i lavoratori delle imprese private, i quali non credono che le loro aziende pagherebbero lo stesso salario concedendo loro più tempo libero. E poi contestano l’ipotesi che gli uffici pubblici chiudano dal venerdì a mezzogiorno: «La nostra burocrazia è già lenta, così diventerebbe impossibile».” Detto da quanti ci raccontano da decenni di un paese “dove lo Stato decide tutto e non c’è libertà” appare quasi sorprendente. Se infatti la riduzione dell’orario a parità di salario – crescente da decenni e arrivato oggi alla parità di potere d’acquisto con quello italiano – è una linea “incentivata dal Partito”, diventerà ben presto regola generale.

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